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"Ho visto cose che voi umani..."

• da Gli Altri del 9 luglio 2010

di Sergio D'Elia

“Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, ammoniva Voltaire. Luigi Morsello, le carceri, non le ha solo osservate, le ha anche dirette, inaugurate, amministrate, attrezzate e riparate. Per rendere più dignitosa la vita dentro e, nel suo piccolo, più civile l’immagine fuori del suo Paese, oltre al custode, ha dovuto imparare a fare anche il ragioniere, l’elettricista, il muratore, il falegname, l’ingegnere e pure l’inventore. Morsello è attualmente in pensione, ma negli anni difficili che vanno dal 1969 al 2005 ha diretto sette istituti ed è stato in “missione” in altri ventidue. Le sue memorie di direttore di carceri itinerante sono finite in un volume, La mia vita dentro (Infinito edizioni), che ha scritto con la collaborazione dei giornalisti Francesco De Filippo e Roberto Ormanni. Un libro avvincente, che leggi tutto d’un fiato, come accade nelle storie in cui ci sono buoni e cattivi, guardie e ladri. Non so in quale delle due parti collocare Morsello, perché dal racconto emerge un personaggio singolare in cui convivono umanità e severità, ragionevolezza e rigore, durezza e tenerezza, senso della legge e senso pratico. Attento alle condizioni di vita dei detenuti-detenuti e a quelle dei semi-detenuti che alla fin fine risultano essere direttori, agenti di custodia, assistenti sociali, educatori e altri componenti la comunità penitenziaria. Morsello è un tipo che i problemi non li pone, ma tenta di risolverli. Sono innumerevoli gli episodi del libro in cui racconta di soluzioni, anche ingegnose, per risolvere problemi complicati e di soluzioni immediate ai problemi semplici che spesso vengono complicati dalla burocratica e opaca amministrazione carceraria.
Una sua fissazione, quella dei “conti”, può rendere l’idea del personaggio. Appena arriva in un carcere, la prima cosa che fa è verificare e mettere a posto la contabilità, premessa della buona amministrazione generale. Quando lo mandano in “missione” a dirigere un altro carcere, foss’anche solo per un mese, esige e ottiene di portarsi dietro un ragioniere di fiducia per ristabilire la corretta tenuta dei conti.
Nel carcere di San Gimignano, con i primi computer messi a disposizione dalla Olivetti e una stampante ad aghi, fa attivare il primo programma di gestione degli stipendi degli agenti e delle mercedi dei detenuti quando all’epoca ogni carcere provvedeva manualmente alle due operazioni.
All’isola di Gorgona mandano lui quando Dalla Chiesa ha in mente di installare una sezione speciale per terroristi. Trova il totale disordine della gestione contabile, l’elettricità che va e viene e l’acqua che non sale dai pozzi. Finita la missione, va via lasciando i registri contabili perfettamente a posto, due gruppi elettrogeni in grado di funzionare, una motopomba nuova e due di riserva per tirare su l’acqua potabile.
Viene mandato in missione anche a Pianosa, quando nella famigerata diramazione Agrippa sono rinchiusi 80 “irriducibili” e si ha sentore di un assalto dal mare per liberarli. A parte il solito caos contabile, nell’isola-monumento della lotta al terrorismo, trova la caserma agenti senza riscaldamento, nessuna scorta di gasolio e i vetri rotti alle finestre che già non hanno gli scuri. Le torrette di sorveglianza sulla costa sono illuminate con le candele rubate alla chiesa, i collegamenti telefonici tra un posto e l’altro dell’isola sono quasi sempre interrotti e i walkie-talkie hanno finito le batterie. Se ne va dopo un mese di missione, ma almeno lascia i conti in ordine e le finestre coi vetri, il riscaldamento in funzione e una riserva di gasolio, i fornelletti di illuminazione tipo camping gaz nelle torrette e le pile per i walkie-talkie.
Il libro, ovviamente, parla di rivolte e di evasioni, di sequestri di guardie e relative punizioni, di fatti tragici e allo stesso tempo comici. Come quando, nell’agosto 1975, durante un tentativo di fuga a San Gimignano due detenuti sequestrano sette guardie e chiedono la classica macchina veloce e un salvacondotto. Lui consiglia di prenderli per sfinimento e si oppone ad atti di forza come pure a tentativi velleitari di “parlamentare” coi rivoltosi. Viene esautorato, col risultato che gli ostaggi in mano ai detenuti da sette diventano sedici, tra cui due magistrati e cinque giornalisti, e la vicenda si risolve tragicamente con un detenuto ammazzato da un cecchino.
Negli Anni di Piombo, Morsello va in giro per le carceri della Toscana con un appuntato che gli fa da autista e guardia del corpo, il Mab d’ordinanza e la sua pistola privata. Con il Mab sparano solo ai conigli selvatici dal ciglio della strada che va da San Gimignano a Lucca. La pistola la usa una volta sola, nel 1992, non contro i brigatisti ma per togliersi la vita. Una serie di ingiustizie e vessazioni lo ha fatto cadere in depressione. I primi sintomi si manifestano nel 1981, dopo la fuga da San Gimignano di Gianni Guido, condannato per la strage del Circeo. Morsello quel giorno non c’è, ma non se la sente di buttare la croce addosso al comandante. Si assume la responsabilità oggettiva dell’evasione – il direttore era lui – e i giudici la tramutano subito in responsabilità penale: viene condannato per evasione, l’unico direttore, forse, nella storia d’Italia a essere condannato per questo reato. Per punizione viene trasferito a dirigere la Bellaria di Lonate Pozzolo, un carcere fantasma, senza muro di cinta, senza recinzioni e senza sbarre alle finestre. Seguono altri trasferimenti in carceri inesistenti. Si spara al cuore nel settembre del ’92 ma per fortuna uno spostamento millimetrico della traiettoria gli impedisce di morire.
“La situazione nelle carceri è pericolosissima: serve l’indulto,” ha detto Morsello un mese fa alla presentazione del libro organizzata nella sede del Senato dai Radicali e dall’associazione Il Detenuto Ignoto. “Il sovraffollamento delle carceri è endemico e dovuto a leggi criminogene come quelle sulla droga e l’immigrazione clandestina, oltre al fatto che il nostro codice prevede duecento reati che potrebbero essere declassati a sanzioni amministrative.” Per fortuna, ci sono stati e ci sono ancora tipi così nell’amministrazione penitenziaria, che fanno e rendono conto, tentano di tappare un buco in un sistema che fa acqua da tutte le parti, riparano qualche danno provocato dall’illegalità vigente. Altrimenti, il disastro sarebbe completo e irreversibile.



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