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Da quel che si può vedere dalle fotografie, i manifesti anonimi apparsi nel centro di Napoli a sostegno del sottosegretario dimissionario Nicola Cosentino non sono passati per l'ufficio affissioni del Comune e come tali dovrebbero essere "abusivi". Del resto l'abuso di manifesti ha sempre caratterizzato la comunicazione politica napoletana dal dopoguerra in poi. Nelle campagne elettorali e non solo. Peraltro non sempre l'utilizzo spropositato di manifesti ha giovato a coloro in favore dei quali erano stati affissi. Di certo in molti casi ha anche avuto effetti soprattutto comici per non dire ridicoli. Del tipo Totò e Peppino, appunto. Vediamo qualche esempio. A metà degli anni cinquanta, in occasione di una campagna elettorale, un dissidente monarchico, tale onorevole Calabrese, aveva presentato una sua lista affiggendo molti manifesti nei quali campeggiava la scritta, rigorosamente in vernacolo: «Si vo' bene a sto' paese vota a lista e' Calabrese». Immediata la replica dei monarchici ufficiali che, accanto ad ogni manifesto del dissidente, ne affissero un altro, anch'esso in vernacolo: «Si o' vo' bene o' veramente nun vutà pe' stu' fetente». La lista di Calabrese alla fine restò ben lontana dal quorum. Anni dopo le cose andarono appena un po' meglio al senatore liberale Chiariello, che riempì la città di lussuosi (quanto alla grafica) manifesti dallo slogan: «Tu al Senato con Chiariello». Erano gli anni nei quali spopolava una canzone di Enzo Iannacci. E così anonimi affissori accompagnarono quei manifesti con una striscia nella quale si leggeva: «Vengo anch'io? No tu no». Il titolo della canzone appunto. Chiariello cela fece, ma con difficoltà . Più modesto, negli anni'70 il caso di una candidato casertano del Pri, dall'eloquente cognome: Sapone. Ingenuamente il candidato, che era anche titolare di una lavanderia, riempì i quartieri centrali di Napoli di manifesti dallo slogan un po' ovvio: «Per un'Italia pulita votate Sapone». Naturalmente il risultato elettorale fu modesto: poche centinaia di voti e quasi tutti nel casertano. A Napoli, dove c'era stato il massimo sforzo finanziario e organizzativo in manifesti, un po' meno di 30 voti. Né va dimenticato il caso di una lista laica, repubblicana e radicale i cui dirigenti, in occasione di un'elezione amministrativa a Napoli, parafrasando il titolo di una fortunata inchiesta del settimanale "L'espresso", «Capitale corrotta, nazione infetta», commissionarono ad un artigiano uno striscione sul quale si sarebbe dovuto leggere: «Capitale corrotta, comune infetto». Ma, ahimè, il tabellista era quasi completamente analfabeta. Il risultato fu che lo slogan divenne: «Capitale corrotta, comune in feto». Denari buttati. E, visto che altri mezzi finanziari non c'erano la campagna elettorale (conclusasi con risultati modestissimi) fece a meno dello striscione. Come si vede anche gli anonimi supertifosi del sottosegretario Cosentino hanno precedenti, se non illustri, almeno divertenti. Resta il fatto che, il più delle volte, i manifesti di voti ne procurano pochi e (visto che siamo a Napoli) di "monnezza" ne producono sempre molta di più.