Nonostante le apparenze, il problema della legalità continua a non sembrare un tema cruciale per gli italiani. Se guardiamo allo schieramento politico di governo, una parte rilevante del Pdl ha addirittura ammesso che la legalità rappresenta il vero punto debole del primo partito italiano, quello che ha vinto le elezioni. Il fatto che il corretto comportamento delle istituzioni e degli uomini che le incarnano non sia al centro delle nostre preoccupazioni è dimostrato paradossalmente proprio dalle periodiche bufere giustizialiste che si abbattono sui governi e sulla classe politica di questo Paese.
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Da diverse settimane sta emergendo un desolante e, per molti versi, preoccupante intreccio tra ambienti governativi e cricche di varia natura, tutte unite dall’idea di cavalcare la congiuntura politica per fare affari, corrompere, arricchirsi, mescolando interessi personali e progetti di trasformazione costituzionale. Sempre la politica è stata abbordata da affaristi che ne affollano le sedi, istituzionali o meno, per trarne vantaggi personali. Il fenomeno non nasce, quindi, con questo governo. Quando, però, la fisiologia del lobbismo all’italiana degenera in patologia, neppure il più abile dei comunicatori riesce a controllare gli scarti improvvisi degli umori della “pancia” del Paese. Ma queste periodiche indignazioni popolari stanno in relazione con la volontà di una “giustizia giusta”, esattamente come una grandinata lo è nei confronti del problema della siccità nelle campagne.
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La storia del nostro Paese è una storia di fiammate populiste contro i potenti di turno, dopo che per lunghi periodi è stato concesso loro di ignorare le leggi. Anzi, alcune volte proprio il comportamento strafottente e irrisorio nei confronti di tutto ciò che rappresenta la correttezza e il rispetto delle regole è stato motivo di successo e di scalata nelle gerarchie della considerazione pubblica. Chi combatte i fenomeni di corruzione e malaffare tuttavia spesso finisce involontariamente per confermarli, facendo ricorso non a strumenti politici, ma al roboante moralismo che il più delle volte rischia di essere interpretato non come desiderio di giustizia bensì solo come impotenza biliosa, se non invidia per i potenti. Il moralismo è, dunque, a sua volta un segnale della malattia, o meglio della incapacità di uscirne. Perché, per mettere fine alla piaga dell’illegalità diffusa nella sfera pubblica, è necessario imboccare la strada politica, quella lunga e complessa della costruzione di un forte civismo attraverso l’informazione, il dibattito, la cultura.
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La legalità non ha molto a che fare con gli strappi e le rabbie periodiche, ma ha senso solo se è associata ad una calma e sobria regolarità , ad un vivere quotidiano che toglie spazio e senso ai grandi e piccoli tentativi di utilizzare la sfera pubblica per fare i propri interessi, danneggiando il resto della comunità . Per questo, si tratta non tanto di pescare ad ondate irregolari questo o quel truffatore, ma di darsi da fare per svuotare l’acqua dalla vasca in cui nuotano e si riproducono furbetti e cricche di varia natura. Questo, in altre parole, significa creare un ambiente politico e civile in cui diventi sempre più difficile e oneroso trarre vantaggio illecitamente dalla sfera pubblica e, dunque, in primo luogo, garantire il massimo dell’informazione e della trasparenza degli atti. Tuttavia, non ci sarà mai bonifica degna di questo nome se non riusciremo a convincerci che, chi compie le mille malversazioni di cui siamo testimoni, si sente autorizzato da un clima pubblico, un’epoca storica e una cultura politica di cui tutti noi, in ogni nostra azione quotidiana, siamo i creatori.
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