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int. a G. Tremonti ? Tremonti: ?No a governi tecnici. Nessuna alternativa a Berlusconi, ma c 'e una questione morale?

• da la Repubblica del 18 luglio 2010

di Massimo Giannini

 

«Il governo Berlusconi è forte, e non esistono alternative credibili. Né governi tecnici, né larghe intese. Sono fuori dalla storia, e l'Europa non approverebbe». Giulio Tremonti non ha dubbi. A dispetto degli scandali della P3 e dei conflitti sulla manovra, vede un'Italia solida e coesa, e un governo in pieno «controllo», da qui alla fine della legislatura. Il ministro dell'Economia nega conflitti e dimissioni. «Mai minacciato nulla. Tutt'al più ho detto qualche volta "non firmo"». Difende il Cavaliere su tutta la linea. Dalla P3, «al massimo una cassetta di mele marce», alle intercettazioni, «tutt'al più una legge-bavaglino». E sbarra la strada a qualunque ipotesi di governo tecnico alla Draghi, odi larghe intese senza Berlusconi. «Governo tecnico? Governo di unità nazionale? Sono figure che sembrano stagionalmente incastrarsi nella forma di una geometria variabile che ricorda un vecchio caleidoscopio. Avrei preferito proseguire il discorso che abbiamo iniziato come discorso sulla "democrazia dei contemporanei"...».
D'accordo, allora, partiamo pure dalla "democrazia dei contemporanei". Cosa intende dire? «La democrazia dei contemporanei è diversa da quella "classica", e questa a sua volta era diversa dalla democrazia della agorà. E pure sempre è necessaria, la democrazia. Ed è ancora senza alternative la democrazia pur dentro la intensissima "mutatio rerum" che viviamo e vediamo. Intensa nel presente come mai nel passato, dalla tecnologia alla geografia. La scienza muta l'esistenza. La"medicina", la"ars longa" sempre più estende il suo campo, non più solo sulla conoscenza del corpo umano, ma essa stessa ormai capace di ricrearlo per parti. L'iPad muta le facoltà mentali, crea nuovi palinsesti, produce in un istante qualcosa di simile a quello che per farsi ci ha messo tre secoli, nel passaggio dal libro a stampa alla luce elettrica. Per suo conto, Google vale e conta strategicamente ormai come e forse più di uno Stato G7. E poi è cambiata di colpo la geografia economica e politica. Di colpo, perché i venti anni che passano dalla caduta del muro di Berlino ad oggi sono un tempo minimo, un tempo non sviluppato sull'asse della lunga durata tipica delle altre rivoluzioni della storia».
Dove porta questo ragionamento sul cambiamento della democrazia? «Se cambia la geografia, la politica non può restare uguale. La politica come è stata finora è stata costruita sulla base territoriale chiusa tipica dello Stato-nazione, su confini impermeabili che concentravano nello Stato il monopolio della forza. E la politica era la forma di esercizio e di controllo della forza. La stessa democrazia era rapporto tra rappresentanza e potere. Ora non è più così. L'asse si sta inclinando, la rappresentanza cresce, il potere decresce, eroso e diluito dallo spazio globale. E la crisi radicalizza questa asimmetria. La crisi genera domande crescenti d'intervento. I popoli chiedono interventi sempre più forti, a governi sempre più deboli».
Giusto, basta guardare alla debolezza del governo Berlusconi... «Non è così. Il mio ragionamento vale per tutti i governi. La formula di soluzione e reazione politica non può essere più solo nazionale, ma internazionale. Ed è questo il senso politico della "poliarchia" disegnata nell'enciclica "Caritas in veritate". È proprio questo quello che si sta facendo in Europa in questi mesi, in questi giorni, costruendo sopra gli Stati una nuova "architettura politica"».
Ministro, per favore, passiamo dalla filosofia alla cronaca di questi giorni. Parliamo delle difficoltà dell'Italia e del suo governo. Qui si parla di crisi, di elezioni anticipate, di governi di transizione... «In Italia la formula di soluzione non può essere quella del governo tecnico. Per due ragioni. Primo, perché non c'è una "melior pars" fatta di ottimati, di tecnici, di illuminati, capaci di governare la complessità. Li vedo, certo, ma non li vedo capaci di governare. Secondo, perché un governo di questo tipo, non basato sul voto popolare, non avrebbe chance di prendere posto al tavolo dell'Europa».
Cioè? Lei sta dicendo che l'Europa avrebbe il potere di dire no a un governo tecnico in Italia? «E così. E non solo perché l'Europa è costruita sul canone della democrazia, ma soprattutto perché l'Europa, avviata a prendere la forma di un comune destino politico, presuppone e chiede comunque una base di stabilità e di forza. Questa derivante solo dalla politica e dalla democrazia. Tipico il caso della Grecia: la fiducia europea è stata indirizzata verso il governo greco legittimamente eletto. La negatività, verso un ruolo esclusivo del Fondo monetario internazionale, era basata sulla diffidenza verso una formula che sarebbe stata più debole, proprio perché solo tecnica. La tecnica può essere solo complementare alla politica, e non sostitutiva».
Ma chi si potrebbe opporre, invece, a un governo politico di larghe intese, di cui parlano in molti, nel Pd e nell'Udc? «La casistica delle larghe intese si presenta solo in due scenari. Dopo elezioni che evidenziano la bilaterale insufficienza delle forze in campo, o per effetto di un trauma. Francamente, nel presente dell'Italia non vedo un trauma tanto forte da spingere verso questa ipotesi di soluzione. Non un trauma "economico ", non un trauma "esterno", non un trauma "giudiziario"».
Sull'economia, in realtà, il trauma lo abbiamo rischiato di brutto con l'attacco dei mercati, e forse continueremo a rischiarlo oggi e nei prossimi mesi. Non è così? «Il trauma economico è stato ipotizzato subito, appena dopo la costituzione di questo governo, a fronte della crisi che arrivava. L'ipotesi non si è verificata. Era un'ipotesi basata tanto sudi una insufficiente e solo parziale analisi della realtà, quanto sulla sottovalutazione della forza del governo 2008, 2009, 2010. Siamo ormai verso il terzo autunno, e puntualmente per ogni autunno si prevedeva e ora si prevede la crisi. Una crisi esterna, causata dallo scatenarsi della speculazione finanziaria sul nostro debito pubblico. Una crisi interna, con la rottura dell'ordine e della coesione sociale. In questi anni la sinistra ha puntato sulla paura, come se questa fosse un'ideologia congiunturale sostitutiva. Non è stato così, non è così, non sarà così».
Ma è stato lei a dire che senza la manovra rischiamo la fine della Grecia... «Appunto, senza la manovra. In realtà nel 2008 siamo partiti con la legge finanziaria triennale e siamo andati avanti sulla stessa linea. I numeri dell'Italia sono ormai allineati nella norma e nella media europea. Avrebbe potuto essere diverso, e non è stato. E questo è stato certo perla forza propria e sottovalutata dell'Italia. Ma anche, si vorrà ammettere, per la visione e perla forza nell'azione di governo».
Eppure, basta parlare con un po' di ambasciatori per sapere che i nostri partner occidentali temono per la tenuta politica del governo Berlusconi. Lo può negare? «Sarebbe questo il secondo trauma, quello " esterno ". Una volta si diceva " tintinnare di sciabole". Ora, in un'età più pacifica, si parla di "voci di Cancelleria". Francamente non mi pare che si tratti di dati rilevanti. Per due ragioni. Perché la crisi postula la stabilità come valore superiore. E poi perché non pare che tanti altri governi siano in condizioni di forza superiore a quella dell'Italia. Per essere chiari, in giro per l'Europa non vedo governi tanto forti e tanto determinati e determinanti. Ma, all'opposto, tutti impegnati nella gestione delle proprie crisi interne. Gestione che, in giro per l'Europa, non mi sembra più forte della nostra, ma spesso anche contraddittoria, incerta e contestata. In realtà, siamo tutti impegnati in Europa nella costruzione di una architettura nuova di comune e superiore interesse. Il ruolo dell'Italia nello scenario europeo è forte, richiesto e reputato. Il ruolo di Silvio Berlusconi è forte. E, nel mio piccolo, per esempio martedì sono invitato in Germania a Friburgo per la "Lezione europea". E non come professore di università, ma come ministro della Repubblica italiana».
Eppure la vostra maggioranza rischia ogni giorno l'implosione interna. Che mi dice delle inchieste, dei ministri che si dimettono, dello scandalo della P3? «Per scelta politica, tendo sempre ad analisi di sistema. È certo che non si tratta solo di una mela marcia. C'è qualcosa di più. Forse, e anzi senza forse, è venuta fuori una cassetta di mele marce. Ma l'albero non è marcio, e il frutteto non è marcio. La combinazione perversa è tra le condotte personali e la crisi generale. La crisi postula la salita, e non la discesa nella scala dell'etica, e se vuole anche dell'estetica».
Quindi anche lei, come il premier, pensa che questi siano solo polveroni? «La politica deve sempre distinguere tra ciò che è "reato" e ciò che è "peccato", e non confondere l'uno con l'altro. Ci può essere reato senza peccato, come ci può essere peccato senza reato. I dieci comandamenti sono una cosa, i codici una cosa diversa. Un discorso politico serio deve e può essere avviato anche in casa nostra su questo campo. Anzi è già iniziato, ma proprio per questo non può essere generalizzato e banalizzato».
Banalizzato? Qui ci sono pezzi di Stato e di governo che cercano di infiltrarsi e condizionare le decisioni della magistratura, in nome di "Cesare". Dove vede la banalità? «Per banalità intendo la "banalità del male". E anche per questo non credo che puntare sulla valanga delle intercettazioni renda un buon servizio all'etica politica».
Le ultime intercettazioni ci hanno però permesso di svelare le trame intorno all'eolico, e alla nuova cupola ribattezzata appunto P3... «Le ultime intercettazioni costituiscono una lettura interessante. Ne emerge un bestiario fatto di faccendieri sfaccendati, di «poteri» impotenti, se si guarda i risultati, di reati più "tentati" che "consumati". Più si affollala scena, più tutto si confonde. E la presunta "tragedia" si fa commedia. Questo non vuol dire che non ci sia una questione morale...».
Meno male: riconosce che esiste una questione morale nel centrodestra? «Ma quella morale è una questione generale. Questo è un Paese in cui molti "governi" locali si sono clonati e derivati in galassie societarie "parallele". Spesso più gran di dei governi stessi. E non sempre sotto il controllo democratico e giudiziario. Leggasi la monografia della Corte dei Conti. Mezza Italia è in dissesto sanitario. E questo riduce drammaticamente la "cifra" della morale pubblica. Troppo spesso i fondi pubblici sono una pipeline verso gli affari. Oggi l'affare degli affari è quello dell'eolico, almeno questo non inventato da noi. Vastissime aree del Paese sono deturpate da pale eoliche sorte all'improvviso, in un territorio che nei secoli passati non ha mai avuto i mulini a vento. E forse ci sarà una ragione. È in tutto questo che vedo la grande questione morale, questo è l'albero storto che va raddrizzato. E per farlo non vedo alternative al federalismo fiscale. L'unica, l'ultima forma per riportare nella trasparenza e nell'efficienza la cosa comune».
Nel frattempo, per nascondere tutto ai cittadini, il governo vara la legge-bavaglio. Lei è d'accordo anche con questo? «La traccia possibile di una discussione seria su di un tema serio, come quello della dialettica tra il diritto alla privacy e il diritto all'informazione, si è persa in un labirinto. E solo ora forse può essere ritrovata. Più che di bavaglio, pare che si trattasse di un "bavaglino". Si è troppo confuso, e non certo solo da parte nostra, fra i mezzi e i fini».
Bavaglino, dice lei? E allora perché avete paralizzato per questo il Parlamento per ben due anni, a discutere di intercettazioni, invece di parlare dei problemi veri del paese? «Al Parlamento è bastato un mese per fare la "manovra". Un'azione effettiva, la prima fatta in Europa e qui dall'Italia. Altrove siamo ancora allo stadio dei disegni, dei documenti, dei propositi, delle reazioni di piazza. Da noi non è stato così. E la "manovra" non è stata solo finanza, ma anche politica. Per la prima volta è riduzione del perimetro dello Stato, con l'effettivo azzeramento di trenta enti pubblici, dei costi del governo e della politica».
Ministro, a parte i tagli alle Regioni, nella manovra non c'è niente di strutturale... «Nella manovra è stata fatta la riforma delle pensioni più seria d'Europa in questi anni e pari data c'è stata Pomigliano, con il lavoro che non esce ma torna in Italia e nel Mezzogiorno. E forse queste due, pensioni e Pomigliano, sono due P più importanti della P3. Con rispetto parlando, e con orgoglio parlando, l'azione del governo contro la criminalità organizzata ha un'intensità e un'efficacia finora non conosciute. E forse anche questo va messo sul piatto della giustizia».
Ma le Regioni? Perché i governatori protestano? Perché Formigoni dice che dovrà tagliare i servizi ai cittadini? «Qui vale la dialettica tesi, antitesi, sintesi. Il processo politico ha funzionato subito coni Comuni e le Province, e si sta chiudendo ora anche con le Regioni. Come Comuni e Province, così le Regioni hanno infine fatto propria la nostra ipotesi di discuterne all'interno del federalismo fiscale tanto municipale quanto regionale. E alla fine il bilancio mi sembra positivo. Nell'insieme la manovra è stata fatta su una vastissima base di consenso sociale».
E la crescita? Anche su questo il piatto della manovra è miseramente vuoto. Può negarlo? «Come le ho detto, i numeri italiani sono allineati alla media europea. Nella manovra, oltre alla stabilità finanziaria, c'è comunque una prima "cifra" dello sviluppo. Dalle reti di impresa alla drastica riduzione della burocrazia. Più in generale nel tempo presente non esiste lo sviluppo in un Paese solo, non si fa lo sviluppo con la Gazzetta ufficiale, soprattutto avendo il terzo debito pubblico del mondo. Del resto la ripresa in atto è portata più che dalle politiche economiche, dal cambio sul dollaro. E tuttavia certo molto deve esser fatto ancora. Dalla "battaglia per il diritto", troppe regole sono infatti un costo e un limite allo sviluppo, per arrivare alla ricerca, per cui dovrebbe essere fatto un maxi fondo d'investimento pubblico, alla combinazione tra la riforma degli istituti tecnici, cui devono concorrere anche le imprese, ed il contratto di apprendistato».
Bersani la invita da tempo ad andare in Parlamento, a discutere della crisi. Perché lei si rifiuta? «La sequenza non può essere prima chi e poi cosa, e cioè prima si sceglie chi governa e poi si decide cosa si fa. Questa sequenza riflette un eccesso di odio antropomorfo. Prima si deve discutere sul cosa».
E dello scontro tra il premier e Fini cosa mi dice. Quello non è un pericolo, per la tenuta del Pdl? «Anche questo tema rientra nell'idea antropomorfa della politica, che non mi appartiene».
Non può negare che l'altro scontro dentro la maggioranza riguarda lei e il presidente del Consiglio. È vero che venerdì scorso persino Gianni Letta l'ha rimproverata in Consiglio dei ministri? «Oggi ci abbiamo riso sopra. Vedo un eccesso di confusione tra "personale" e "politico". Certo, in politica conta anche il personale, ma su troppi "scontri" ho letto troppo folklore...».
È vero o no che lei minaccia quasi ogni giorno le dimissioni? «Non ho mai minacciato le dimissioni, ma spesso ho detto "non firmo". E alla fine il voto è sempre arrivato, positivo e convinto. Tutto quello che ho fatto, e forse anche un po' più della politica economica, l'ho fatto convinto di fare comunque quello che mi sembrava bene per il mio Paese. E non avrei potuto farlo senza Berlusconi e Bossi, o contro Berlusconi e Bossi. E sarà così anche nel prossimo autunno e oltre».


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