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int. a M. Zenawi -La mia Etiopia rinascerà

• da l'espresso del 2 luglio 2010

di Gianni Perrelli

 

Con l'abito grigio di ottimo taglio e gli occhialini da studioso, ha l'aria compassata del professore universitario più che del leader rivoluzionario di un paese che sotto la sua guida ha attraversato molte tempeste. Il primo ministro dell'Etiopia Meles Zenawi, 55 anni, sposato con tre figlie, non ha mai nascosto che gli sarebbe piaciuto intraprendere la carriera accademica se il destino non gli avesse riservato un ruolo di assoluto protagonista nella storia del Corno d'Africa. Artefice, dopo quasi un ventennio di potere, della rinascita economica del suo paese (82 milioni, otto etnie e oltre 140 tribù, in prevalenza cristiano-ortodossi) che cresce a ritmi cinesi (dal 7 all'11 per cento l'anno) anche se non ha ancora debellato la piaga della miseria. Negoziatore di difficili accordi di pace dopo il coinvolgimento nei principali conflitti dell'area: dal caos infinito della Somalia alle tensioni irrisolte con l'Eritrea. Da giovane Zenawi studiava medicina ad Addis Abeba ed era un fervente sostenitore del marxismo-leninismo. A metà degli anni Ottanta, diventato presidente del Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (la regione natale), condusse dalle sue montagne la lotta di liberazione per deporre il dittatore filosovietico Menghistu Hailé Mariam (oggi in esilio nello Zimbabwe). Con la presa del potere (prima presidente, poi premier, la carica che più conta in Etiopia), si convertì alla socialdemocrazia e al federalismo etnico. Leader dell'Erpdf (Fronte rivoluzionario del popolo etiopico) ha sempre vinto le elezioni. Con margini netti, ma offuscati dalle accuse di brogli delle opposizioni. E questo nonostante la secessione dell'Eritrea (1993), la successiva guerra e gli scontri con il movimento separatista dell'Ogaden. Dopo il successo del 2005, gli scontri di piazza provocarono 200 morti e migliaia di arresti. La consultazione dello scorso maggio è stata preceduta da qualche disordine, ma non ci sono stati bagni di sangue. Il suo trionfo in tutte le regioni era annunciato. Sette anni di progresso economico? e di sviluppo sociale, favoriti da un gigantesco piano di infrastrutture su cui hanno investito cospicui capitali i cinesi, lasciavano scarse speranze alla debole e frammentata opposizione. E nemmeno una gestione dei diritti umani piuttosto controversa (repressione del dissenso politico, limitazioni alle attività delle ong e alla libertà di stampa) poteva granché incidere in una realtà africana dove gli standard democratici sono ancora lontani da quelli occidentali. L'opposizione ha conquistato in Parlamento solo due seggi (su circa 500) anche perché il rivale più pericoloso era stato escluso per via giudiziaria. È il giudice Birtukan Mideksa, 36 anni, madre single di una bimba, leader dell'Unione per la Democrazia e la Giustizia (Udj). Entrò in rotta di collisione con Zenawi già nel 2000 quando emise una sentenza che scagionava un nemico del premier. Dovette lasciare la toga mentre l'imputato fu di nuovo arrestato. Dopo le elezioni del 2005 accusò il potere di brogli e fu condannata per alto tradimento. Liberata nel 2007 dopo aver firmato un documento in cui ritrattava le accuse, girò l'Europa riprendendo a scagliare fulmini contro Zenawi. Le fu fatale, nel 2008, il ritorno ad Addis Abeba, dove le intimarono sulla base dell'accordo scritto di ritirare i nuovi attacchi. Lei rifiutò e fu imprigionata con un provvedimento che riattiva l'ergastolo. Di tutti questi temi Meles Zenawi, un leader che concede pochissime interviste, ha accettato di parlare con "L'espresso" in un lungo colloquio svoltosi nel suo ufficio di primo ministro ad Addis Abeba.
L'Etiopia è il paese più stabile e potente dei Corno d'Africa. Ma è circondato da focolai di tensione. In primo piano la Somalia, una polveriera da cui nel 2009 il suo governo ha ritirato le truppe schierate a favore del governo di transizione contro le Corti Islamiche. «La crisi della Somalia non può essere risolta dall'esterno ma solo con l'insediamento di un esecutivo che riesca a ripristinare la sicurezza. Obiettivo che si può conseguire con tre mosse. Facilitando l'ingresso nel governo transitorio federale dei leader moderati dell'Islam. Perfezionando il grado di addestramento delle forze dell'ordine. Isolando il potenziale militare degli shabaab, i guerriglieri integralisti che hanno confessato i loro legami con Al Qaeda ».
I copiosi finanziamenti americani all'Etiopia hanno soprattutto lo scopo di impedire che Al Qaeda penetri nel Corno d'Africa? «Abbiamo buoni rapporti con gli Stati Uniti. Lavoriamo insieme sui temi della sicurezza e dello sviluppo. Obama considera certamente la nostra stabilità un'arma in più contro l'avanzata degli shabaab. Ma queste sintonie non significano naturalmente che siamo d'accordo su tutto».
Un altro fronte caldo è la frizione con l'Eritrea per la definizione dei confini. «L'unica soluzione è il confronto diplomatico. Ma dopo la guerra l'Eritrea ha rigettato qualsiasi possibilità di dialogo. Ora il governo di Asmara ha aperto sì un'ambasciata ad Addis Abeba, ma presso l'Unione Africana. Con noi si ostina nel silenzio. Stiamo cercando di sbloccare l'impasse contando sulla collaborazione delle massime istituzioni del Continente. Per avviare un negoziato non basta però la buona volontà di una sola parte».
Anche l'Etiopia, come molti altri paesi africani, ha affidato alla Cina la costruzione di importanti infrastrutture. Non teme che il governo di Pechino stia colonizzando tutto il Continente? «La Cina è un nostro partner strategico. Loro fanno sì profitto ma ci insegnano il know how. È uno scambio cruciale, vantaggioso sia per loro che per noi».
L'Europa sembra relegata un po' nelle retrovie nella corsa alle commesse. «L'Europa ci ha finora fornito un aiuto eccezionale per uscire dal sottosviluppo. Ma l'Etiopia ora deve cambiare marcia per sconfiggere definitivamente la povertà. Ci auguriamo che il volume degli investimenti europei raggiunga quello dei cinesi».
Dall'Italia, con cui esistono legami storici, cosa si aspetta? «Ho un buon rapporto con il vostro premier Berlusconi. Gli sono grato per i rischi politici che si è assunto restituendoci l'obelisco di Axum. Il livello degli investimenti italiani è rilevante ma avremmo bisogno di un maggior coinvolgimento del vostro settore privato».
Da sette anni l'economia etiopica cresce a ritmi cinesi. Eppure oltre la metà della popolazione vive ancora in condizioni di sottosviluppo. «Il nostro primo problema è la povertà. li secondo è ancora la povertà. Il terzo è di nuovo la povertà».
Un problema che ha promesso di risolvere entro il 2015. Non è un proposito troppo ambizioso? «Se manteniamo questi ritmi già fra 5 anni avremo superato molte difficoltà. E fra il 2020 e il 2025 il reddito pro capite salirà dagli attuali 300 ai 2000 dollari l'anno».
Lei ha stravinto le recenti elezioni. Ma secondo l'opposizione lo standard della consultazione non ha rispettato i parametri della democrazia. «Le elezioni sono state trasparenti. È stato riconosciuto sia dall'Unione Africana che dalla Ue. Ha vinto il messaggio di fiducia nello sviluppo che il nostro partito è riuscito a trasmettere. È questa la risposta più convincente alle accuse. L'opposizione deve imparare ad ascoltare il popolo».
L'esito sarebbe stato lo stesso se avesse potuto candidarsi il giudice Birtukan Mideksa, la leader dell'opposizione condannata all'ergastolo? «Non sarebbe cambiato niente. Il mio partito ha trionfato anche ad Addis Abeba dove nel 2005 avevamo riportato una secca sconfitta. La verità è che, dopo sette annidi crescita, la gente ha apprezzato i nostri sforzi nella lotta contro povertà e corruzione».
Per stemperare le tensioni e normalizzare i rapporti con l'opposizione non ha pensato a un'amnistia per il giudice Mideksa? «Le era stata già concessa. Ma poi la Mideksa è andata all'estero ed è tornata a muovere accuse senza fondamento contro di noi. Al rientro in patria abbiamo cercato di farla riflettere. È stato tutto inutile. Lei ha insistito nei suoi attacchi. A quel punto la Corte non aveva altra alternativa che ripristinare l'ergastolo».
Ma se oggi la Mideksa cambiasse atteggiamento, sarebbe disposto a concederle il perdono? «Vedremo. Non dimentichiamo però che l'ergastolo non nasce da una decisione politica ma da una sentenza della Corte».
Lei ha detto più volte che le piacerebbe ritirarsi dalla politica. Ma nei fatti sembra motto attaccato al potere. «Mi ritirerò a vita privata fra cinque anni, alla fine di questo mandato».
Vede le partite dei primo mondiale africano? «Sì. Il calcio è lo sport più popolare in Africa. Un formidabile veicolo di partecipazione sociale».
Per chi tifa? «Per il Brasile. Gioca il calcio migliore». Lei è uno dei leader più riservati dei pianeta».
Cosa fa nel tempo libero? «Niente di speciale. Lo trascorro in famiglia, con mia moglie e le mie tre figlie. Faccio esercizi fisici per tenermi in forma. Guardo la televisione. Leggo molto. Saggi di politica e di economia. Per la narrativa non mi resta il tempo».


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