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L'epurazione vizietto bipartisan

• da La stampa del 26 luglio 2010

di Mattia Feltri

C'è epuratore ed epuratore. C'è il serial killer, come Umberto Bossi, e il virtuoso del coltello, come Walter Veltroni: la cacciata di Riccardo Villari dal Partito democratico, alla fine del 2008, è un gioiello di spietatezza. La Stampa ricordò le mani di Karl Radek, la scoperta di Franco Fortini in un saggio del 1965 (Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie); Fortini analizzava un filmato di Lenin alla Terza internazionale, dietro Lenin c'era anche Nicola Bombacci che sarebbe poi diventato fascista di Salò e c'era Radek con gli occhialini e la barbetta e rideva, e alla fine gettava le braccia in avanti. Fortini visionò due copie diverse del medesimo filmato e nella seconda, passata per le mani di forbice di Stalin, la faccia di Radek era stata cancellata, poiché era caduto in disgrazia, ma le mani no, ed erano rimaste a gesticolare galleggianti nei fotogrammi. Villari - qualcuno ricorderà - era stato eletto alla presidenza della Vigilanza Rai senza i voti dei compagni e, siccome non si schiodava, venne estromesso prima dal gruppo poi dal partito e, su demoniaca pretesa di Veltroni, cancellato dall'elenco dei fondatori del Pd. Villari non venne purgato, venne obliterato, eliminato dalla storia, sparso il sale sulla sua ombra. Mai esistito. Bossi non si occupa di queste crudeltà d'archivista. Lui rade al suolo. Con l'elenco dei pogrom leghisti si potrebbe scrivere un breve manuale del genocidio politico: dalla sorella di Umberto, Angela, col marito Pierangelo Brivio, poi passati ai movimenti dell'irrilevanza, e fino a Maurizio Grassano, subentrato in Parlamento a Roberto Cota e poi defenestrato perché inquisito, si percorre un camposanto. Per intenderci: nel 1999 Domenico Comino venne messo alla porta perché osava intrattenere rapporti con il mafioso di Arcore e due anni più tardi toccò a Francesco Tabladini perché al contrario osava contestare il rinato accordo coi berlusconiani, che però mafiosi non erano più. E ci sono le vicende di Franco Rocchetta, Gianfranco Miglio, Giancarlo Pagliarini, delle decine di veneti allergici al «neocentralismo lombardo» e lì il confine fra l'abbandono e la deportazione è labile. E' che Bossi è un diserbante. Nel 1990 ammise di aver falciato uno perché «culattone»: «Un ragazzo per bene ma era omosessuale. Quanti partiti democratici hanno omosessuali dichiarati, cioè donnicciole, nei loro posti chiave? Un omosessuale è persona di tolleranza fragile, instabile». Così, dopo un po', la pretesa di far fuori Fabio Granata non sembra nemmeno tanto campata in aria, soprattutto perché non è che Alleanza nazionale fosse una congregazione così ecumenica. Spettacolare è la vicenda della Caffettiera ai cui tavolini - luglio 2005 - sono seduti Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa e Altero Matteoli. Siamo a Roma, piazza di Pietra. Li ascolta un giovane stagista del Tempo, Nicola Imberti. I tre parlano di Gianfranco Fini: «E' malato, non vedete come è dimagrito, gli tremano le mani. Non possiamo farlo trattare con Berlusconi sul partito unico. Non è capace!». E ancora: «La vera questione è capire chi è Fini oggi. Dobbiamo andare da lui e dirgli: svegliati! Se serve prendiamolo a schiaffi, ma scuotiamolo». I giornali spettegolano su recenti delusioni d'amore di Fini, già separato da Daniela Di Sotto e non ancora congiunto a Elisabetta Tulliani. In un libro uscito da pochi mesi (La conversione di Fini, Vallecchi editore), Salvatore Merlo sostiene che Fini disse ai pochi rimasti al suo fianco: «Per coerenza dovrebbero dimettersi». Poi, ma questa è cronaca, sottrasse al trio le cariche nel partito e azzerò tutte le correnti, in quanto correnti distruttive, mentre la sua attuale è costruttiva. I partiti, si sa, hanno stagioni dolorose, e vale anche per An. Nel 2003 Fini volle e ottenne la testa di Antonio Serena colpevole di aver consegnato a ogni parlamentare una videocassetta dal titolo Guai ai vinti nella quale si sosteneva che Erich Priebke, appena condannato per l'eccidio delle Ardeatine, avesse sparato in ubbidienza ai superiori. Una tesi piuttosto cara alla gerarchia di destra, fino a pochi anni prima. Nel 1998 era stato il turno di Romano Misserville, responsabile di aver fondato il movimento Destra di popolo, forse qualcosa più di una corrente. E insomma, non c'è fazione senza il suo cadaverino. Il Pdci di Oliviero Diliberto ha espulso un anno fa Marco Rizzo con l'accusa di aver fatto campagna elettorale in favore di Gianni Vattimo; l'indimenticabile Franco Turigliatto fu accompagnato all'uscio di Rifondazione comunista perché nel 2007 non diede il voto alla politica estera del ministro Massimo D'Alema, e il gesto provocò qualche traballio al governo di Romano Prodi; lo stesso governo che Nuccio Cusumano - inizio 2008 - cercò di salvare nonostante l'Udeur di Clemente Mastella, a cui era iscritto, avesse negato la fiducia al premier: il gesto di fedeltà al gabinetto e di infedeltà al leader determinò l'espulsione, cui cercò di porre rimedio il Pd. Cusumano fu candidato ma non eletto alle successive Politiche. E siccome il centralismo democratico non piace a nessuno, eccetto che ai capi, una bella medaglia alla memoria del Novecento spetterebbe anche ad Antonio Di Pietro che, a giugno, ha messo al bando dall'Italia dei valori Nicola D'Ascanio, presidente della Provincia di Campobasso, poiché aveva deliberato di nominare tre assessori graditi a lui ma sgraditi alla segreteria, che ne aveva vanamente indicati altri tre.



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