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Il "caso Braibanti", metafora di un'Italia tra vecchio e nuovo

• da Il Secolo d'Italia del 1 luglio 2010

di Pier Paolo Segneri

 

Tutto iniziava esattamente cinquant'anni fa. Scrittore, filosofo, poeta e sceneggiatore. Aldo Braibanti, con i suoi assemblage, parteciperà alla biennale di Venezia, ha pubblicato con Feltrinelli, lavorò in Rai, ma è rimasto nella memoria per essere stato al centro di un caso giudiziario che, all'epoca, suscitò molto scalpore. Un "caso" che oggi ci aiuta a capire un po' meglio la storia del secondo dopoguerra repubblicano e della rivoluzione dei costumi e della mentalità che si sviluppò in quel periodo. Il dibattito sul'68, infatti, che lo stesso Gianfranco Fini ha contribuito a liberare dai troppi stereotipi in circolazione, va forse arricchito di un altro importante tassello, di un episodio, di una vicenda che potremmo definire emblematica di quel periodo e che, perciò, è necessario tornare a rileggere, per poterla raccontare anche a chi non l'ha vissuta. La storia, come divevamo, comincia esattamente cinquanta anni fa, nel 1960, quando Aldo Braibanti, un professore gay, si ritrovò a trascorrere l'estate in compagnia di Piercarlo Toscani, un elettricista 19enne. Nulla faceva ancora presagire quanto sarebbe accaduto alcuni anni dopo: un processo, una condanna, il carcere. Dopo quella estate, Braibanti visse anche per un periodo insieme a un 18enne, Giovanni Sanfratello, che aveva conosciuto quattro anni prima: un giovane fuggito di casa perché in forte contrasto con i genitori che avevano intenzione di farlo interdire per le sue frequentazioni "sovversive" e con ambienti artistici. Nel 1964, Braibanti venne infatti denunciato. Secondo l'accusa, i due ragazzi erano stati soggiogati dall'intellettuale, che li aveva ridotti a una sorta di "schiavitù mentale". E così, nel 1968, venne condannato per "plagio", cioè per un reato cancellato dal nostro ordinamento dalla Corte Costituzionale soltanto nel 1981. A difesa dello scrittore e professore, indignati e disgustati per la sentenza dei giudici, si mobilitarono Marco Pannella insieme ad alcuni intellettuali come Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Franco Fortini, Umberto Eco. Il regista Marco Bellocchio, addirittura, sfidando il conformismo di quegli anni, testimoniò al processo in favore del professore. Lo stesso Braibanti, nella sua difesa, fece notare che i ragazzi avevano deciso di seguirlo autonomamente e da adulti, senza imposizioni né ricatti né minacce. Durante il processo, il giovane Sanfratello avvalorò questa tesi, mentre Toscani depose contro di lui. Al termine delle udienze, nel 1968, l'imputato venne condannato a nove anni di reclusione, successivamente ridotti a sei e infine a quattro, anche se due gli furono poi condonati. II giudice Orlando Falco, durante il processo, descrisse Braibanti come un «diabolico, raffinato seduttore di spiriti», affetto da «omosessualità intellettuale». Nessuno, fino ad allora, era mai stato condannato in Italia "per plagio". Era la prima volta. Forse la personalità anarchica e libertaria dell'imputato non piaceva ai benpensanti. Fu una sorta di processo per stregoneria, in cui il carisma personale di Braibanti venne addirittura considerato "diabolico" e, come tale, condannato. In realtà, col senno di poi, lo scontro fu innanzitutto di natura alla stagione delle lotte per i diritti civili, alle conquiste per il nuovo diritto di famiglia, ai referendum. Insomma, si era di fronte ai colpi di coda del vecchio costume sociale e bigotto, integralista e censorio, autoritario e ipocrita, che non voleva arrendersi all'idea che fosse giunto il momento di cedere il passo al cambiamento. La condanna suscitò ampia eco in tutta Italia, si mobilitarono soprattutto i radicali con Giuseppe Loteta e Mario Signorino (all'epoca direttore del settimanale Astrolabio) mentre Marco Pannella venne incriminato dai giudici per diffamazione: «Ho mosso loro accuse gravi - replicò il leader radicale - ma sempre precise e motivate, e non furbescamente evocate con quel malcostume del dire non dicendo, dell'uso accorto e inflazionato del condizionale e della negazione retorica, che sono la regola del nostro giornalismo prostituito cui siamo abituati, anche se non rassegnati». Va ricordato che, all'epoca, non esisteva ancora in Italia un movimento che si mobilitasse per i diritti dei gay e per la lotta all'omofobia e che quindi potesse fare di questo processo un caso emblematico. Quello era il contesto.


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