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Male e umana responsabilità. Confronto tra Jaspers, Arendt e Anders in un libro di Giuseppe Moscati

29 giugno 2010

di Francesco Pullia

Karl Jaspers, Hannah Arendt, Günther Anders, tre filosofi profondamente diversi ma accomunati dall’esigenza di opporre al totalitarismo e alla violenza una reazione che vada oltre l’enunciazione di un generico disagio. Ad un loro serrato raffronto è dedicato l’agile ma denso “Etos del sacrificio, passione per il mondo e filosofia d’occasione” di Giuseppe Moscati edito da Graphe.it, uno studio, presentato da Mario Martini, interessante ai fini di una ricognizione di come il pensiero nel Novecento si sia rapportato agli eccessi del potere (Dolci avrebbe, più correttamente, parlato di “dominio”).

 

Al centro dell’analisi c’è il male nella forma assoluta dinanzi a cui è chiamata a porsi e farsi valere la responsabilità (inter)soggettiva (Jaspers), oppure colto nella sua banalità (Arendt) o, ancora, come esito di un’azione compiuta all’interno di un apparato burocratico (Anders). A quest’ultimo proposito, Anders definisce gli uomini contemporanei come “figli di Eichmann”, cioè eredi di Adolf Eichmann, il funzionario nazista che in milletrecento pagine di manoscritti ebbe la sfrontatezza di argomentare d’avere semplicemente eseguito ordini cui sarebbe stato impossibile sottrarsi.

 

All’indifferenza, altrettanto colpevole della collusione, deve contrapporsi, nella visione jaspersiana, l’intreccio gandhiano di libertà e responsabilità. Si tratta di disvelare, ricorrendo alla pienezza della comunicazione, l’occultamento della negatività operato da un regime soggiogante. Il divario netto che viene, quindi, a presentarsi è tra verità e menzogna intesa come collante del totalitarismo.

 

Inserendosi nell’orizzonte kantiano, Jaspers perora un nuovo assetto pacifico mondiale. Il fatto che finora non si sia realizzato non giustifica affatto l’abbandono del perseguimento spassionato di un fine. Anzi, in quest’ottica, viene recuperato il senso del sacrificio, di un atto cioè primariamente libero. Chiunque accetti passivamente l’esplicitarsi del male non può che marchiarsi gravemente di una profonda colpa morale.

 

La Arendt, da parte sua, contesta la trasposizione in ambito politico dell’orientamento organicistico secondo cui potere e violenza sarebbero biologicamente riconducibili alla natura umana. Non solo, ma accusa implacabilmente la filosofia occidentale, ultramondana, metafisicamente proiettata alla trascendenza, di non avere in sé connaturato il pluralismo, dal momento che ha considerato l’uomo solo perché costretta dalla necessità e trattato la pluralità incidentalmente. È vero, osserva la pensatrice, che è come se il mondo fosse stato incatenato ad un oscuro sortilegio, tuttavia non bisogna disperare perché il totalitarismo racchiude in sé i germi della propria dissoluzione.

 

La libertà, tiene a sottolineare, ha in sé la possibilità di realizzarsi  qui ed ora, nel mondo. In altri termini, l’emancipazione di una comunità dall’odio, dalla violenza, passa obbligatoriamente attraverso una trasformazione radicale, un’acquisizione di consapevolezza.  La  radicalità del male così come è stato conosciuto nel Novecento deriva dal fatto che esso non è astratto e disancorato dal mondo ma, al contrario, tremendamente, dolorosamente, meschinamente umano, troppo umano.

 

In Anders, infine, i toni della riflessione sono più cupi, pessimisti, più marcatamente segnati dall’esperienza personale. Il soggetto è, infatti, per lui, marcusianamente caratterizzato da uno stato di alienazione in cui pare essersi impantanato l’uomo contemporaneo. Ossessionato dalla probabilità tutt’altro che peregrina di un conflitto atomico, appare principalmente preoccupato dalla necessità di rendere consapevole il più largo numero di esseri del rischio di una vera e propria sparizione da questo mondo. Bisogna, ad ogni costo, evitare di rendere il male incomprensibile agli uomini che ne sono coinvolti. Antiquato è, infatti, l’uomo che si mostra inadeguato di fronte a se stesso. Per questo è importante scuotere dubbiosi e indifferenti, “rendere perpetuamente inquieti gli ottimisti di professione” perché dopo la morte di Dio e la possibile morte dell’uomo sarà inevitabile la morte della storia.

 

In definitiva, come giustamente mette in evidenza Moscati, sia pur con accentuazioni e declinazioni differenti, Japsers, Arendt e Anders hanno riflettuto sull’idea della violenza come paradosso e sulla possibilità di opporre alla disumanità un atteggiamento che non sia né rinunciatario né giustificazionista: “ovunque e ogni volta vi sia violenza, l’uomo è chiamato a tendere il più possibile se stesso nella ricerca quantomeno del male minore con cui risponderle”.

 



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