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L'odissea degli eritrei: «In Libia senza nulla Non ci dimenticate»

• da L'Unità del 20 luglio 2010

di Umberto De Giovannangeli

 

Vagano con un pezzo di carta che dovrebbe certificare un lavoro che non c'è. Chiedono, inascoltati, di essere trasferiti in un Paese terzo in cui possano far valere il loro diritto all'asilo politico. Per i 205 eritrei ex segregati nel carcere libico di Brak, l'odissea non ha fine. La maggior parte di loro è ancora a Sebah e in altri centri del Sud del Libia, a centinaia di chilometri da Tripoli. Di cinque di loro non si ha più notizie da giorni. Erano stati prelevati di notte dal carcere di Brak, poi più niente. Spariti nel nulla. I1 caso si è chiuso felicemente, ha ripetuto in questi giorni la Farnesina. Il modello-Libia ha dato i suoi frutti, va sperimentato altrove, ribadisce il ministro dell'Interno, Roberto Maroni. I «pilati» del Governo nascondono il fatto che, come risulta a l'Unità, 103 dei 205 ex segregati di Brak erano stati respinti in mare dall'Italia. Centotre persone che chiedevano solo di poter dimostrare di avere i requisiti per ottenere lo status di rifugiati. Non ne hanno avuto la possibilità. Sono stati respinti in mare e ricacciati in un Paese, la Libia, che non riconosce l'asilo. Sono «liberi», i 205 disperati di Brak. Ma di questa «libertà» non sanno che farsene. senza documenti nè soldi, cibo nè acqua, non sanno dove dormire e sono bloccati nel cuore del deserto a Sebah, 800 chilometri da Tripoli, dove 1e autorità libiche li hanno scaricati dopo 1a liberazione che considerano una «farsa». «Giriamo per le strade come cani abbandonati», ha raccontato uno di loro. E intanto la Libia annuncia di aver chiuso i centri di accoglienza per immigrati, mandando via tutti i detenuti. «Nessuno ci ha detto nulla e nessuno ci ha offerto un rifugio o un aiuto. Non abbiamo soldi. Non sappiamo cosa fare. Abbiamo anche chiesto di poter dormire in una prigione ma ci hanno detto no e ci hanno lasciato per strada. Siamo lasciati soli e nessuno si interessa di noi», denuncia uno dei profughi. Secondo quanto ha raccontato un altro degli eritrei che è riuscito a contattare un parente in Italia, alcuni di loro erano riusciti a nascondere pochi spiccioli nella prigione, e con quelli hanno mandato tre di loro a Tripoli a cercare una via d'uscita alla situazione in cui si trovano. Al momento si troverebbero in viaggio. Alcuni profughi hanno riferito anche di maltrattamenti subiti nei luoghi di detenzione. Altri di trovarsi in quelle condizioni dopo il respingimento in mare dall'Italia, a pochi chilometri da Lampedusa. Lasciati in balia della sorte. E di un circuito politico-mediatico che, con poche eccezioni, ha finito per avvalorare la favola del «felice epilogo». Ma in questa sconvolgente storia 1e «favole» abbondano. Per la Libia, «non esiste un caso eritrei», ha affermato (17 luglio, dichiarazione all'Ansa) l'ambasciatore libico in Italia, Hafed Gaddur. Da giovedì scorso «non ci sono più in Libia centri di accoglienza per immigrati e tutti coloro che vi erano ospitati sono liberi, avranno documenti temporanei di riconoscimento e potranno reinserirsi nel tessuto sociale trovando lavoro e alloggio», ha aggiunto Gaddur, definendo «propaganda» le notizie secondo cui centinaia di profughi eritrei erano trattenuti in pesanti condizioni di detenzione. Le informazioni acquisite da l'Unità contraddicono 1e certezze dispensate dall'ambasciatore Gaddur. Racconta in proposito Mussie Zerai, il sacerdote eritreo responsabile dell'ong Habesha che si occupa dell'accoglienza dei migranti africani in Italia: «C'è chi afferma che tutti i "Cpt" libici sono stati chiusi. Non è vero. Sappiamo che nei giorni in cui i 205 venivano messi fuori dal carcere di Brak, altri cittadini eritrei e somali erano stati arrestati in retate organizzate dalle forze di polizia libiche...», dice don Zerai a l'Unità. Dei 21 centri di detenzione per «migranti clandestini» operanti in Libia, quelli di cui si ha 1a certezza della chiusura sono tre: Mishirata, Brak, Sebah, per il resto è buio assoluto. «L'unica, vera soluzione - riflette Zerai - è quella di aprire un percorso garantito per i richiedenti asilo. Ciò significa, ad esempio, rafforzare l'ufficio dell'Unhcr (l'Agenzia delle nazioni Unite per i rifugiati, ndr) a Tripoli, o prevedere una presenza in Libia di un ufficio dell'Unione Europea a cui gli asilanti possano rivolgersi per veder riconosciuto il proprio status, visto che il governo libico non riconosce il diritto di asilo». Agli immigrati «verranno dati documenti di identità temporanei sulla base di quanto da loro dichiarato», ha spiegato l'ambasciatore libico che ha rilevato l'impossibilità di effettuare un vero riconoscimento per mancanza di dati oggettivi attendibili. Ciò significa, commenta il responsabile di «Habesha», che «i dati attendibili richiesti dall'ambasciatore dovrebbero essere forniti dall'Ambasciata eritrea a Tripoli, alla quale i 205 dovrebbero rivolgersi, cosa che non intendono fare perché significherebbe disconoscere le ragioni per cui sono fuggiti dall'Eritrea e per le quali hanno diritto a veder riconosciuto il loro status di rifugiati». Avverte l'ambasciatore libico a Roma: «Non permettiamo a nessun Paese, amico o no, di intervenire nei nostri affari interni. Non tolleriamo ingerenze...». Ribatte don Zerai: «Quando vengono calpestati i più elementari diritti umani, questo non è un "affare interno" alla Libia o a qualunque altro Stato. Quando questi dirittisono violati, mettendo a rischio la vita stesse delle persone, non è solo giusto ma è doveroso intervenire», esercitando il diritto all'«ingerenza umanitaria». Riflette, in un saggio su Micromega, Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Palermo: «Adesso, probabilmente, di molti degli eritrei detenuti e torturati a Brak non si saprà più nulla, i morti saranno fatti sparire come in passato, altri saranno dispersi nel deserto, altri ancora scompariranno nelle segrete delle carceri e nei campi di lavoro forzato in Eritrea, dopo la loro deportazione. Le loro famiglie non sapranno più nulla di loro. Come è successo per altri migranti che, a partire dal 2004, hanno tentato anche di difendersi inviando istanze e presentando ricorsi ai più importanti organismi internazionali, come la Commissione Europea e la Corte Europea dei diritti dell'Uomo. Il governo italiano, quando è stato chiamato in causa, ha dato prova di raro cinismo, mettendo in discussione la stessa esistenza dei ricorrenti, attaccando sistematicamente gli avvocati che erano riusciti a raccogliere le denunce delle persone, presentate prima della loro espulsione, da centri di detenzione italiani, come negli anni dal 2004 al 2005, o che si era riusciti a fare arrivare fino alla Corte di Strasburgo, per la prima volta lo scorso anno, da un un centro di detenzione in Libia, dopo un respingimento collettivo praticato direttamente da mezzi militari italiani. Adesso il timore è che, ancora una volta, coloro che hanno presentato (o potrebbero presentare) denunce e ricorsi davanti a tribunali o organismi internazionali possano essere deportati dalla Libia e quindi fatti scomparire...». E chi è riuscito a uscire dai lager libici, testimonia di violenze indicibili. Racconta Saberen, giovane donna eritrea: «Siamo stati arrestati quando la nostra barca aveva lasciato le coste libiche da circa un'ora. La polizia ci ha intercettato, ci ha riportato a riva e là ha cominciato a picchiarci. Le violenze sono continuate anche nella prigione in cui siamo stati portati: Djuazat. Sono rimasta lì per un mese e mezzo. Una volta stavo cercando di difendere mio fratello dai colpi di manganello e hanno picchiato anche me, sfregiandomi il viso. Una delle pratiche utilizzate in questa prigione era quella delle manganellate sulla palma del piede, punto particolarmente sensibile al dolore. Per uscire ho dovuto pagare 500 dollari, in più prima di uscire mi hanno rubato i gioielli e gli ultimi soldi che mi restavano».


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