La nostra Asia, intrappolata tra l'Algeria e la Libia, è un gemello separato dall'Italia, una specie di Sicilia d'oltremare a 59 chilometri dalle coste della Trinacria. Per Gesualdo Bufalino, che di mappe dell'anima se ne intendeva, i tunisini erano un popolo del Nord, perché Tunisi, in latitudine, è a settentrione di Ragusa. Rispettando l'assioma del Sud che invade il Nord, furono minatori, manovali e pescatori siciliani, in compagnia di livornesi e genovesi, a sbarcare pacificamente nella Tunisia del Nord toccando nel 1881, data in cui la Francia soffia all'Italia la colonia tunisina, la ragguardevole cifra di 25mila unità (i francesi non erano neppure 700). Di lì si è dipanata una contesa sotterranea tra francesi e italiani. «La Tunisia è una colonia italiana amministrata da funzionari francesi» si diceva alla fine dell'Ottocento. Che potevano farci i francesi se i siciliani di Trapani e di Agrigento parlavano arabo e costruivano a poche centinaia di metri dalla Medina di Tunisi un quartiere chiamato la piccola Sicilia? E come si poteva contrastare l'attitudine tutta italica all'affabulazione che ai primi del Novecento alimentava 123 giornali in lingua italiana? L'unico sopravvissuto è il Corriere di Tunisi, stampato ancora oggi dai discendenti dell'editore livornese Finzi. La digressione storica non è oziosa. Siamo al 2010 e per quegli strani rimescolamenti della storia chiunque voli quotidianamente da Roma o da Milano alla volta di Tunisi incontrerà tra i passeggeri due categorie sopra tutte le altre: immigrati tunisini che rientrano a casa e imprenditori italiani in blazer blu. Oltre 700 imprese italiane, dicono le statistiche. I grandi del tessile abbigliamento nordestino ci sono tutti. La voce si sta spargendo e le condizioni offerte dalla Tunisia alle società off shore, cioè, totalmente esportatrici, non temono concorrenti: zero tasse per i primi dieci anni dell'investimento e zero Iva. Contratti di lavoro a tempo determinato e orario di lavoro di 48 ore settimanali. Gli stipendi medi degli operai, compresi gli oneri riflessi, tra i 250 e i 400 dinari al mese, al cambio 125 e 200 euro. Davide Baratti, un manager novarese globe trotter in forza alla Clerprem di Carrè, nel vicentino, da tre anni con una fabbrica a Bizerte, Nord Ovest della Tunisia, sventola come un trofeo il suo business plan: «Siamo rientrati dall'investimento tunisino in 13 mesi. Un traguardo che in Italia non avremmo raggiunto neppure in cinque anni». A Bizerte Clerprem produce i poggia braccia in pelle e tessuto delle Audi. Aggiunge Baratti: «La manodopera è qualificatissima, le ragazze sono diplomate e laureate». Il fatto che le 120 operaie delle Clerprem siano tutte donne non è casuale. Sono loro il motore della modernizzazione, come se le antiche regole matriarcali che sempre hanno retto le dinamiche familiari tunisine, un po' come in Sicilia e in Sardegna, avessero gradualmente contaminato tutti gli aspetti della società . Fu Bourguiba, salito al potere nel 1956, ad abolire la poligamia e a concedere il divorzio mentre oltre Mediterraneo cattolici e laici si azzannavano sui referendum sostenuti dai radicali. È un mondo in ebollizione e te ne accorgi passeggiando su Rue Bourguiba, la via centrale di Tunisi che conduce al suk della Medina tra caffè in stile occidentale, teatri con la facciata liberty costruiti dagli italiani e giovani a braccetto. La mediterraneità di Tunisi è però più carnale di quella italiana, meno depressa, un po' come rivedere un vecchio film di Pietro Germi. Le libertà civili non sempre coincidono con quelle politiche. Ben Ali, il successore di Bourguiba, grande amico di Bettino Craxi e di Silvio Berlusconi, ha inaugurato uno stile di governo pragmatico in economia ma durissimo con gli oppositori. La "democratura" tunisina ha messo fuori legge il partito islamico Ennahda e usa il pugno di ferro coni dissidenti. Gli imprenditori italiani sostengono la politica di Ben Alì. I tunisini hanno altre opinioni, che però esprimono solo nelle case private. Nessuno si avventura a parlare di politica nei caffè e nei ristoranti che traboccano di pesce freschissimo e servizio in guanti bianchi con conti che sono meno della metà di quelli italiani o francesi. Ben Alì è ossessionato dalla formazione dei giovani (il 40% della popolazione ha meno di 25 anni). A ogni discorso ripete: «Gli studenti sono la nostra ricchezza nazionale». La proliferazione di imprese francesi, italiane, tedesche e persino giapponesi si deve all'accordo di libero scambio firmato con l'Unione europea nel 1995. Una delle più grandi aree industriali, quella di Enfidha, una mega città industriale sorta dal nulla a 75 chilometri a Sud di Tunisi, è stata acquistata e infrastrutturata dall'industriale vicentino Isnardo Carta. L'imprenditore italiano possiede 200 ettari, 50 dei quali già operativi. Su quei terreni si sono installati l'azienda vicentina Dainese, che produce tute per motociclisti, e i francesi della Zodiac (gommoni). A Enfidha c'è un nuovissimo aeroporto con una torre di controllo di 84 metri che ricalca il tronco di una palma e una pista di atterraggio di 3,5 chilometri: l'aerostazione con giardini pensili e cupole arabeggianti è stata costruita in meno di due anni con il project financing dalla società turca Tav che ne curerà anche la gestione. «Cosa c'è di, stupefacente - si schermisce Hechmi Chatmen, direttore della Fipa Tunisia di Milano, l'agenzia per l'attrazione degli investimenti con sede a Parigi, Londra, Colonia, Madrid e Bruxelles - io passo la mia vita facendo road show in lungo e in largo per l'Italia. Tutti vogliono sapere come investire in Tunisia: dai commercialisti salernitani agli artigiani livornesi, dagli industriali di Bergamo a quelli di Palermo». Ci sarebbero tutte le condizioni, insomma, per una leadership chiara e forte dell'Italia in Tunisia. A danno dei francesi, ovviamente. Un'ipotesi che sfuma dopo una breve chiacchierata con l'ambasciatore italiano a Tunisi. Piero Benassi, un cinquantenne metà toscano e metà siciliano, porge agli ospiti un biglietto da visita con la scritta "ambassadeur d'Italie", come a sancire che la francofonia della Tunisia - malgrado l'università di Tunisi sia alla disperata ricerca di 24 docenti di lingua e letteratura italiana e i corsi della Dante Alighieri siano affollatissimi - non è mai stata in discussione. Benassi non lo dice ma diplomaticamente lo fa intuire: forse la politica italiana nel Mediterraneo (fatta eccezione per il colonnello Gheddafi) si è dissolta con la Prima Repubblica.
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