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Gli orti di Pannella e il "malore attivo" di Pinelli

• da L'Opinione del 17 giugno 2010

di Luca Tedesco

 

P rima di tutto un motivo di stupore. Nel risvolto di copertina del libro-intervista "Le nostre storie sono i nostri orti (ma anche i nostri ghetti)" di Pannella e Stefano Rolando campeggia una citazione di Montale, tratta dal "Corriere della Sera" del 1974, che recita:"dove il potere nega, in forme palesi ma anche con mezzi occulti, la vera libertà, spuntano ogni tanto uomini ispirati come Marco Pannella che seguono la posizione spirituale più difficile che una vittima possa assumere di fronte al suo oppressore: il rifiuto passivo. Soli e inermi, essi parlano anche per noi". Bene; a pagina 13 del volume, nella citazione. accanto al nome del leader radicale appare anche quello di Andrej Sacharov. Perché, allora, ci domandiamo, nel risvolto di copertina, il nome dello scienziato e dissidente russo è stato espunto? Perché ci si è decisi a questa, modesta, trascurabile, si obietterà, ma comunque oggettiva operazione di manipolazione che non fa onore a Marco Pannella, ignaro. crediamo, della vicenda, e per la sua storia e per il patto siglato con il coautore. che prevedeva che egli non rileggesse neanche una riga della lunga intervista?
Questa poi, probabilmente non rivela granché di più di ciò che un radicale militante. storico, già non sappia ma per chi non è addentro alla storia radicale o ha vissuto solo ai margini di essa o t’ha attraversata da turista (o usata come un taxi per approdare ad altri lidi, cosa peraltro assolutamente lecita per Pannella per il quale il tradimento è un termine non dotato di senso) e non da compagno di lotta, il capitolo, tanto per fare un esempio, dedicato al "Sessantotto, Pasolini, Sciascia e altro" vale come e forse più di tanta manualistica sul Novecento italiano. Ecco. da docente universitario penso che potrebbe essere una utilissima lettura da proporre agli studenti, per disorientarli, rovesciando loro addosso non solo i nomi di Pasolini e Sciascia, ma anche quelli di Vittorini. Terracini, Carandini, Piccai-di, Morante, Capitini, Segre, Vigezzi, Spinazzola e i casi Braibanti, Tortora e Pinelli, e per costringerli così a seguire fili rossi che non troverebbero presso altre latitudini.
Proprio il caso Pinelli, però. spinge anche il lettore più avvertito, più consapevole delle cose radicali, a farsi delle domande e a volerle girare allo stesso Pannella. Sfogliando "La notte che Pinelli" di Adriano
Sofri, uscito lo scorso anno, troviamo il leader radicale tra i numerosissimi firmatari del famigerato appello apparso il 13 giugno 1971 sulle colonne dell’ "Espresso" in cui si individuava in Luigi Calabresi colui che portava "la responsabilità" della fine del ferroviere anarchico e si ricusavano i "commissari torturatori". Il processo che avrebbe coinvolto il capo dell’Ufficio Politico della questura milanese, Antonino Allegra, Calabresi ed altri ufficiali e sottufficiali di polizia e dei carabinieri, processo che si sarebbe peraltro concluso con il proscioglimento di tutti gli imputati, tranne Allegra, amnistiato, era di là da venire e stupisce che il da sempre garantista Pannella abbia potuto apporre preventivamente la firma a una sentenza di condanna. Ma forse così non è stato. A sfogliare i numeri dell’ "Espresso" del giugno 1971, infatti, il nome di Pannella non si trova. Sofri scrive che l’appello "raccolse un numero imponente di adesioni, pubblicate nell’arco di tre settimane. Quando la pubblicazione si interruppe, le firme continuavano ad aggiungersi" (p. 191). Tra queste ultime ci fu anche quella di Pannella? Ci saremmo aspettati che l’intervista, che ricorda come durante la prima marcia antimilitarista radicale Pinelli avrebbe confidato a Pannella come Calabresi fosse "diverso", più incline al confronto degli altri commissari, chiarisse questo punto. Ma così non è.
Di più; nel settembre 2008, nella consueta conversazione radiofonica a Radio Radicale con Massimo Bordin, questi avrebbe detto: "Il caso Pinelli è una vergogna che lo stato italiano deve ancora sanare, mentre siede in Parlamento il giudice che chiuse il suo caso dicendo che in questura Pinelli ebbe un
‘malore attivo" (citiamo dal "Corriere della Sera" del 15 settembre 2008, p. 11). E Pannella avrebbe aggiunto "è il fascismo dell’antifascismo". Ora, non credere a una sentenza, e ci mancherebbe altro, è assolutamente legittimo come è legittimo osservare che se di malore si è trattato, la lunga, illegale, durata del fermo cui Pinelli fu sottoposto può averlo provocato. Ma invece per Pannella e Bordin non di "malore attivo" è morto Pinelli, a cosa, secondo loro, è da addebitare la sua fine?


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