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Stupisce che un partito che porta la «libertà » nel suo nome si esprima con tanta disinvoltura con il linguaggio dell'espulsione, della radiazione, dell'epurazione. Il partito che caccia via chi dissente è leninista, non liberale. E la non sopportazione della diversità bollata come minaccia e sabotaggio della «giusta linea», è un pezzo del ventesimo secolo che si perpetua in quello nuovo. E' la malattia delle oligarchie e delle burocrazie di partito. Una malattia, come usa dire, trasversale: che in questi giorni a sinistra invoca l'abiura di Umberto Veronesi e, a destra, la messa al bando del «finiano» Fabio Granata. Quello di Granata è un delitto di lesa maestà . Meglio: è un delitto d'opinione. Come tutte le opinioni, anche quella di Granata, per definizione, è controversa, discutibile, per di più non immune, a parere di chi scrive, da un certo morbo giustizialista che evidentemente in Italia alligna in tutti gli schieramenti. Ma è un'opinione liberamente espressa. E le opinioni liberamente espresse non dovrebbero ammettere il deferimento ai probiviri del partito, come invece si è imperiosamente intimato nei vertici del Pdl. Semmai i probiviri dovrebbero muoversi in presenza di comportamenti che possano confliggere con i principi dell'etica pubblica e con il rifiuto della commistione tra politica e affari. Ma il Pdl è, giustamente, un partito garantista. Non emette condanne sommarie per quegli esponenti del partito, da Cosentino a Verdini, coinvolti in un affaire di cui è difficilissimo scorgere un profilo penale e che comunque godono del diritto costituzionalmente tutelato alla presunzione d'innocenza. Suona perciò bizzarro e incoerente che al posto della prudenza sui comportamenti subentri l'intransigenza, la severità e finanche l'intolleranza quando si ha a che fare con le parole, i giudizi, le opinioni che in ogni partito democratico, a meno che non sia una setta chiusa e soffocante, dovrebbero avere libera circolazione. Nei panni di Berlusconi, leader carismatico e indiscusso del Pdl, ci si dovrebbe preoccupare più degli esercizi di dossieraggio slealmente praticati all'interno del partito per squalificare il rivale o il concorrente (caso Campania) che delle parole, anche ingenerose, manifestate da uno dei suoi dirigenti in odor di eresia. Prevale invece l'allarme per un dissenso dipinto come un complotto e dunque da amputare con ogni mezzo disciplinare. Si alimenta la tentazione della resa dei conti contro i «guastatori» di Fini. Ci si comporta come una fortezza assediata dove il nemico più insidioso è quello «interno», additato come il principale responsabile delle difficoltà in cui versa il partito (e il governo). La sindrome dell'accerchiamento trascina sempre con sé l'invocazione del giro di vite, l'illusione che una stretta repressiva abbia un valore pedagogico e scongiuri la diffusione del dissenso. Ma è il frutto di un accecamento. L'attesa di una scorciatoia nasconde i problemi, senza risolverli. Trattare chi dissente come una molesta anomalia, un corpo estraneo da tagliare soddisfa un bisogno d'ordine. Ma non può essere la risposta liberale di un partito che, aspirando al 40 per cento dei voti, non può che contenere linee e opinioni diverse. Senza affidarsi alle sentenze dei probiviri.
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