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La provincia dei bipartitici

• da Left del 16 luglio 2010

di Aldo Garzia

Non c'è pace nella politica italiana. Eppure, rispetto ad altri Paesi europei, gli indici di gradimento del governo non sono sotto i tacchi. Ne fa fede il risultato delle elezioni regionali di primavera, dove il centrodestra ha conquistato il Piemonte e riconquistato il Lazio. Perfino l'odiata manovra finanziaria, pur sollevando polveroni tra gli enti locali e qualche isolata categoria, ha la sola opposizione sindacale della Cgil e quella politica di Pd e Idv. Rispetto a Silvio Berlusconi, stanno indubbiamente peggio Angela Merkel in Germania e Josè Luis Rodríguez Zapatero in Spagna. La crisi italiana sembra più politica che sociale, anche se è difficile disgiungere un Paese in declino in molti settori economici dalla marcescenza del suo sistema politico. Ma è il dato politico che colpisce più di tutti. In un altro Paese europeo, sarebbe difficile che un governo scricchioli per contraddizioni interne pur avendo salde maggioranze numeriche alla Camera e al Senato. E sarebbe del tutto incomprensibile la conflittualità strategica, tra il premier e il presidente di una delle Camere che insieme hanno fondato un nuovo partito. Del resto, per fortuna dell'Europa, di Berlusconi ce n'è uno soltanto. Non ci sono altri leader che non accettano correnti di minoranza e libero dibattito nel proprio partito, o che abbiano fatto della "questione giudiziaria" il proprio assillo rispetto alle emergenze sociali ed economiche della crisi. Il dato di questa estate italiana è il divorzio tra Berlusconi e Fini. Che poi significa il fallimento dell'unificazione tra Forza Italia e Alleanza nazionale. Bisogna solo aspettare se uno (Berlusconi) caccerà l'altro o se l'altro (Fini) aprirà la crisi di governo. Ingessare il partito del centrodestra italiano in un modello unico, per di più a guida dittatoriale, è stato un errore di cui Fini si sta pentendo. A lui è accaduto quello che era già capitato a Marco Follini e Pier Ferdinando Casini, quando erano al governo con Berlusconi (2001-2006): osi obbedisce al capo o la collisione è inevitabile. Per Fini, c'è l'aggravante di essere il cofondatore del Pdl. Per sfuggire alla presa di Berlusconi, per mantenere aperta l'ipotesi che in Italia sia possibile costruire una destra né fascista né populista, il presidente di Montecitorio deve siglare il divorzio dal partner e aprire la crisi di governo in autunno. Su intercettazioni e legalità, cioè senso dello Stato e delle istituzioni, il dissenso assomiglia a uno strapiombo sull'oceano. Se si vuole riflettere oltre i dati della pura cronaca, che pure nelle ultime settimane ci offre una sequenza che fa rabbrividire (caso Scajola, caso Brancher, condanna in appello per mafia a Dell'Utri, caso Verdini e caso Cosentino, l'affiorare di una P3), bisogna tornare a guardare alla fisiologia del sistema politico. Il bipartitismo è una gabbia innaturale che si sovrappone alla storia italiana. Pensare di mettere insieme Forza Italia, un partito non partito, con Alleanza nazionale, uno dei pochi partiti tradizionali sopravvissuti a Mani pulite, è stato errore. La nascita del Pdl non ha risolto il problema della rappresentanza della destra italiana. Oggi ci sono più tratti di attiguità tra Berlusconi e Umberto Bossi, tra Pdl e Lega in nome del populismo, che tra il Pdl e la pattuglia dei finiani. Lo stesso problema di riorganizzazione muove il "centro", dove tra Pier Ferdinando Casini (Udc) e Francesco Rutelli (Api) si sta ragionando - in attesa dell'arrivo di Luca Cordero di Montezemolo - sulla possibilità addirittura di far nascere un "partito della nazione" in grado di attrarre, seppure tatticamente, pure Fini che verrebbe messo con le spalle al muro da Berlusconi se quest'ultimo cercasse la via delle elezioni anticipate tra marzo e aprile del 2011. Che il pluripartitismo italiano fosse eccessivo era indubbio (i più giovani si sono risparmiati gli anni dei "governi pentapartito"). Che la prospettiva della forzatura della rappresentanza grazie a un'ignobile legge elettorale maggioritaria senza preferenze - ultimo approdo della distruzione della proporzionale fosse la soluzione non era scritto da nessuna parte. Chi conosce la storia politica del dopoguerra sa che in realtà a contare sono stati essenzialmente tre poli: conservatore intorno alla Dc, centrista intorno a repubblicani, liberali e socialdemocratici con l'aggiunta (negli anni del craxismo) dei socialisti, di sinistra organizzato attorno al Pci. Non c'era in quell'assetto una destra di governo per via del fascismo, da cui erano stati partoriti dopo il 1948 sia il Movimento sociale sia il Partito monarchico. A un certo punto, qualcuno (Walter Veltroni nelle elezioni del 2008 come candidato premier del centrosinistra) ha addirittura pensato che al bipolarismo - che è altra cosa - potesse seguire un bipartitismo imperfetto: Pdl da una parte (più la Lega), Pd dall'altra (più l'Idv e Radicali in accordo elettorale). Su questa idea di fondo è in fin dei conti nato il Pd, con l'illusione di poter raccogliere in un unico partito le migliori tradizioni del progressismo italiano. La "transizione Italiana", il periodo che inizia dopo Tangentopoli, più che indirizzarsi verso riforme che modernizzassero senza stravolgere il nostro sistema politico ha inseguito modelli prima bipolari e poi bipartitici. Se il Pdl è nato su un predellino di una manifestazione a piazza San Babila a Milano, il Pd è nato con l'accelerazione dovuta a un colloquio tra Romano Prodi e Massimo D'Alema in cui quest'ultimo disse quelle che possono essere definite, ironicamente s'intende, le ultime parole famose: «Caro Romano, non puoi fare il premier senza avere alle spalle un partito. Il Pd va fatto in fretta». Il risultato, a qualche annodi distanza, è che del Pd non fanno più parte due "cofondatori": Prodi e Rutelli. Lo stesso sta per accadere nel Pdl, dove si sta consumando l'addio tra Berlusconi e Fini. E di divorzio si torna a parlare pure nel Pd tra gli ex Margherita (quasi tutti, per la verità, ex Dc) e gli ex Ds (stanchi di non potersi nominare neppure socialdemocratici e di dover mettere nel cestino quella bella parola, ricca di significato e storia, che è "compagni"). Il paradosso italiano è che mentre avanzava da noi questa marcia forzata verso bipartitismo e bipolarismo, in Europa si assisteva al fenomeno opposto. Nelle elezioni tedesche di un anno fa la sorpresa è stato il Partito liberale di Guido Westerwelle, attualmente ministro degli Esteri, che rompeva lo schema bipartitico socialdemocratici della Spd (più Verdi) contro conservatori democristiani di Cdu-Csu guidati da Merkel. Il fenomeno si è ripetuto nelle elezioni britanniche dello scorso maggio, dove i Tory non hanno avuto la possibilità di governare da soli e hanno dovuto fare i conti con i Liberaldemocratici di Nick Clegg, ormai terza forza politica dopo i Laburisti. Da questo punto di vista, siamo rimasti provinciali. Berlusconi voleva essere un po' Reagan e un po' Thatcher ma non si era accorto di essersi sbagliato di un decennio. D'Alema e Veltroni hanno cercato di imitare rispettivamente Tony Blair e Bill Clinton senza rendersi contro che eravamo entrati in un'altra era. Non resta, perciò, che liberarci della camicia di forza del bipartitismo. Qualcosa del bipolarismo, invece, si deve salvare. E bisogna fare al più presto una legge elettorale sul modello tedesco, costi quel che costi, senza la quale Berlusconi e Lega rischiano di vincere all'infinito.



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