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Una morte lenta, chiusi nell'inferno-lager

• da Il Messaggero del 6 luglio 2010

di Fabio Morabito

Un lager. Un lager nel deserto. Una tomba di cemento rovente, con temperature di quasi 50 gradi, dove sono rinchiusi, stipati, i profughi eritrei che cercavano di arrivare in Italia, e che sono stati catturati dalla polizia libica. Le associazioni per i diritti umani raccontano di questo inferno: poca acqua, poco cibo, condizioni igieniche inesistenti, cure mediche negate. Raccontano della deportazione in container di donne e bambini, della sequela di violenze, e chiedono al governo italiano di intervenire. Sono oltre duecento (245, secondo alcune fonti) gli eritrei detenuti nel carcere libico di Braq, a Sebah, nel Sahara. Sono rinchiusi da sei giorni. Tripoli intende rimandarli in Eritrea. Dove per loro sarà, se possibile, peggio. Dove, denuncia Amnesty International, saranno torturati. Questi profughi, uomini donne e bambini, sono accusati di due cose. Di essersi ribellati nel carcere libico di Misurata, dove sono stati detenuti fino alla fine di giugno. E di non aver, firmato un modulo. Sì, un modulo. L'accettazione volontaria di rimpatrio. Che poi naturalmente volontario non è. Un modulo apparentemente inoffensivo; ma che è una schedatura: dati biografici, data di partenza dall'Eritrea, tempo di permanenza in Libia, il desiderio (eventuale) di ritornare nel proprio Paese. Quest'ultima domanda avrebbe messo in allarme i profughi. Una domanda senza senso: se uno è scappato dal suo Paese, perché vorrebbe ritornarci? Se uno è scappato dal suo Paese, che è una dittatura, e viene rimpatriato con la forza, che destino si può aspettare? Si temono rappresaglie sulle famiglie. E' stata denunciata la scomparsa di almeno tre rifugiati, "prelevati" dal carcere di Braq. Le associazioni per i diritti umani chiedono di poter visitare la prigione. Ma il governo libico ieri ha annunciato la decisione di rimpatriare 260 profughi del Niger, paese retto da una giunta militare, paese esportatore di uranio. Gli eritrei, per ora, restano nella prigione nel deserto. Mentre la Libia ha autorizzato la riapertura della sede dell'Alto Commissario dell'Onu per i rifugiati a Tripoli, che era stata costretta improvvisamente alla chiusura. E qui la Farnesina avrebbe fatto la sua parte, che ci tiene a definire di «amichevole sensibilizzazione». Gli appelli all'Italia per salvare i prigíonieri eritrei si moltiplicano. «Ripetiamo con forza la nostra richiesta al governo italiano di trasferire i rifugiati in Italia» dice Christopher Hein, direttore del Cir, Consiglio italiano rifugiati. Ma perché l'Italia dovrebbe avere un ruolo, e soprattutto avere una responsabilità? Perché tra questi sventurati ci sarebbero i profughi respinti l'anno scorso dalla Marina italiana. E perché dietro le quinte di questa vicenda c'è l'accordo tra Italia e Libia per il respingimento degli immigrati, condannato anche dal Vaticano. Un accordo che ha permesso al governo italiano di vantare successi, fino a qualche anno fa insperati, nel controllo degli sbarchi di clandestini. Successi che costano un prezzo altissimo in diritti umani. E che pongono una questione delicata di diritto internazionale. I fuggiaschi eritrei sono stati respinti, anche se molti di loro potrebbero avere il diritto di vedersi riconosciuto lo "status" di rifugiato politico. Una responsabilità che Roma nega di avere. L'Italia, dice Maurizio Massari, portavoce della Farnesina, «pur comprendendo l'aspetto umanitario, è pronta a fare la sua parte ma nel quadro di un'azione dell'Unione europea» rimarcando «di non considerare questo un problema bilaterale tra Italia e Libia». Roma chiede che l'Europa divida gli oneri, magari facendosi carico "pro quota" dei rifugiati.



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