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Il fracasso incessante delle stoviglie sbattute contro le sbarre, per ore. L’eco che rimbomba nei corridoi. Che inclemente rinnova ciascun colpo, imponendo un nuovo battere laddove ci si attenderebbe un levare. Espressioni di un disagio profondo che si diffonde e s’impenna, come il caldo che incalza con l’estate. Sintomi della temperatura che sale in carcere più che fuori e accende gli animi. Non sono altro che degli s.o.s., questi rumori molesti per qualunque orecchio. Richieste di attenzione, oltre che di aiuto. E di rispetto. Rispetto della legge, innanzitutto, che in nessun cavillo ammette una mortificazione tale della dignità . Dei diritti fondamentali, quelli umani, universalmente riconosciuti. Genova e Firenze. E poi Vicenza, Novara, Milano. E Padova, ancora.
E’ ampia la mappa dei disordini che nelle settimane scorse hanno dato corpo al malessere dei reclusi nelle nostre galere. Al Marassi due agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti per far fronte alle intemperanze di un detenuto. Il giorno seguente, nello stesso istituto - hanno reso noto i sindacati - la polizia ha intercettato una bottiglia lanciata dall’esterno contenente questo messaggio: Torino, Roma, Milano, Napoli, Genova dalle 21.30 alle 23», indicazioni, forse, per inscenare contemporaneamente una protesta in diverse carceri. A Brescia un detenuto ha tentato di uccidersi tagliandosi la gola, ma è sopravvissuto. LuÃgà Coluccello e Francisco Caneo, che si sono impiccati a poche ore di distanza nel carcere di Lecce e in quello milanese di Opera, invece ci sono riusciti: sono morti entrambi. Portando così a 31 il numero dei suicidi nei primi sei mesi del 2010 e a 89 il totale delle morti (al 13 giugno ndr).
Questi i numeri di una strage ordinaria, che si consuma nelle galere italiane da tempo, ormai, con la stessa costanza. L’Osservatorio permanente sulle morti in carcere fa infatti sapere che dal I° gennaio del 2000 ad oggi si sono contati tra i detenuti 1687 decessi, di cui 585 per suicidio. Dunque 150 morti circa e 50 o 60 suicidi ogni anno. Cifre drammatiche, che però sembrano smentire il carattere emergenziale del problema, facendo invece emergere un quadro ancora più allarmante - se possibile - per la sua stabilità . Uno scenario in cui, tra l’altro, la scelta di togliersi la vita si afferma come via di fuga. Fuga da quel sovraffollamento che divora spazio vitale, ossigeno per la mente e per il corpo che l’inattività conduce all’asfissia. Neutralizzare il rischio di suicidio sarebbe ovviamente impossibile. Ma non far nulla per prevenirlo, nulla per migliorare la qualità della vita delle migliaia di reclusi che scontano la pena, o attendono giudizio in condizioni spesso disumane, avrebbe gli stessi effetti di un’istigazione.