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Un galantuomo in toga

• da L'Opinione del 30 giugno 2010

di Rosamaria Gunnella

Ha lasciato tutti sgomenti l’improvvisa morte di Pietro Milio, noto penalista siciliano ed ex senatore radicale, stroncato all’età di 66 anni, da un infarto durante un convegno sabato pomeriggio al Castello Utveggio a Palermo. Una notizia arrivata come un fulmine a ciel sereno, nonostante i due by-pass con i quali Milio conviveva ormai da anni, ma che non gli avevano impedito di intraprendere tante battaglie in nome della giustizia e della verità. Aveva appena finito il suo intervento al convegno su "Stalkíng, delitto di atti persecutori, dalla teoria alla pratica", quando dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua si è accasciato sul tavolo, davanti agli occhi increduli dei presenti, secondo i quali nulla poteva presagire quello che sarebbe successo. Una vita divisa tra le aule di giustizia e la passione per la politica: dopo aver aderito al Pii, nel 1994 entrò per la prima volta a Montecitorio con la lista Patto per l’Italia e nei 1996 a Palazzo Madama come unico esponente della Lista Marco Pannella.
Nel 2005 non aveva condiviso il passaggio della Rosa nel Pugno al centrosinistra e aveva partecipato alla costituzione dei Riformatori liberali. Un vero galantuomo fuori e dentro il Tribunale, un uomo di altri tempi che svolgeva la sua professione con passione e dedizione, fermezza e serietà.
Milio fu il difensore storico di Bruno Contrada, l’ex dirigente del Sisde prima assolto e poi condannato a dieci anni per associazione mafiosa, che aveva assistito fin dal giorno del suo arresto (la notte di Natale del 1992) e che per i lunghi tempi del processo - un’odissea durata ben 15 anni - gli è stato sempre vicino, come avvocato e amico, perché persuaso (e lo ripeteva spesso) che "Bruno Contrada è un uomo dello Stato, immolato per ragioni politiche non di giustizia né di verità".
La vicenda di Contrada segnò umanamente Milio, convinto che quel processo fosse politico. Non a caso assumendone all’inizio il patrocinio, affermò: "Assisto un condannato a essere condannato". Un’altra battaglia giudiziaria lo aveva visto al fianco del generale Mario Mori, assolto per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina e attualmente imputato - insieme al colonnello Mauro Obinu - nel processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e per la presunta trattativa tra Stato e mafia. Un processo difficile e ancora in corso, di cui l’avvocato Milio aveva parlato in due interviste a l’Opinìone, ritenendo, con quell’indimenticabile sorriso ironico che lo caratterizzava, che "se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla valenza politica di questo processo sarebbe un imbecille!". Era un piacere parlare con Piero Milio, era un piacere intervistarlo per la sua disponibilità e gentilezza, era un piacere ascoltarlo per la sua verve polemica e pungente, era divertente commentare fatti e misfatti di questa Palermo e dei suoi personaggi che luì conosceva bene. Una vita, quella dì Milio, mai al di sopra delle righe, condotta con sobrietà ma anche con tanta passione per la sua professione. L’amore per la giustizia e per la toga io aveva portato da Capo D’Orlando - sua città natale e dove amava rifugiarsi, quando il lavoro lo permetteva - a Palermo, dove si laureò in giurisprudenza e mosse i primi passi nell’avvocatura frequentando lo studio di Girolamo Bellavista, noto avvocato del capoluogo siciliano e professore di Procedura penale all’Università di Palermo. Negli anni ‘80 aveva partecipato al maxi processo come patrono di parte civile del Comune di Palermo, quando era sindaco Leoluca Orlando, e sempre in quegli anni aveva assistito il primo "pentito" del filone mafia e appalti, il geometra Giuseppe Li Pera. Con la scomparsa di Pietro Milio viene meno all’avvocatura siciliana un personaggio dalla complessa esperienza nell’intreccio della cultura politica liberale, con un alto senso dello Stato e conoscitore dei meccanismi parlamentari. Un uomo che esercitava la sua professione con orgoglio e con la coscienza di servire la giustizia con un profondo sentimento umano, rispettando la magistratura non per dovere ma per convinzione, pur nella rigorosa e a volte dura dialettica giudiziaria. Lascia un’eredità morale ai due figli, uno avvocato, l’altra psicologa, e alla società siciliana il ricordo di un uomo che rifiutò altre lusinghiere offerte politiche pur di rimanere libero, secondo la sua cultura laica, che vuole l’uomo protagonista e non opportunista al servizio di una società di uomini liberi.



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