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Israele è migliore dei suoi vicini Per questo ci aspettiamo di più

• da Corriere della Sera del 5 luglio 2010

di Ian Buruma

 

La scelta di Israele di lanciare un commando contro una flottiglia di attivisti pro-palestinesi, nel maggio scorso, è stata brutale. L'uccisione di nove civili da parte di quelle unità ne è stata una terribile conseguenza. L'affermazione del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, che ha definito il raid israeliano contro la barca di attivisti «un attacco alla coscienza dell'umanità» che «merita ogni possibile esecrazione», e «un punto di svolta nella storia» dopo il quale «nulla sarà più come prima», sembra però isterica. Qualunque cosa si pensi dei governi che si sono succeduti alla guida di Israele (io non ho grande stima di quello attuale), le reazioni alla violenza perpetrata dal governo israeliano tendono a essere ben più aspre - e non solo in Turchia - di quelle suscitate dai crimini commessi dai leader di altri Paesi, con l'eccezione forse degli Stati Uniti. Nella mente di molti dei loro accusatori, poi, questi due Paesi sono spesso associati. Israele non ha mai fatto nulla di paragonabile al massacro di più di 20 mila membri dei Fratelli Musulmani attuato nel 1982 dal defunto leader siriano Haffez al-Assad nella città di Hama. Ancora oggi vengono uccisi molti più musulmani da altri musulmani che non da israeliani o americani. E se si pensa al numero delle vittime della guerra civile nella Repubblica Democratica del Congo (più di quattro milioni), parlare di un punto di svolta nella storia dopo l'uccisione di nove persone sembra piuttosto assurdo. Ma nulla sembra pesare quanto quel che fa Israele. E vero allora, come sostengono molti dei suoi difensori, che lo Stato ebraico è giudicato con standard diversi dagli altri paesi? Credo sia vero. In questo l'antisemitismo gioca senza dubbio un ruolo, ma non è la causa principale. Sospetto che molti europei, specialmente dopo la guerra dello «Yom Kippur» del 1973, abbiano tirato un sospiro di sollievo vedendo che anche gli ebrei potevano essere aggressori. La brutalità ebraica alleviava il peso delle colpe della guerra. Il desiderio di superare questo senso di colpa potrebbe anche aver spinto alcuni a esagerare la portata della violenza israeliana. Il vecchio slogan antisemita, diffuso dal giornale nazista Der Stürmer, che «gli ebrei sono la nostra disgrazia», è tornato in circolazione durante il conflitto israelo-palestinese. Ci sono però altre ragioni che spiegano il doppio standard applicato a Israele. Una è quella che il filosofo e attivista liberale israeliano Avishai Margalit ha definito «razzismo morale». Lo spargimento di sangue causato da una popolazione africana o asiatica non è preso sul serio come quello messo in atto da una popolazione europea o bianca. Dopo tutto, direbbero alcuni (e molti di più lo penserebbero), cosa ci si può aspettare da chi è selvaggio? Non sa far di meglio. Questo è, naturalmente, un atteggiamento profondamente coloniale, ma l'eredità del colonialismo lavora contro Israele anche in un altro modo. Come accadeva per il Sud Africa dell'era dell'apartheid, Israele ricorda alla gente i peccati dell'imperialismo occidentale. Israele è considerato in Medio Oriente, come pure da molti in Occidente, una colonia governata da bianchi (anche se molti israeliani che contano hanno le loro radici a Teheran, Fez, o Baghdad). I palestinesi sono visti come sudditi di un dominio coloniale, e più Israele continuerà a occupare territori arabi, più questa percezione troverà conferme. In definitiva, Israele è una democrazia, quindi non dovrebbe essere giudicata con gli stessi standard di una dittatura. Bisogna aspettarsi di più dal governo di Benjamin Netanyahu che, ad esempio, dal regime di Mahmoud Ahmadinejad in Iran, e non perché gli ebrei siano moralmente superiori ai persiani, ma perché Netanyahu è stato liberamente eletto ed è soggetto alle regole di uno stato di diritto, mentre Ahmadinejad ha contribuito a distruggere quanto di democratico c'era in Iran. In un certo senso, chiedere a Israele di attenersi agli standard più rigorosi significa fargli il complimento di trattarlo come una normale democrazia. Se alcuni critici di Israele rifiutano di trattarlo come un Paese normale, lo stesso fanno però alcuni dei suoi più strenui difensori. Invocare un trattamento speciale per Israele in quanto nazione di vittime eredi naturali di chi subì lo sterminio di massa nazista - è ancora un modo di applicare un doppio standard. Il filosofo francese Alain Finkielkraut ha fatto bene a criticare la reazione esagerata di Erdogan al raid contro «la flottiglia per la libertà di Gaza». Ma dicendo che in Turchia il Mein Kampf di Hitler è un bestseller, ha lasciato intendere che i turchi di Erdogan sono dei moderni nazisti. Considerare Israele una nazione di vittime va, in realtà, contro le intenzioni dei suoi fondatori. Essi volevano creare una nuova nazione, una nazione normale, formata da buoni soldati e agricoltori ebrei, diversi dagli ebrei impotenti che avevano subito la persecuzione europea. E solo in seguito, probabilmente a partire dal processo Eichmann del 1961, che l'Olocausto è diventato un punto centrale della propaganda di Stato. Ed è ancor più tardi, con leader come Menachem Begin, che le iniziative militari sono state giustificate facendo riferimento al genocidio nazista. Si può comprendere che tutti gli ebrei, anche quelli israeliani, continuino a essere perseguitati da un passato terribile. Questo non deve però mai essere usato per giustificare un'aggressione contro altri. Israele è un paese immensamente potente - più libero, ricco e meglio armato di tutti i suoi vicini. Che i suoi leader siano chiamati a rispondere delle loro azioni è essenziale, non solo per proteggere i palestinesi da atti brutali, ma per preservare la libertà degli israeliani. Permettere che il passato offuschi la nostra facoltà di critica mina la democrazia israeliana, e potrebbe dar luogo ad altre pericolose conseguenze in futuro.


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