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Il bavaglio sul pensiero

• da la Repubblica del 26 luglio 2010

di Stefano Rodotà

Settimana decisiva per la sorte della legge bavaglio e per la cittadinanza politica di chi osa parlare di questione morale. Negli ultimi giorni, infatti, i due temi si sono strettamente intrecciati, rendendo ancor più evidente che il fine della legge è quello di creare il silenzio intorno alla corruzione e che l'occasione politica sembra propizia per imporre il silenzio agli oppositori interni di Berlusconi. Dal bavaglio a magistratura e informazione si vuol passare al bavaglio personale: chi tocca il tema della moralità pubblica sarà fuori dal Pdl? Bavaglio selettivo, per altro. Tremonti può dire alcune parole e Granata no? Questione di fiducia sulla legge e eliminazione del dissenso nel partito padronale come via perla normalizzazione? La verità è che la vicenda del disegno di legge sulle intercettazioni assomiglia sempre di più ad una guerriglia infinita, ad un terreno di cui si è appena sminato un tratto e già vi sono altre insidie e trappole da schivare. Si rischia così di offuscare anche il risultato positivo dell'opposizione condotta in sede parlamentare e avviata da un'opinione pubblica determinata, e di logorare lo stesso Parlamento proprio nel momento in cui sembra aver ritrovato vitalità, uscendo dalla marginalità nella quale era stato confinato. Infatti, la "ripulitura" del disegno di legge, l'opera di "riduzione del danno" si sono fermate quando si è chiesto di eliminare una norma che, cancellando l'articolo 13 di una legge che porta il nome di Giovanni Falcone, rende più difficile il ricorso alle intercettazioni proprio in casi come quello della cosiddetta P3, della "squallida consorteria" contro la quale il Presidente della Repubblica ha chiesto alla magistratura di andare fino in fondo. Attenzione. Per affrontare una questione che inquietai cittadini, perché rivela gli abissi d'immoralità nei quali siamo piombati, non si stanno invocando norme di emergenza. Si chiede soltanto che le regole esistenti non vengano indebolite proprio nel momento in cui si rivelano più necessarie. L'espressione "questione morale" è tornata all'onore delle cronache, ed è bene che sia così, anche se troppi se ne erano liberati con un'alzata di spalle e oggi dovrebbero riflettere pubblicamente sull'errore commesso, che certamente ha contribuito ad infiacchire uno spirito pubblico già debole e a fornire una sorta di lasciapassare o alibi a faccendieri e cricche d'ogni genere, liberati dal triste sguardo dei moralisti. Oggi, però, parlare dì questione morale è descrizione inadeguata alla realtà che abbiamo di fronte. Nell'indifferenza pubblica, la questione morale è divenuta questione criminale nel senso tecnico dell'espressione. La via difficile della ricostruzione d'una moralità civile, di un'etica pubblica, passa dunque attraverso l'accertamento puntuale e rigoroso delle responsabilità da parte della magistratura. Giustizialismo? Nessuno vuol negare a indagati e imputati tutte le garanzie. Ma garanzia è cosa assai diversa da impunità assicurata attraverso la manipolazione delle norme. Questa nuova sfaccettatura della discussione mostra come la definizione di "legge bavaglio" continui a corrispondere alla realtà dei fatti. Sta emergendo con chiarezza una strategia volta a dividere, o almeno indebolire, il fronte degli oppositori. Le concessioni riguardanti la pubblicazione delle notizie e la responsabilità degli editori possono indurre qualche pezzo del sistema dell'informazione, insolitamente compatto nell'opporsi al disegno di legge, a dire che il risultato è stato raggiunto e che non è più necessario stare in trincea. Ma vi sono molte buone ragioni per ritenere che questa sia una conclusione almeno frettolosa. Gli emendamenti approvati sono davvero solo una riduzione di un enorme danno, non una soluzione rassicurante, per limiti e ambiguità che ancora permangono. Resta inammissibile la penalizzazione dei blog, che rivela a un tempo volontà repressiva e scarsa conoscenza del mondo che si vuole regolare. E le limitazioni all'attività investigativa dei magistrati finiscono con l'incidere sulla stessa libertà d'informazione: se alcune modalità d'indagine sono inammissibili o particolarmente difficili, si dissecca la fonte delle notizie, l'opinione pubblica perde il diritto di conoscere per valutare chi ha responsabilità pubbliche e maneggia pubblico denaro. I diversi aspetti della critica alla legge bavaglio, dunque, continuano a rimanere legati. E proprio questa sorta di scorporo della questione informativa, questa parziale disponibilità verso l'informazione accompagnata da una sostanziale rigidità verso la magistratura rivelano che la limitazione dei poteri di quest'ultima rimane l'obiettivo irrinunciabile. Una rete di protezione deve continuare ad avvolgere corruzione e pratiche dì malaffare. L'oscurità, non la trasparenza, deve divenire il contrassegno del sistema istituzionale (non a caso, proprio in questi stessi giorni, si discute di rendere più stringente il segreto di Stato). Quello che si manifesta attraverso l'attacco alla magistratura, infatti, è proprio il tentativo tenace di alterare quell'"architettura costituzionale" che il presidente del Consiglio ha una volta ancora pubblicamente accusato d'essere all'origine dell'impossibilità sua di governare il Paese. Una volta di più, quindi, dobbiamo ripetere che lo infastidisce la stessa democrazia, che vuol dire governo in pubblico, pesi e contrappesi, poteri separati e bilanciati. Tutti intralci sulla strada di un autocrate che si ritiene investito d'un potere finale e assoluto di decisione in virtù d'una interpretazione dell'investitura elettorale come mandato in bianco, che renderebbe irrilevanti le altre istituzioni e inammissibili i controlli. Ecco, allora, il rifiuto del controllo parlamentare, occasione di lungaggini, di alterazione della volontà dei sovrano; del controllo di legalità, con la magistratura che pretende dì impedire l'abbandono delle regole, di indagare i mostruosi connubi tra politica e affari, di mettere a nudo i comportamenti della magistratura deviata; e del controllo di costituzionalità, che impone di fare i conti proprio con l'odiata Costituzione, da Berlusconi definita un "ferrovecchio cattocomunista" in piena continuità con il leggiadro linguaggio dell'era craxiana. Storia nota, mille volte raccontata? Anche se così fosse, non sarebbe una buona ragione per rassegnarsi, per tacere, perché proprio la ripetizione ci ricorda che vi è un pericolo che bisogna continuare a fronteggiare, divenuto più grave dopo che le ultime vicende hanno rivelato non solo illeciti personali, ma l'annidarsi all'interno delle istituzioni di persone e gruppi che hanno diffuso nell'intero sistema l'uso disinvolto e privatistico del potere. Si comprendono, allora, l'attenzione vigile, la severità dei richiamo costante del Presidente della Repubblica a principi e regole che sono il fondamento della democrazia repubblicana. Nulla è più lontano da un "presidenzialismo strisciante", né si può guardare agli interventi di Giorgio Napolitano come fonte di un conflitto. Non vi è un contrapporsi del Presidente della Repubblica al presidente del Consiglio. Vi è chi indica e segue la retta via costituzionale, e chi ogni giorno con atti e parole mostra di volerla abbandonare.



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