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Trama oscena del potere

• da la Repubblica del 19 luglio 2010

di Adriano Prosperi

 

Credevamo di vivere in un regime che rispettava nella sostanza la divisione dei poteri fondamentali. C'è stato chi ha nobilitato lo scontro politico in atto parlando di un contrasto tra un potere esecutivo imbrigliato e una magistratura prepotente e compatta. Ebbene il segno di riconoscimento di un virus insediato negli organi vitali del paese ci è offerto da un fatto nuovo e sconvolgente. Accanto ai faccendieri di palazzo come Carboni che scoprono emozionati di essere tornati in sella e di avere un ruolo ancora più grande di quello del lontano '82, incontriamo in questa trama oscena i collaboratori più stretti del presidente del Consiglio. Uomini scelti, selezionati e consultati quotidianamente dal premier, come il vice del ministro della Giustizia. E poi le toghe, un presidente di Cassazione, ambienti e figure della magistratura. Potere giudiziario, potere esecutivo, membri di corpi legislativi: e accanto a loro, dietro di loro, imprenditori e finanzieri. E' il disegno costituzionale che è stato attaccato dall'interno, svuotato dalle termiti piduiste. E poteva mancare l'onorata, in un contesto del genere, l'ombra di Dell'Utri? E' su questo che è chiamato a rispondere il presidente del Consiglio. Altro che limitarsi a inviare messaggi registrati dall'isolamento veramente cesarista in cui si muove. Il dovere di un presidente del Consiglio è quello di informare i cittadini di quanto è a sua conoscenza nelle forme e nelle sedi previste dalla Costituzione. E invece l'uomo sospettato di essere il Cesare per il quale e in nome del quale si sono messi in azione faccendieri, sono stati corrotti magistrati, sono state ordite congiure di palazzo, non si reca in Parlamento, non si rivolge ai rappresentanti eletti dal popolo italiano per rispondere alle domande sulla gravissima rete di corruzioni e di connivenze, di infiltrazioni e di attentati alla legalità repubblicana che stanno emergendo proprio grazie alle intercettazioni. No, manda un audiomessaggio di nove minuti ai sedicenti "Promotori della Libertà". Invita a parlare dei successi dell'esecutivo e a "fare piazza pulita" del clima della stampa "giacobina". Un linguaggio violento, un uomo di Stato che si sottrae ai suoi doveri. La sua dichiarazione prova esattamente il contrario di quel che Tremonti sostiene nell'intervista rilasciata ieri a questo giornale. La materia delle trame piduiste e la legge-bavaglio sono legate a doppio filo: la legge è necessaria per distruggere l'informazione, in modo che le termiti completino l'opera, manipolando l'informazione, trasformandola in canale di dossier falsificati ad uso esclusivo delle pratiche di alterazione sistematica delle dinamiche corrette del consenso dei cittadini. Il bisogno di fare piazza pulita della stampa che dà fastidio è oggi un'esigenza vitale di Berlusconi e del suo governo. E l'intervista che Tremonti ha concesso a Repubblica è diretta in sostanza allo stesso fine: minimizzare, stornare l'attenzione; e questo proprio coi lettori di Repubblica, il giornale che il suo premier vorrebbe spazzare via. Bisognerà dunque disobbedirgli. Osserva Tremonti che in materia di intercettazioni non di bavaglio si tratterebbe ma tutt'al più di un bavaglino. E allaP3 dedica una battuta sommaria e infastidita: una cassetta di mele marce casualmente spuntata ai piedi di un albero sano. Per via dibattute e di metafore il ministro più importante del governo Berlusconi ci invita a guardare distrattamente a queste due questioni. Il suo è certamente un tentativo serio, il più serio finora tra quanti tentano di depistare l'attenzione da ciò che sta emergendo in questi giorni. Assai più serio di quello del suo Presidente del Consiglio. Oggi la legalità repubblicana conosce l'ombra più grave che abbia mai gravato sul sistema dei poteri pubblici. Solo grazie al ricorso alle intercettazioni siamo venuti a conoscenza di cose che altrimenti non avremmo mai saputo: cose reali, gravi episodi di corruzione, volti e profili di persone insospettabili colte sul fatto. Abbiamo imparato quale sia il linguaggio dei cortigiani, dei faccendieri, degli ambiziosi arrampicatori sociali che si muovono nei paraggi di "Cesare" e per far piacere a "Cesare". Abbiamo rivisto all'opera la banda del fango, come l'ha definita Roberto Saviano. Abbiamo riconosciuto il marchio di fabbrica della banda nella costruzione di falsi dossier su abitudini sessuali considerate infamanti (non lo sono, per costoro, quelle del premier). Non c'è bisogno della ricerca indiziaria di uno Sherlock Holmes per riconoscere lo stile della banda: sono gli stessi modi e mezzi con cui il sistema ha fatto fuori Dino Boffo e ha affondato Marrazzo. E questo prova intanto che la libertà di stampa o c'è o non c'è e che tutti gli esercizi di correzione e i ritocchi della proposta di legge governativa sono pannicelli caldi che non nascondono la sostanza liberticida che la muove. I documenti di cui fa uso il giornalista che informa i lettori sul funzionamento dei poteri fondamentali in un paese a regime costituzionale e democratico non possono essere né ignorati né edulcorati né travisati. Il giorno in cui il giornalista dovesse aspettare tempi fissati per legge prima di raccontare certe cose, il giorno in cui i giornali potessero pubblicare solo per riassunto documenti del genere l'informazione sarebbe peggio che morta: ce ne resterebbe un pallido e noioso fantasma.

 


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