Dal 10 giugno la Rai ha chiuso per ferie. Andati in vacanza i vari Vespa, Floris e Santoro, dalla prima serata sono scomparsi gli spazi di approfondimento, nonostante 13 mila dipendenti e 1619 milioni di euro di canone. Eppure, il paese avrebbe avuto bisogno di conoscere, di dibattere: dell'attività del parlamento, con la manovra finanziaria e il ddl sulle intercettazioni; di un'intera città , L'Aquila, che si rivolta per tornare a vivere; delle condizioni disumane e disperanti in cui vive la comunità penitenziaria; delle inchieste giudiziarie che fotografano una classe dirigente intrappolata nel malaffare. Organizzare il silenzio, come ha fatto anche quest'anno il cda, conferma quanto il "servizio pubblico" sia in realtà strumento per la negazione dei diritti civili e politici degli italiani. Non lo dicono i radicali ma l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che, esattamente un anno fa, ha accertato che la Rai è strutturalmente inadempiente rispetto agli obblighi previsti dal contratto di servizio, avendo negato per anni il pluralismo informativo (per 49 volte a danno dei radicali). Dopo quella pronuncia la situazione si è persino aggravata: il Contratto di servizio è scaduto da sette mesi e non sono stati neanche adottati quei criteri di concreta attuazione del pluralismo che pure l'Autorità aveva indicato come soluzione per arginare l'arbitrio fuorilegge di testate giornalistiche e conduttori. Nel frattempo, la Commissione di vigilanza ha abdicato alla sua funzione di indirizzo e le tribune politiche sono sospese da tre anni, fatto senza precedenti nelle democrazie moderne. È questo il contesto che consente a Berlusconi di occupare l'etere a suo piacimento. E che impedisce agli italiani di conoscere chi, come i radicali, è stato cancellato da tutto per la sua capacità di incardinare lotte istituzionali e politiche su temi popolari che toccano il vissuto dei singoli, come le battaglie di Luca Coscioni e di Piero Welby. La responsabilità , spiace dirlo, è proprio delle roccaforti progressiste: negli ultimi dodici mesi Ballarò e Annozero hanno assicurato alla partitocrazia 770 milioni di spettatori complessivi, di cui il 43% al Pdl e il 26% al Pd. Ai radicali, invece, è stata concessa solo una presenza a un mese dal voto regionale e a seguito dell'ennesimo esposto. Era il 1998 quando il presidente della Commissione di vigilanza, Francesco Storace, denunciò «l'operazione di genocidio politico-culturale» in corso a nostro danno. Da allora, abbiamo assistito alla promozione, a turno, degli antagonisti ufficiali: prima Bertinotti, poi Di Pietro, ora Nichi Vendola. La presenza televisiva prefigura la possibilità stessa del consenso: nel 1976 il Partito radicale entrò per la prima volta in parlamento solo dopo aver ottenuto una tribuna riparatoria per anni di silenzio. Oggi, l'imposizione di protagonisti e antagonisti serve per circoscrivere i temi ammessi al pubblico dibattito, con l'obiettivo di abolire l'agenda reale del paese. Dare accesso ai radicali, ad esempio, significherebbe dover parlare di giustizia giusta, di opportunità per i non garantiti, di finanziamento pubblico ai partiti e alle chiese, di diritti umani, del rischio di controriforme elettorali per governi di unità nazionale. Argomenti su cui sovente gli elettori di entrambi gli schieramenti si ritrovano uniti nelle proposte radicali senza però nemmeno sapere che c'è una forza politica organizzata proprio su quegli obiettivi. Discutere di questo, dell'impunita violazione delle regole, dell'agenda setting, della promozione o della eliminazione di minoranze politiche come metodo per impedire la conoscenza e la lotta sulle grandi questioni sociali, rimane un tabù, anche nel Partito democratico. Prova ne è che sul sistema radiotelevisivo e sulle modalità con cui garantire la conoscenza mai c'è stato un confronto pubblico, ne si ricordano grandi manifestazioni. Sarebbe ora di iniziare a farlo, insieme, liberando viale Mazzini da sdraio e ombrelloni per fare posto a dibattiti quanto mai urgenti.