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Lo sguardo all'estero e la fabbrica italiana

• da Il Corriere della Sera del 22 luglio 2010

di Massimo Mucchetti

 

La Fiat Multipla e la Lancia Musa saranno prodotte in Serbia, d'accordo con la Zastava. Oggi lo sono a Mirafiori, Torino. Sergio Marchionne non vuole correre rischi con i sindacati. Il ferreo accordo di Pomigliano, dice, non offre il canovaccio universale: si vedrà fabbrica per fabbrica. Ma la reazione della Fiom-Cgil, per quanto blanda rispetto agli anni caldi, si è estesa al grande stabilimento torinese, minando la collaborazione che Marchionne esige per produrre in Italia. D'altra parte, la vittoria dei sì nel referendum campano si è rivelata assai inferiore alle attese, visto che i no sono stati tre volte più numerosi degli iscritti della Fiom, e ai montaggi hanno sfiorato la metà dei voti. Agli analisti la Fiat avrebbe fatto sapere che già oggi sarebbe in grado di realizzare oltre confine l'intera produzione italiana. Una forzatura? Certo è che la Fiat si va facendo sempre più multinazionale, proporzionalmente più delle case tedesche e francesi. E gioca l'estero contro la madrepatria allo stesso modo in cui, un secolo fa, i disoccupati venivano usati dagli agrari contro le leghe bracciantili. È la razionalità agra della globalizzazione. Il conto, per gli azionisti, può tonnare. Ma per gli altri? Oggi Marchionne è forte. Sente di poter dettare le regole del gioco. I sindacati appaiono divisi e impotenti. Il governo, ancora più debole, lucra consensi sull'estremismo della Fiom, ma intanto Termini chiude senza colpo ferire e Pomigliano rimane un rebus dal punto di vista della sostenibilità economica. E adesso, la Serbia. Nel mentre, la Fiat blocca il premio a tutti i dipendenti: 600 euro, niente a che vedere con le cifre tedesche. In effetti, il 2009 ha chiuso in profondo rosso. E tuttavia la grande famiglia Fiat - così la si chiamava un tempo - ha fatto anch'essa i suoi sacrifici, con tagli e cassa integrazione. Si poteva far meglio, magari anticipando qualcosa sul futuro? Forse sì, ove si consideri che i conti sembrano migliori di quanto dicano gli amministratori. 11 primo semestre 2010 mostra un utile di 92 milioni contro la perdita di 580 milioni subita nello stesso periodo del 2009. Bene, ma forse è ancor meglio. Il risultato lordo è pari a 531 milioni, le imposte a 439 milioni: un'aliquota fiscale dell'82% fa sospettare un imponibile basso, tanto più se, nello stesso periodo, il gruppo riduce il debito di un miliardo tondo, il doppio dell'utile lordo. Severità nell'esecuzione dei contratti, dunque. Politica di bilancio. E nuova disciplina nei reparti. Marchionne gonfia i muscoli. La sequenza dei licenziamenti di delegati e lavoratori, legata alle tensioni post Pomigliano, manda il messaggio di un'azienda che non dimentica il pugno di ferro. Marchionne emargina la Fiom come Vittorio Valletta nel 1955; manda via gli indisciplinati come Cesare Romiti alla fine degli anni Settanta. Ma dal punto di vista del Paese l'attuale bilancio delle ragioni e dei torti appare meno sicuro. Allora la Fiom era la cinghia di trasmissione di un Pci fedele all'Urss. 161 licenziati poi erano estremisti, spesso vicini all'area terrorista. Valletta e Romiti hanno, a modo loro, difeso l'Occidente. La Fiom contemporanea, invece, esprime una conflittualità discutibile, ma, sostanzialmente, nell'alveo della democrazia. Nella vecchia Fiat, veicolo di avanzamento civile, pulsava il cuore dell'Italia industriale. Oggi il progresso ha preso altre vie. La Fiat persegue a buon diritto lo share holder value, con la razionalità degli spezzatini, presentati come ottimi se fatti in casa e come pessimi se imposti dall'esterno. F, detta i suoi aut aut a un Paese che, non esprimendo da troppi anni una politica industriale, si balocca con la Fabbrica Italia di Marchionne, senza capirne i conti, e con lo sbarco in America, senza avere un'idea sull'attrazione transatlantica che la Chrysler eserciterà, presto o tardi, sull'auto

 



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