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CASO ITALIA: DOSSIER 2, LA NEGAZIONE DEL DIRITTO COSTITUZIONALE AL REFERENDUM

27 marzo 2003



LA NEGAZIONE DEL DIRITTO AL REFERENDUM

“E’ indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali.
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali.
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la camera dei deputati.
La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.
La legge determina le modalità di attuazione del referendum.”
Articolo 75, Costituzione della Repubblica italiana.


PREMESSA: IL REFERENDUM ABROGATIVO, UN CORPO ESTRANEO NEL SISTEMA POLITICO ITALIANO.

Il sistema politico italiano ha manifestato da sempre una forte e radicata, quasi strutturale ostilità nei confronti del referendum abrogativo, manifestatasi in una serie di comportamenti ed omissioni che hanno portato alcuni studiosi a parlare dell’esistenza di una “convenzione antireferendaria”.
In un sistema politico consociativo come quello italiano, infatti, le consultazioni referendarie sono state «percepite come fatti negativi perché ritenute occasione e fonte di conflitti e divisioni che avrebbero avuto ripercussioni negative sugli assetti delle coalizioni di governo e sulla stabilità del regime politico» (Pier Vincevo Uleri, “I partiti e le consultazioni referendarie in tema di giustizia e di nucleare”, in P. Corbetta, L. Leonardi (a cura di), “Politica in Italia”, Bologna, 1988, p. 201).

Il referendum è stato osteggiato dal sistema politico italiano anche perché è riuscito a sottrarre ai partiti il monopolio sulla determinazione dell’agenda politica. Come ha scritto il politologo Angelo Panebianco, «il potere più rilevante dei partiti consiste proprio nel controllo sulle procedure mediante le quali viene presa la decisione su che cosa dovrà essere sottoposto a decisione. Qui interviene una solidarietà interna alla classe politica che, al di là dei contrasti che possono manifestarsi sulla sostanza delle singole decisioni, deve sempre necessariamente costituirsi pena una grave destabilizzazione di tutti gli equilibri.» (A. Panebianco, “Le risorse della partitocrazia e gli equivoci della partecipazione”, in Argomenti Radicali, n. 7, 1978).
I referendum, invece, possono «consentire una distribuzione più ampia del potere in tutto il sistema, in particolare rispetto all’agenda politica. Si crea un numero più grande di punti di ingresso al sistema politico, l’insieme degli attori politici è allargato, e la monopolizzazione del potere è diminuita. In Italia, il referendum abrogativo ha giocato un ruolo importante nella definizione dell’agenda su questioni morali come l’aborto e su questioni relative alle riforme elettorali. Ha anche aperto il processo politico a gruppi emergenti dalla società civile piuttosto che dal sistema costituito dei partiti, in particolare il Partito radicale e una varietà di gruppi cattolici di destra.» (M. Mendelsohn and A. Parkin, “Introduction: referendum democracy”, in M. Mendelsohn, A. Parkin (eds), “Referendum democracy. Citizens, elites and deliberation in referendum campaigns”, Palgrave, 2002, p. 18).
La maggior parte dei referendum è stata infatti promossa da partiti di minoranza, da organizzazioni della società civile, da comitati trasversali o dalle regioni (116 su 127).

La “convenzione antireferendaria” del sistema politico italiano si è manifestata anzitutto con il ritardo con cui questo istituto ha trovato attuazione: il Parlamento ha provveduto a varare la legge applicativa del referendum (legge 25 maggio 1970, n. 352) con ben 22 anni di ritardo rispetto all’approvazione della Carta Costituzionale, con il risultato di aver sottratto ai cittadini per oltre due decenni un diritto politico solennemente previsto dalla Carta fondamentale della Repubblica.
Varando la legge di attuazione del referendum, inoltre, il Parlamento non si è limitato ad applicare il dettato costituzionale, ma ha introdotto una serie di altri limiti all’uso di questo strumento:
1) non può essere depositata richiesta di referendum nell’anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere e nei 6 mesi successivi alla data di convocazione delle elezioni per una delle due Camere;
2) le richieste di referendum possono essere depositate per ciascun anno soltanto dal 1° gennaio al 30 settembre;
3) le consultazioni referendarie possono svolgersi soltanto in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno;
4) i referendum sono sottoposti ad un duplice controllo di legittimità: al momento del deposito delle firme, da parte dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione; successivamente, ma comunque prima del voto, da parte della Corte Costituzionale;
5) nel caso di scioglimento anticipato delle Camere o di una di esse, il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso.

Proposte di modifica in senso restrittivo dell’articolo 75 della Costituzione e della legge di attuazione del referendum sono stati proposti puntualmente, pur se senza successo, in occasione di varie tornate referendarie dai maggiori partiti politici.

Gli Statuti approvati dai Consigli regionali, cui la Costituzione rimanda per la regolamentazione del referendum abrogativo di leggi e provvedimenti amministrativi approvati della regione, hanno affidato il giudizio di ammissibilità sui referendum regionali all’Ufficio di Presidenza del Consiglio o al Consiglio stesso, ad organi cioè non giudiziari ma politici.

In ben tre occasioni - nel 1972, nel 1976 e nel 1987 - i maggiori partiti hanno provocato lo scioglimento anticipato delle Camere pur di far slittare le consultazioni referendarie. (cfr. L. Paladin, “Diritto costituzionale”, Padova, 1995, p. 484).

Le date fissate per alcune consultazioni referendarie sono state tali da ostacolare in partenza il raggiungimento del quorum. A norma di legge, infatti, il Governo può fissare la data della consultazione referendaria in una qualsiasi domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno. La scelta dell’ultima domenica di giugno rappresenta una scelta politica, determinata dalla volontà di rendere più difficile il raggiungimento del quorum per la validità dei referendum. Nel caso dei 7 quesiti del 1997 (ma date intorno alla metà di giugno erano state scelte anche per i referendum del 1978, ‘85, ’90 e ’95) la data scelta dal Governo per il voto fu proprio il 15 giugno, l’ultimo giorno utile. A quella data, le scuole erano già chiuse, secondo i dati dell’ENIT (Ente Nazionale Italiano per il Turismo), 2.700.000 italiani erano in ferie scaglionate secondo direttive ed indirizzi pubblici, mentre, sempre secondo dati ENIT, 8 milioni di italiani in più rispetto ad aprile e maggio si trovavano lontani dai luoghi di residenza.

Anche il motivo per il quale le forze politiche si risolsero ad approvare la legge istitutiva del referendum nel 1970 è eloquente. Quando i partiti laici, maggioritari in Parlamento ma da anni alleati alla Democrazia cristiana, si coalizzarono sotto la pressione dell’opinione pubblica per approvare la legge sul divorzio, la Democrazia cristiana chiese in cambio la legge istitutiva del referendum, convinta che la società italiana avrebbe respinto un provvedimento osteggiato dalla Chiesa cattolica.
Successivamente la maggioranza dei cittadini si espresse a favore del mantenimento della legge sul divorzio votando “no” al referendum abrogativo svoltosi nel 1974.

Per concludere, la convenzione antireferendaria del sistema politico italiano ci sembra facilmente riassumibile con questi numeri: dall’introduzione nell’ordinamento italiano del referendum (1970) all’ultima consultazione referendaria (2000) sono stati promossi ben 127 referendum; la Corte Costituzionale ne ha bocciati 62, mentre 12 non sono stati sottoposti al voto perché il Parlamento ha provveduto ad evitarli modificando le leggi sottoposte a referendum. Su 53 quesiti votati dagli elettori, 36 hanno visto la vittoria del “sì”, ma soltanto 19 di questi referendum sono risultati validi, perché 18 non hanno raggiunto il quorum dei votanti previsto dalla legge (50% + 1 degli aventi diritto).

1. LA CORTE COSTITUZIONALE

La Costituzione italiana assegna ai cittadini due tipi di schede elettorali: quelle per la scelta dei suoi rappresentanti negli organi legislativi nazionali e locali, e quelle per l'abrogazione delle leggi votate da questi organi.
Secondo la Costituzione italiana, l’ammissibilità del referendum abrogativo ha come unici limiti quelli posti dal secondo comma dell’art. 75: “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali.”
Nel corso degli anni, invece, la Corte costituzionale ha elaborato una lunga serie di ulteriori limiti all’ammissibilità dei referendum, ritenendo che l’accesso al voto dei cittadini debba essere precluso non solo dai limiti individuabili attraverso la lettura della Costituzione, ma anche da «una serie di cause inespresse, previamente ricavabili dall’intero ordinamento costituzionale» (sentenza n. 16 del 1978).
In questa sua opera di restringimento dell’ambito di operatività dell’istituto referendario, la Corte ha percorso, spesso contraddittoriamente, diverse strade:
- ha interpretato estensivamente le categorie di leggi precluse dall’art. 75, sottraendo al referendum «le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività delle leggi indicate dall’art. 75 che la preclusione debba ritenersi sottintesa» (sentenza n. 16 del 1978).
- ha dichiarato inammissibili le leggi ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, ossia quelle leggi «il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa» (sentenza 16 del 1978).
- ha compreso nel divieto di cui sopra leggi genericamente ritenute «costituzionalmente obbligatorie» sostenendo che «gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale non possono essere esposti alla eventualità, anche solo teorica, di paralisi di funzionamento».
- ha dichiarato inammissibili referendum abrogativi di alcune norme della legge elettorale (sentenze nn. 47 del 1991, 5 del 1995, 26 del 1997) e sull’elezione del Consiglio superiore della magistratura (sentenza n. 29 del 1987), perché non ritenuti “autoapplicativi” (nel senso che la normativa di risulta non sarebbe stata sufficiente a garantire lo svolgimento delle elezioni, nonostante il Governo fosse obbligato ad intervenire con provvedimenti amministrativi sufficienti a colmare il vuoto).

Attraverso la creazione di questa giurisprudenza, di carattere spesso contraddittorio e comunque tale da creare una situazione di incertezza e assoluta discrezionalità rispetto al giudizio sull’ammissibilità dei referendum, la Corte costituzionale è divenuta titolare di un potere molto ampio e molto delicato dal punto di vista politico.
In Italia ci troviamo in una condizione in cui l’esercizio del diritto al referendum non è soltanto limitato in maniera molto più ampia e restrittiva di quanto previsto dalla Costituzione, ma quasi del tutto sospeso in termini di certezza del diritto data l’arbitrarietà dei giudizi di ammissibilità della Corte.
Così facendo, la Corte costituzionale ha di fatto impedito in numerosissime occasioni al popolo italiano di servirsi della seconda delle due schede assegnategli dai padri costituenti, trasformandosi in garante degli equilibri dei gruppi di potere italiani, precludendo agli elettori l’esercizio del diritto di voto e vanificando il diritto di iniziativa referendaria dei milioni di cittadini che in questi anni hanno sottoscritto i quesiti referendari dichiarati inammissibili della Corte.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia referendaria è stata fortemente criticata dalla dottrina. Riportiamo di seguito il giudizio dato sulla giurisprudenza della Corte in materia referendaria da personalità di assoluta competenza in materia, cioè da ex Presidenti della stessa Corte Costituzionale:

Il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Antonio Baldassarre (Presidente dal 23 febbraio all’8 settembre 1995) ha fatto in proposito le seguenti dichiarazioni:

“il giudizio della Corte ha un’ampia dose di arbitrarietà (…) un’ampiezza di discrezionalità tale per cui pochi referendum potrebbero salvarsi, quelli che si salvano è perché il giudice di costituzionalità fa finta che non esistano dei problemi che invece altre volte fa valere. Ad esempio il criterio della legislazione residua, è un criterio che si presta a far fuori, a dichiarare inammissibili qualsiasi referendum. (…) non è possibile che un giudizio di ammissibilità su un referendum sia un giudizio di così estrema latitudine che diventa un giudizio di politica costituzionale (…), ma si potrebbe anche togliere l’aggettivo.”
(Intervista rilasciata a Radio Radicale, 4 gennaio 1997).

“La giurisprudenza offre alla Corte moltissimi elementi per dichiarare inammissibili quasi tutte le richieste referendarie. (…) Non essendoci limiti certi di inammissibilità, le scelte alla fine sono di carattere politico costituzionale (…) Quando si deve giudicare sui referendum il mondo politico entra in subbuglio, creando forti pressioni sulla Corte. E’ come se si ritenesse l’elettore italiano meno intelligente di altri, incapace di capire se e come vuole votare. Tutto questo manifesta un atteggiamento complessivo nella cultura politica e negli osservatori contrario al referendum, e questo pesa sulla Corte nei giudizi di ammissibilità: perché di fatto si richiede implicitamente un giudizio di inammissibilità su molti referendum.”
(Intervista del 6 gennaio 1997 alla vigilia del giudizio della Consulta sui 20 referendum radicali)

“Era il 1987, quando ci fu la seconda svolta abbastanza negativa in materia di referendum. Era, mi pare, il referendum sul porto d’armi in cui fu teorizzato un limite, a mio avviso, assolutamente assurdo che rivelava l’atteggiamento antireferendario, l’ideologia antireferendaria della giurisprudenza della Corte Costituzionale, cioè il limite della chiarezza (…) Questo limite non guarda più al fatto che l’oggetto della domanda referendaria deve essere omogeneo, ma guarda a quello che i promotori lasciavano fuori della richiesta, cioè le omissioni della domanda referendaria. Mi sono battuto contro l’introduzione di questo nuovo limite, perché richiede ai promotori una conoscenza delle norme vigenti che non è richiesta neppure al legislatore, tanto più in un paese come il nostro che è pieno di norme e di leggi che nessuno conosce. Credo che quella indicata sia proprio la manifestazione estrema di come la Corte Costituzionale ponga tali e tanti ostacoli ai promotori da scoraggiare fortemente l’uso del referendum, cioè di uno strumento che, qualunque cosa si voglia dire, è una manifestazione di volontà del popolo.”
(Intervento riportato in D. Capezzone, M. Eramo, G. Micheletta, M. Staderini, (a cura di) “Tornare alla Costituzione”, atti del convegno organizzato dalla Lista Bonino il 6 e 7 dicembre 1999, edito da Giappichelli, Torino, 2000, pp. 165-168)

Il Presidente Emerito Vincenzo Caianiello (Presidente dall’8 settembre al 23 ottobre 1995), ha dichiarato quanto segue:

Sull’orientamento giurisprudenziale della Corte che ritiene inammissibili i referendum abrogativi aventi ad oggetto le leggi elettorali di organi costituzionali: “Qualora si volesse invece confermare la giurisprudenza che paralizza un diritto politico espressamente garantito dalla Costituzione, non resterebbe che prenderne atto e intraprendere la strada degli organismi internazionali, previsti per la tutela dei diritti civili e politici.”
(Intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica, 23 gennaio 1997)

A proposito della bocciatura dei referendum elettorali in quanto non auto applicativi, ha dichiarato: “non c’è chi non veda come in questo modo viene introdotto un impedimento all’esercizio del diritto referendario in relazione alla materia elettorale, non compresa tra quelle che la Costituzione indica come non assoggettabili a referendum.”
(Intervista rilasciata al quotidiano Corriere della Sera, 31 gennaio 1997)

In occasione della pronuncia della Corte Costituzionale sul referendum consultivo promosso dalla Regione Lombardia: “la Corte Costituzionale, che è stata sempre così avara nell’ammettere i referendum dei radicali che erano pienamente legittimi dal punto di vista costituzionale in quanto previsti dalla Costituzione si comporta diversamente per questo referendum.”

Il Presidente Emerito Livio Paladin (Presidente dal 3 Luglio 1985 al 1 luglio 1986) ha dichiarato:

“L’organo della giustizia costituzionale aveva più volte ‘mutato’ i propri criteri di giudizio, finanche all’interno di ciascuna tornata referendaria. Contraddizioni del genere non debbono però verificarsi ulteriormente, giacché la credibilità della Corte ne verrebbe compromessa. (…) bisogna evitare - mi sembra - che i limiti del referendum abrogativo si accumulino fino al punto di paralizzare o di circoscrivere troppo gravemente l’uso del solo importante strumento di democrazia diretta del quale il corpo elettorale italiano abbia sinora potuto servirsi. (…)”


2 - I REFERENDUM TRADITI

Il diritto costituzionale al referendum non è stato sospeso soltanto attraverso la giurisprudenza della Corte Costituzionale ma anche con il sovvertimento degli esiti delle consultazioni referendarie.
Nel 1987 si è tenuto un referendum mirante all’abrogazione di alcune norme del Codice di Procedura Civile che prevedevano speciali limitazioni della responsabilità del magistrato per il danno causato nell’esercizio delle sue funzioni. Vinse il “Sì” con una percentuale dell’80%. L’anno successivo il Parlamento approvò una legge per la responsabilità civile del magistrato che ha di fatto vanificato il risultato del referendum sostituendo alla responsabilità personale del magistrato quella dello Stato.
A questo proposito, il Presidente Emerito Vincenzo Caianiello ha dichiarato: “La legge attuale grida vendetta, ha creato un sistema così macchinoso da neutralizzare gli effetti del referendum che voleva ricondurre tutti i magistrati nell’alveo della responsabilità degli altri pubblici funzionari. La griglia di limitazioni è più ampia di prima, e la irresponsabilità è stata estesa allo Stato: un autentico tradimento della volontà referendaria.”
(Intervista rilasciata al quotidiano il Giornale, 7 gennaio 1997).

Il 18 aprile 1993 si sono tenuti, tra altri, il referendum per l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti e quello per la soppressione del Ministero dell’Agricoltura. Ha vinto ancora il “Sì” con percentuali rispettivamente del 90 % e del 75 % dei votanti.
Per quanto riguarda il referendum sul Ministero dell’Agricoltura, il 5 giugno dello stesso anno - con una norma contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica che dichiarava l’avvenuta abrogazione delle norme istitutive del Ministero - è stata differita l’entrata in vigore dell’abrogazione stessa. Il 5 agosto dello stesso anno è stato istituito il Ministero per il Coordinamento delle Politiche agricole, alimentari e forestali e con la legge 491 del 4 dicembre del 1993 è stato definitivamente istituito il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali tradendo in modo evidente il risultato di quel referendum.
Analogamente, il 21 dicembre 1996 è stata approvata una legge volta a reintrodurre il meccanismo del finanziamento pubblico dei partiti attraverso la possibilità per i contribuenti di devolvere il “quattro per mille” dell’Irpef a questo scopo (peraltro il cittadino disponibile non poteva finanziare il suo partito, ma era costretto a finanziarli tutti, e comunque venne stabilito che fosse sufficiente il parere favorevole del 15% dei contribuenti affinché ai partiti fosse assegnato il tetto massimo stabilito dalla legge). Grazie a questa operazione, i partiti incassarono 160 miliardi nel 1997 e 110 miliardi nel 1998. Il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Antonio Baldassarre dichiarò: “quella legge mi è parsa un errore: ripristina un sistema precedente al voto referendario. E, in sostanza, lo tradisce.” (Intervistato rilasciata al quotidiano Corriere della Sera, 6 gennaio 1997).
Immediatamente dopo quel voto parlamentare, i promotori del referendum del 1993 si appellarono al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro affinché non promulgasse la legge: ma il Presidente, che pure aveva dichiarato pochi anni prima che il Parlamento a seguito di un referendum dovesse legiferare “sotto dettatura” del corpo elettorale, diede via libera al provvedimento.
A quel punto, il Comitato promotore del referendum del 1993 sollevò un conflitto di attribuzioni con il Parlamento dinanzi alla Corte Costituzionale perché fosse bloccata una legge in così palese contrasto con la volontà popolare: ma la Consulta affermò che il Comitato non avesse titoli per promuovere il conflitto di attribuzioni contro il Parlamento. Si sancì così, grazie al Presidente Scalfaro e alla Corte costituzionale, la piena legittimità di fatto dello stravolgimento di una decisione degli elettori.
Nel maggio del 1999 fu approvata una nuova legge che pur abrogando la normativa sul “quattro per mille” aumentava indiscriminatamente l’importo dei rimborsi elettorali. In base alle leggi preesistenti, infatti, i partiti incassavano, come rimborso, 800 lire per abitante in occasione delle elezioni europee, 1200 lire per abitante in occasione delle elezioni regionali e 1600 lire per abitante in occasione delle elezioni politiche. Con la nuova legge, invece, i rimborsi furono elevati alla soglia delle 4000 lire per elettore in occasione di qualunque tipo di consultazione: in questo modo, in tre anni, i partiti hanno finito per incassare la bellezza di 770 miliardi di lire.

Nel 1995 si è votato un referendum che chiedeva l’abrogazione delle norme che impedivano la privatizzazione della RAI. Circa 13,8 milioni di elettori, il 55 % dei votanti, si sono espressi per il “Sì” pronunciandosi dunque per la privatizzazione della concessionaria unica del servizio pubblico radiotelevisivo. Da allora nulla è stato fatto in questo senso e la RAI continua ad essere di proprietà statale.

3. IL REFERENDUM DECISO DAI MORTI

Il 18 aprile del 1999 si è votato per l’abolizione della quota proporzionale nella legge elettorale della Camera dei Deputati. Tenendo presente che la Costituzione stabilisce che il risultato delle consultazioni referendarie è valido se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, il 18 aprile 1999 a decidere non sono stati i poco più di 21 milioni di italiani, il 91,5% dei votanti, che si sono pronunciati per il “sì”, ma i 150 mila voti mancanti che non hanno fatto raggiungere il quorum. A decidere sono stati ad esempio i 2.351.306 cittadini italiani residenti all’estero, dei quali solo 13.542, lo 0,5% degli aventi diritto) erano entrati in possesso del certificato elettorale necessario per votare (Sottosegretario del Ministero dell’Interno On. Adriana Vigneti, risposta ad interpellanza, Camera dei deputati, 27 maggio 1999). Gli altri non hanno potuto votare per due ragioni. Perché l’Italia è uno dei pochi Paesi che non prevede, per i suoi residenti all’estero, altro modo di votare se non quello di tornarsene in Italia, anche se risiedono in Argentina o in Australia (non esiste alcuna forma di “absenteen vote”, in altre parole). L’altra ragione è che diverse centinaia di migliaia di cittadini iscritti nei registri elettorali non esistono più: sono morti, oppure assolutamente irreperibili, ma concorrono alla determinazione del quorum per la validità dei referendum e della quota dei rimborsi elettorali che la legge assegna ai partiti (4.000 lire per ogni avente diritto al voto, che voti o meno non importa).
L’anno successivo per ottenere che venissero cancellati i morti dalle liste elettorali alla vigilia dei referendum del 21 maggio, i promotori dei referendum del 2000 hanno dovuto organizzare un sit-in permanente giorno e notte davanti alla sede del Governo per 4 giorni. Solo all’immediata vigilia del voto è stato approvato un decreto legge (mai convertito in legge e quindi reso definitivo) che impegnava i Comuni ad una revisione straordinaria delle liste, in particolare di quelle dei residenti all’estero. Il risultato è stata la cancellazione di oltre 350.000 persone dalle liste elettorali. Se tale cancellazione fosse stata effettuata l’anno precedente, come chiesto dai Comitati promotori del referendum del 1999, il quorum per quel referendum sarebbe stato raggiunto.
Il risultato di quel referendum fu infatti il seguente:

Votanti per il SI: 21.161.866 - 91,5 %
Votanti per il NO: 1.960.022 - 8,5 %
Totale dei votanti: 23.121.888 - 100 %

I Comitati promotori del referendum del 1999 hanno presentato ricorso presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dell'articolo 3 del Protocollo n° 1 addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo del 4.11.1950 (quanto al diritto a libere elezioni) e per violazione dell'articolo 1 del Protocollo n° 1 addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo del 4.11.1950 (quanto al diritto al rispetto dei beni).

4. LE REGOLE DELLA CAMPAGNA REFERENDARIA

Insieme ai telegiornali, le trasmissioni di dibattito politico sono la fonte principale di informazione per gran parte degli elettori. In Italia, le trasmissioni televisive a contenuto politico mandate in onda dalla Rai nel periodo elettorale sono regolamentate dalla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
Uno degli aspetti più problematici dell’informazione referendaria è il difficile bilanciamento tra le due parti a confronto: i sostenitori del “si” e quelli del “no”. In Italia questo bilanciamento è stato del tutto assente fino alla campagna del 1993.
Già nel 1969, prima dell’approvazione della legge istitutiva del referendum, il Partito radicale aveva inviato all’allora Presidente della Repubblica Saragat e a tutti i deputati una lettera di denuncia del progetto di legge in discussione. Tra i punti sollevati, uno in particolare riguardava la comunicazione durante la campagna referendaria:

Tutto il disegno di legge è concepito in modo da ricondurre anche il referendum nell’ambito delle strutture indirette e partitiche che caratterizzano la nostra vita politica. La norma più grave è quella che regola la campagna e la propaganda elettorale prima del referendum, nella quale ciascun partito rappresentato in Parlamento avrà gli stessi diritti (stessi spazi murali, stesso tempo televisivo) della organizzazione promotrice del referendum. Questa legge è palesemente iniqua e assurda; senza ricorrere al caso limite di un referendum osteggiato da tutti i partiti, basti pensare al caso di una richiesta di referendum promossa da un solo partito e avversata da tutti gli altri. In questo caso il partito promotore avrebbe un ottavo del tempo televisivo e degli spazi murali. (…) Ora è evidente che sostenitori e avversari del referendum devono avere a disposizione uguali mezzi e possibilità.

In effetti, l’articolo 52 della legge di attuazione del referendum richiama per quanto riguarda la propaganda referendaria alle disposizioni delle leggi 4 aprile 1965, n. 212 e 24 aprile 1975, n. 130 riguardanti le campagne elettorali. “Le facoltà riconosciute dalle disposizioni delle predette leggi ai partiti o gruppi politici che partecipano direttamente alla competizione elettorale si intendono attribuite ai partiti o gruppi politici che siano rappresentanti in Parlamento nonché i promotori del referendum, questi ultimi considerati come gruppo unico.” Adattando quanto la legge prevedeva per le affissioni murali alla propaganda televisiva, la Commissione di vigilanza ha attribuito gli spazi di comunicazione politica senza tener conto della posizione assunta dai partiti rispetto al referendum.
Tutti i tentativi attuati dai radicali per modificare questo criterio di ripartizione degli spazi televisivi sono stati impediti a causa del controllo esercitato dai partiti sulla Commissione di vigilanza e dell’insindacabilità giudiziaria delle delibere adottate dalla stessa Commissione, ritenute da una giurisprudenza consolidata appartenenti “a un’area di giustizia politica (…) quindi sottratte al controllo giurisdizionale”.
La situazione italiana appariva ancor più assurda dal confronto con altri Paesi. In Gran Bretagna, ad esempio, il criterio della ripartizione degli spazi tra i partiti indifferentemente dalla loro posizione sul referendum era stato abbandonato già nel 1979, quando un tribunale scozzese aveva condannato l’Indipendent Broadcasting Authority per averlo applicato in relazione alla campagna sul referendum per la devolution. Secondo il tribunale, con l’applicazione del criterio della parità di spazi per tutti i partiti, l’IBA aveva violato il suo dovere statutario di assicurare il bilanciamento tra le opposte posizioni sul referendum, dato che ben tre partiti si erano schierati a favore della devolution contro un solo contrario.
Solo nel 1993, all’interno di una crisi più generale del sistema dei partiti, l’Ufficio di Presidenza della Commissione di vigilanza approvava un regolamento esplicitamente diretto a soddisfare l’esigenza “di garantire la partecipazione di tutti gli aventi diritto secondo la legge istitutiva del referendum, art. 52, e di garantire altresì momenti di confronto paritario tra il ‘sì’ e il ‘no’ secondo il criterio dell’equal time.” Da allora in poi almeno il criterio dell’equal time tra posizioni favorevoli e contrarie ai referendum verrà confermato dai regolamenti varati dalla Commissione di vigilanza e infine definitivamente codificato dalla legge così detta par condicio del 2000.
La legge sulla par condicio nulla dice, tuttavia, sul ruolo dei comitati promotori dei referendum. La Commissione di vigilanza ha sempre varato regolamenti delle Tribune referendarie fortemente restrittivi nei confronti dei comitati promotori, equiparandoli sostanzialmente ai partiti politici nella ripartizione degli spazi. Nel caso italiano, come d’altronde in Svizzera e in molti Stati del Nord America, i referendum di iniziativa popolare possono essere indetti solo a seguito della raccolta di almeno 600 mila firme autenticate di elettori. Il Comitato promotore deve sostenere spese non indifferenti per indire un referendum e necessita di una struttura organizzativa assai ampia, in grado di organizzare una campagna di raccolta firme su tutto il territorio nazionale. Non a caso, il Comitato promotore è stato riconosciuto dalla Corte Costituzionale italiana come “potere dello Stato”, competente secondo la Corte “a dichiarare la volontà dei firmatari della richiesta medesima” peraltro “anche in riferimento alle restrizioni che possono porsi alla propaganda elettorale”.
Tuttavia, nella ripartizione degli spazi televisivi, il Comitato promotore è stato costantemente equiparato ad ogni altra forza politica favorevole al referendum. I risultati sono facilmente quantificabili: nel 1978 il regolamento delle tribune referendarie varato dalla Commissione di vigilanza attribuiva ai comitati promotori il 17% del tempo complessivo dedicato ai partiti (1h su 5h 55’), nel 1981 il 33% (2h 45’ a fronte di 8h 12’), nel 1985 il 7% del tempo destinato ai partiti e il 32% di quello dedicato ai sindacati (52’ contro rispettivamente 8h 28’ e 2h 40’), nel 1987 il 21% del tempo dei partiti (1h 42’ contro 8h 4’) e nel 1990 il 22% (1h contro 4h 30’).
Questo ha contribuito a fari sì che a prevalere fosse una rappresentazione dello scontro referendario che tende a riprodurre la dialettica interpartitica e i rapporti di forza già esistenti e a impedire ai promotori di spiegare adeguatamente all’elettorato i quesiti referendari e il significato generale dell’iniziativa. I partiti, strutturalmente ostili allo strumento referendario (e come potrebbero non esserlo trattandosi di un istituto che per sua stessa natura si oppone alle decisioni prese dal Parlamento?), sono riusciti ad esercitare in questo modo uno stretto controllo anche su questo processo decisionale attraverso “l’orientamento dell’elettorato sul significato e l’interpretazione politica dei quesiti referendari e la mobilitazione per la partecipazione degli elettori al voto.”
Quello che i radicali, in veste di comitati promotori, hanno più volte richiesto agli organismi preposti alla regolamentazione delle campagne referendarie è stato, da una parte, un confronto paritario tra ragioni del “sì” e ragioni del “no”, e dall’altra il riconoscimento del ruolo istituzionale del Comitato promotore al fine di consentire, come scrivono i comitati promotori dei referendum del 1997 in un dossier consegnato alla Commissione di vigilanza, “che nel dibattito: a) non sfuggano e non vengano alterati gli obiettivi e le finalità che hanno dato origine alla proposta di abrogazione popolare; b) tali obiettivi e finalità vengano rappresentanti da chi ne abbia l’effettiva titolarità”.
Questa questione non è stata risolta neanche con l’approvazione della legge sulla par condicio, in quanto la norma nulla dice in merito al ruolo del comitato promotore, limitandosi a sancire il principio della parità di condizioni tra favorevoli e contrari. Nella memoria presentata all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nel 2000, i comitati promotori radicali si preoccupavano proprio di far sì che in sede di attuazione regolamentare della legge le autorità preposte tenessero in considerazione il “contesto ordinamentale ben definito” suggerendo alcune possibili soluzioni: “Delle due l’una: interpretare la norma facendo coincidere i favorevoli al quesito referendario con i promotori oppure riconoscere il Comitato promotore nella sua doppia funzione, quella istituzionale di presentazione e difesa delle ragioni del referendum, garanzia del diritto all’informazione referendaria, e quella di parte all’interno delle posizioni politiche favorevoli all’abrogazione. Il contesto normativo, costituzionale e ordinario, la copiosa giurisprudenza della Corte costituzionale non lasciano spazio a soluzioni differenti. Diversamente si configurerebbe l’incostituzionalità di atti che incidono sulla correttezza della campagna referendaria e sul processo di formazione della volontà referendaria, ogni limitazione della facoltà di partecipare ai dibattiti radiotelevisivi sui referendum essendo suscettibile di ledere l’integrità delle attribuzioni del Comitato promotore”.
Sia la Commissione di vigilanza che l’Autorità non tennero in conto le ragioni dei comitati promotori così che nel 2000 questi dovettero dividersi gli spazi riservati ai favorevoli con altri 13 soggetti tra partiti e comitati per il sì.

5. LA VIOLAZIONE DELLE REGOLE SULL’INFORMAZIONE

In diversi casi il sistema dei partiti è arrivato fino al punto di violare quelle stesse regole che come abbiamo visto permettono già di per sé un elevato controllo dei partiti sulla campagna referendaria.
Nel 1997 gli elettori furono chiamati a votare su 7 referendum, di cui 6 promossi dai radicali e 1 da cinque consigli regionali del Nord Italia. Partendo da una valutazione meramente quantitativa, la copertura informativa fornita dai due telegiornali di maggiore ascolto risultava essere del tutto marginale. Il non coinvolgimento dei maggiori partiti ebbe come conseguenza uno scarso rilievo informativo della campagna referendaria, che si tradusse anche nel ritardo con cui i mass media cominciarono ad occuparsene. Il ciclo di tribune partì solo il 26 maggio, quando era già trascorso circa 1/3 dei 30 giorni previsti dalla legge per le campagne elettorali, e fu soltanto a seguito della trovata di Pannella di presentarsi alla prima tribuna mascherato da fantasma che i telegiornali cominciarono ad informare sui referendum. Inoltre, oltre alle tribune, soltanto quattro trasmissioni della Rai e due di Mediaset (20 minuti al Maurizio Costanzo show ed un ora dalle 23 alle 24 di venerdì 13 giugno, in contemporanea per buona parte con gli appelli al voto trasmessi dalla Rai) ospitarono dibattiti referendari nel mese precedente alla consultazione, e soltanto una di queste venne trasmessa in prima serata, la puntata di Porta a Porta del 13 giugno, che, per di più, come denunciato dai radicali e in contrasto con il regolamento varato dalla Commissione di vigilanza, escludeva i Comitati promotori da ben quattro dei sette faccia a faccia in sui si fronteggiavano i sostenitori del “sì” e del “no”. Il Garante per l’editoria, Francesco Paolo Casavola, già Emerito Presidente della Corte Costituzionale, in due occasioni denunciò pubblicamente il comportamento delle concessionarie televisive, definendolo lesivo dei principi di correttezza e imparzialità dell’informazione. Il Garante sottolineò come il silenzio sui quesiti referendari potesse a tutti gli effetti esser considerato un appoggio alle posizioni che si opponevano a quelle dei promotori.
In quest’occasione ancor più che in altre, sistema politico e sistema dei media si sono rivelati intimamente uniti nella vera e propria soppressione della campagna referendaria, in contrasto con precise previsioni normative, come ad esempio l’articolo 6 del regolamento varato dalla Commissione di vigilanza il quale recitava, in palese contraddizione con la data nel quale era stato approvato, che “dal trentesimo giorno precedente la data del voto, e fino al termine della campagna referendaria, i telegiornali della concessionaria pubblica e le trasmissioni riferibili alla responsabilità di una testata giornalistica devono informare sui temi oggetto dei referendum.”
Inoltre, la Commissione, nel rispettare la regola della par condicio tra favorevoli e contrari ai quesiti referendari, aveva però previsto un ciclo di dibattiti destinati ai soli gruppi presenti in Parlamento, con l’esclusione perciò dei comitati promotori. Questi dibattiti furono programmati in orario serale nell’ultima settimana prima del voto, cioè nel periodo in cui statisticamente una grande percentuale degli elettori compie la propria decisione di voto, e in seconda serata, in una fascia oraria cioè assai più vantaggiosa in termini di ascolti rispetto a quella pomeridiana prevista per le altre tribune referendarie. Questo comportamento, come scrive Alessandro Oddi, rientrava pienamente nella tradizionale linea della Commissione, orientata dal proposito “di ricondurre e, in qualche modo, di riassorbire anche la fase dell’informazione e della propaganda referendaria nell’alveo dei rapporti interni al sistema dei partiti, consentendo a questi ultimi di beneficiare in via esclusiva di un canale privilegiato per indirizzare il voto dei propri elettori.”
Per aggirare l’ostacolo dell’insindacabilità giurisdizionale degli atti della Commissione di vigilanza, i radicali, nella veste di Comitati promotori - potere dello Stato, promossero un conflitto di attribuzione con il Parlamento di fronte alla Corte Costituzionale. La Corte, infatti, aveva già riconosciuto precedentemente che “le restrizioni disposte alla campagna referendaria (…) appaiono suscettibili di incidere sulla formazione della volontà di coloro che esprimono il loro voto nel referendum e, di conseguenza, della sfera di attribuzioni garantita, ai sensi dell’art. 75 Cost., ai ricorrenti.” I Comitati promotori contestavano il regolamento approvato dalla Commissione di vigilanza per la campagna referendaria del 1997 perché: a) prevedeva un ciclo di dibattiti, per lo più trasmessi nell’ultima settimana ed in orario serale, riservato ai soli gruppi parlamentari con l’esclusione dei Comitati promotori; b) in questo ciclo di dibattiti non era assicurata la parità di spazi tra i favorevoli e i contrari ai quesiti; c) la delibera era stata approvata in ritardo rispetto ai tempi previsti dalla legge per la campagna referendaria, cioè 30 giorni.
La Corte prima respinse la richiesta di provvedimento cautelare quando ancora era in corso la campagna referendaria (e l’eventuale sentenza favorevole ai promotori avrebbe potuto ordire qualche effetto) poi, con la sentenza n. 49 del 12 marzo 1998, a distanza di ben 9 mesi dal voto, respingeva l’intero ricorso. “L’essenza del principio desumibile in materia dalla Costituzione - argomentava la sentenza - è la necessaria democraticità del processo politico referendario e l’esigenza che in esso sia offerta dal servizio pubblico televisivo la possibilità che i soggetti interessati, anche attraverso organizzazioni costituite in vista della consultazione referendaria, partecipino alla informazione e alla formazione dell’opinione pubblica; i modi e le forme in cui tale partecipazione deve svolgersi sono rimessi, però, alla discrezionalità della Commissione parlamentare”.
La sentenza della Corte e le sue motivazioni, secondo Maria Grazia Rodomonte, più che a motivazione giuridiche, erano riconducibili “sia all’intento di non operare un controllo troppo penetrante sulle modalità di esercizio del potere riconosciuto alla Commissione, e quindi alla maggioranza parlamentare; sia al fatto che la vicenda - sullo sfondo della quale si colloca la consultazione referendaria - è evidentemente una vicenda ad alto tasso di politicità.” Il self-restraint dei giudici della Consulta, concludeva Rodomonte, unito alla latitanza del legislatore, rendevano la Commissione di vigilanza “il depositario esclusivo del potere di gestire le Tribune referendarie secondo criteri assolutamente discrezionali, e con la possibilità inoltre, proprio attraverso la disciplina di tali trasmissioni, di ‘organizzare un veicolo pubblicitario e quindi d’instaurare un particolare collegamento con il popolo sovrano’ nel caso di specie ad esclusivo vantaggio dei gruppi parlamentari, avallando, in tal guisa, meccanismi di chiusura del sistema politico-partitico nei confronti del ricorso a canali decisionali alternativi rispetto al normale circuito rappresentativo. La ragione dell’introduzione di tali meccanismi,” proseguiva la giurista, “può essere rinvenuta forse, nella volontà di difesa del circuito rappresentativo stesso rispetto all’effetto destabilizzante del ricorso al referendum. Tuttavia è ben evidente come si tratti di meccanismi non previsti nel nostro ordinamento, apertamente configgenti quindi con il principio democratico che la Corte avrebbe dovuto tutelare e soprattutto tali da consolidare la tendenza in atto nel nostro Paese all’assorbimento dello strumento di democrazia diretta all’interno del sistema partitico”.

6. IL REFERENDUM CONFERMATIVO DEL 7 OTTOBRE 2001

Un altro caso di palese violazione della legalità si è avuto durante la campagna sul primo referendum costituzionale, il referendum sul federalismo votato il 7 ottobre del 2001. Il referendum metteva ai voti l’adozione di una riforma costituzionale, inerente il Titolo V della Costituzione Italiana, approvata alla fine della 13° legislatura con una maggioranza inferiore a quella dei due terzi richiesta dall’art. 138 Cost. per le riforme costituzionali. In tal caso è prevista la possibilità di referendum sottoporre la riforma a referendum confermativo, che fu richiesto dall’allora opposizione parlamentare, la coalizione di centrodestra, e successivamente anche dalla coalizione di centrosinistra al fine di ottenere una conferma popolare del proprio operato. Il referendum fu quindi indetto dalla quasi totalità delle forze politiche parlamentari.
La legge sulla par condicio (legge 22 febbraio 2000, n. 28) obbligava sia le reti pubbliche che quelle private a trasmettere spazi di comunicazione politica a partire dalla convocazione dei comizi elettorali, 45 giorni prima del voto. La legge attribuisce alla Commissione Parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi ed all’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni il compito, previa consultazione tra loro, e ciascuna nell'ambito della propria competenza, di regolare la ripartizione degli spazi, assegnandoli in misura uguale fra i favorevoli e i contrari al quesito referendario.
A partire dal 24 agosto, quindi, i cittadini italiani avrebbero dovuto essere messi nelle condizioni di essere informati sui quesiti referendari attraverso tribune politiche, trasmissioni di approfondimento, messaggi autogestiti dei soggetti politici aventi diritto e momenti di contraddittorio tra le parti in gioco.
Tuttavia, a seguito del rinnovamento dei parlamentari dovuto alle recenti elezioni politiche, la Commissione parlamentare di vigilanza doveva ancora costituirsi ed eleggere il proprio Presidente. A questo scopo venne convocata la prima seduta per il 3 agosto, non procedette alla elezione della sua Presidenza, condizione necessarie per la sua costituzione, a causa del mancato accordo tra i partiti politici, alcuni dei quali fecero venir meno il numero legale. I Presidenti delle due Camere, cui spetta la decisione in merito, fissavano la data della successiva convocazione soltanto per il 4 settembre, ben 12 giorni dopo il termine stabilito dalla legge per l’inizio della campagna referendaria radiotelevisiva. Anche in questa occasione, la Commissione non era in numero legale e dunque i Presidenti delle due Camere la riconvocano per il successivo 19 settembre, di nuovo senza successo. La Commissione venne quindi riconvocata per il successivo 24 settembre e procedette alla elezione del nuovo Presidente, e dunque alla sua costituzione a soli 13 giorni dalla data fissata per la consultazione referendaria.
Nei giorni 27 e 28 settembre la Commissione si riunì con all’ordine del giorno l’approvazione della delibera recante il regolamento di attuazione della legge sulla par condicio per la campagna referendaria sulle reti del servizio pubblico, senza riuscirvi per la sistematica mancanza del numero legale.
La conseguenza fu l’assenza di qualsiasi regola per la campagna referendaria del servizio pubblico radiotelevisivo. Per il mancato accordo tra le forze politiche, dunque, ai cittadini fu negata l’informazione che la legge prevede come obbligo in capo alla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo al fine di garantire il libero esercizio del diritto di voto. Dal monitoraggio televisivo eseguito dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni relativamente alla campagna referendaria, ed avente quindi ad oggetto il periodo 22 agosto - 5 ottobre 2001, risulta che il servizio pubblico RAI, sulle tre reti televisive, ha dedicato in totale soltanto 32 minuti e 58 secondi ai sostenitori del SI e 28 minuti e 57 secondi ai sostenitori del NO, per di più tutti all’interno di un’unica trasmissione.
E difatti, secondo un sondaggio commissionato dalla stessa Rai, a meno di una settimana dal voto, emergeva che:
- il 19% degli italiani aveva la convinzione che non vi fosse, entro il mese successivo, alcuna consultazione elettorale;
- il 50% degli italiani non sapeva nulla del referendum;
- il 12% degli italiani sapeva che c’era un referendum ma non conosceva bene l’oggetto;
- il 18% degli italiani sapeva che il 7 ottobre si sarebbe tenuto un referendum e che l’oggetto della consultazione era sul ‘federalismo’.
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato, in data 7 agosto, la delibera n. 539/01/CSP recante “Disposizioni di attuazione della disciplina in materia di comunicazione politica e di parità di accesso ai mezzi di informazione relative alla campagna per il referendum popolare confermativo della legge costituzionale recante modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione.” Lo ha fatto contravvenendo alla legge dato che non vi è stata la consultazione preventiva con la Commissione di vigilanza prevista dall'art. 4, comma 2 della legge n.28/2000. La violazione della legge può portare a conseguenze gravissime, teoricamente anche la nullità della delibera, cioè dell’unico provvedimento esistente in materia di informazione elettorale referendaria.
Al di là delle ragioni contingenti e delle inadeguatezze normative che hanno reso possibile questo risultato, il dato da sottolineare è la patente violazione della legalità che si è registrata in occasione di una votazione popolare su un referendum costituzionale. A tanto giunge la “convenzione antireferendaria” in Italia.
Su questo episodio i radicali hanno presentato un ricorso contro l’Italia presso la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per violazione degli articoli 10, commi 1 e 2, e 13 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, nonché per la violazione dell’art. 3 del Protocollo n. 1 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.


6.1 LA CIRCOLARE DEL MINISTERO DEGLI INTERNI E LA GIORNATA DEL 7 OTTOBRE

Constatata la soppressione della campagna referendaria, il 30 settembre, il movimento politico “Radicali Italiani” ha rivolto un invito ai cittadini e ai militanti radicali a rendersi disponibili per giovedì 4 ottobre ad un pubblico falò dei certificati di godimento dei diritti politici e per domenica 7 ottobre a contestare formalmente presso i seggi elettorali la legalità della prova referendaria predisponendo un apposito testo pubblicizzato a pagamento sul quotidiano “Il Foglio”.
Il 6 ottobre i radicali venivano a conoscenza di una circolare del Ministero dell’Interno, diramata ai Prefetti per essere indirizzata ai Presidenti di seggio, nella quale testualmente era scritto:
Alcuni gruppi politici hanno diramato sulla stampa quotidiana un invito agli elettori affinché richiedano al presidente di seggio, in occasione delle operazioni di voto del referendum costituzionale di domenica 7 ottobre p.v., che venga fatta verbalizzare una dichiarazione con la quale si contesta la validità e la legalità della consultazione a causa, in sostanza, della presunta scarsa pubblicità data alla stessa.
Al riguardo si ritiene che tali dichiarazioni, concernendo le modalità di svolgimento della propaganda referendaria, non possano essere assunte a verbale, non rientrando nella fattispecie dei reclami, proteste e contestazioni, afferenti alle operazioni elettorali di cui all’art. 74 comma 2, del D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361. Si pregano, pertanto le ss.ll. di rappresentare quanto sopra ai presidenti di seggio. Sottolineando la necessità di dare corretta applicazione al suddetto disposto normativo, come nei sensi indicati, e richiamando altresì l’attenzione sulle disposizioni del paragrafo 7 della pubblicazione n. 2 “Referendum” curata dal Ministero dell’Interno, recante “istruzioni per le operazioni degli uffici di sezione”.
Questa circolare appare del tutto illegittima in quanto il citato art. 74 del Testo Unico delle Leggi Elettorali D.P.R. 30 marzo 1957, n 361 e successive modifiche recita:
Il verbale delle operazioni dell'Ufficio elettorale di sezione è redatto dal segretario in doppio esemplare, firmato in ciascun foglio e sottoscritto, seduta stante, da tutti i membri dell'Ufficio e dai rappresentanti dei candidati nel collegio uninominale e delle liste presenti. Nel verbale dev'essere presa nota di tutte le operazioni prescritte dal presente testo unico e deve farsi menzione di tutti i reclami presentati, delle proteste fatte, dei voti contestati (siano stati o non attribuiti provvisoriamente alle liste o ai candidati) e delle decisioni del presidente, nonché delle firme e dei sigilli. Il verbale é atto pubblico.
Inoltre il comma 5 del medesimo Testo Unico recita:
Il segretario dell'Ufficio elettorale che rifiuta di inserire nel processo verbale o di allegarvi proteste o reclami di elettori è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa sino a lire 4.000.000.
La citata circolare del Ministero degli interni ha posto in seria difficoltà i Presidenti di seggio che, di fronte alla richiesta di verbalizzazione degli elettori, si sono comportati in modo diverso nelle diverse sezioni elettorali d’Italia :
alcuni, hanno accolto la contestazione e verbalizzato quanto richiesto dagli elettori;
altri, attenendosi rigorosamente a quanto sollecitato dalla circolare ministeriale, hanno rigettato categoricamente la richiesta di verbalizzazione
altri ancora, hanno accettato di verbalizzare il mancato accoglimento della contestazione
Occorre in ultimo osservare quale informazione sia stata data la sera del 7 Ottobre 2001 dalle reti televisive Rai e dalle reti televisive Mediaset (il più grande gruppo televisivo privato, che comprende tre emittenti nazionali) circa i risultati di questa consultazione referendaria. Già prima dell’ inizio dell’azione militare degli USA contro l’Afganistan, che finì inevitabilmente col calamitare l’attenzione dei media, Mediaset aveva annunciato che non avrebbe dedicato ad essa alcuno spazio apposito, e la Rai annunciò spazi sorprendentemente esigui. Una campagna referendaria vissuta all’insegna della negazione di ogni diritto, soprattutto all’informazione, non poteva concludersi in modo più coerente.
Il referendum costituzionale confermativo ha visto prevalere il “Sì” con il 64,2%, pari quasi a 10 milioni e mezzo di voti, contro i 5 milioni ed 800 mila voti del “No” (35.8%).
Alle urne si sono recati il 34% degli elettori.

7. SEGRETERIE COMUNALI E CERTIFICATI ELETTORALI

Gli impedimenti all’esercizio del diritto politico al referendum sono venuti anche dall’amministrazione dello Stato, in particolare per quanto riguarda la raccolta delle firme nelle segreterie comunali e l’invio dei certificati elettorali ai cittadini in prossimità del voto.
I Segretari Comunali sono tenuti ad autenticare le firme dei cittadini che sottoscrivono le richieste dei referendum, ai sensi dell'art.8 della legge 25 maggio 1970, n. 352. I Comitati promotori dei referendum provvedono ad inviare presso tutte le Segreterie comunali i moduli per la raccolta delle firme, con il relativo materiale di istruzione.
La sottoscrizione delle richieste referendarie presso le segreterie comunali è, per la gran parte dei cittadini, l'unico strumento a disposizione per esercitare un diritto costituzionalmente riconosciuto. Soprattutto quando la raccolta è effettuata da organizzazioni politiche di cittadini che sono prive dell’appoggio di partiti di massa, o di organizzazioni sindacali che, indipendentemente dall'interesse suscitato nei cittadini dai quesiti referendari, possano assicurare il raggiungimento del numero di firme previsto dalla legge con l'utilizzo delle proprie sedi e con il numero dei propri aderenti od iscritti, le segreterie comunali costituiscono uno strumento essenziale, unico ed insostituibile per assicurare ai cittadini il diritto costituzionalmente previsto di sottoscrivere i quesiti referendari. Riportiamo qui due casi particolarmente eclatanti di ostruzionismo nei confronti del diritto dei cittadini a sottoscrivere le richieste di referendum presso i luoghi istituzionali preposti e un esempio dell’incidenza della consegna dei certificati elettorali sull’esito del voto.

7.1 Campagna di raccolta delle firme del 1995

In data 5 luglio 1995, il Ministro degli interni diramava la circolare n. 133 indirizzata ai Prefetti di tutte le Province italiane, nella quale venivano specificati i compiti che in tale circostanza i segretari comunali devono assolvere, ed in particolare: indicare al pubblico l'ufficio comunale ove è possibile sottoscrivere i referendum, segnalare tempestivamente al comitato promotore l'eventuale esaurimento dei moduli messi a disposizione, rispedire ai comitati promotori in due diverse date (25 agosto e 15 settembre) i moduli contenenti le firme a quelle date già autenticate.
In base a controlli a campione effettuati nel mese di agosto da parte di cittadini che si erano recati a firmare oppure con telefonate direttamente effettuate dal personale dei comitati promotori è risultato che:

a) le segreterie comunali non potevano svolgere il servizio per ferie del personale nei seguenti comuni:
COVO (BG), CROPALATI (CS), CUSINO (CO), DESANA (VC), DOGLIOLA (CH), FORTEZZA (BZ), MENDICINO (CS), MILZANO (BS), MOLVENO (TN), NAVE (BS), PANTIGLIATE (MI), PERGINE VALSUGANA (TN), ROPPOLO (VC), RUTIGLIANO (BA), SANT'URBANO (PD), SUPERSANO (LE), TERLIZZI (BA), CAUTANO (BN), CAIANELLO (CE), MONFALCONE (GO), BONARCADO (NU), AIROLE (IM), ARONA (NO), BINETTO (BA), BELLEGRA (RM), BINETTO (BA), ORTONA (CH), MONFALCONE GRADO (GO), SAN SEVERO (FO), NUMANA (AN), SAN CALOGERO(CZ);

b) il servizio non poteva essere svolto quotidianamente perché‚ nel corso della settimana sono previsti più giorni di chiusura degli uffici nei seguenti comuni:
NAGO TORBOLE (TN), PIANOPOLI (CZ), ROGOLO (SO), RUDIANO (BS), SAN VITO SULLO IONIO (CZ), ROCCA DI PAPA (RM), ROSSA (VC), BOMPIETRO (PA), CHIAMPO (VI), CORDIGNANO (TV) VE, CORIANZE (AT), CANARO (RO), CASTELBIANCO (SV), FONZASO (BL), FERNO (VA), GOSSOLENGO (PC), GESSOPALENA (CH), LONGARE (VC) NEIRONE (GE), OPERA (MI), PARETTA (CE), POMIGLIANO D'ARCO (NA), RACCUJA (ME), QUINTO VICENTINO (VI), SIGNA (FI), MANFREDONIA (FO), DELFORTE DEL CIMENTI (MC);

c) inoltre il servizio veniva svolto parzialmente o in forma inefficace per diverse ragioni, tra le quali la vera e propria interruzione non motivata, la mancanza di moduli di raccolta firme non segnalata al comitato, l'utilizzo solo parziale dei moduli a disposizione, oppure infine l'impiego di moduli non correttamente vidimati (data di vidimazione errata) nei seguenti comuni:
MODUGNO (BA), ISPRA (VA), SANTA VENERINA (CT), OGINATE (LE), ILBONO (NU), MARINA DI PIETRASANTA (LU), SANT'ELPIDIO A MARE (AP), PIZZOLI (AQ), BELIZZI (SA), MASTANO (LE), SAN BIAGIO DI CALLALTA (TV), MERANO (BZ), COMUNE DI PORTO SANT'ELPIDIO (AP), MASSA (MS), AVEZZANO (AQ), PISA (PI), COLLECCHIO (PR), TRABBIA (PA), GRAGNANO (NA), PITIGLIANO E SORANO (GR), CARRARA (MS), BISCEGLIE (BA), SAN GIUSTINO (PG), COSENZA (CS), DIANO MARINA (IM), TORTORETO (TE), MASSA MARTANA (PG), AGRIGENTO (AG), CASTEL MELLA (BS), BEINASCO (TO).

(Dati tratti dall’interpellanza presentata dai deputati radicali il 30 agosto 1995 al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell'Interno)

La manifestazione più eclatante di questi comportamenti nel corso della seconda fase della campagna di raccolta delle firme del 1995 (fu ripresa perché non si riuscì a raccogliere il numero di firme necessarie la prima volta) è stata rilevata quando, in risposta ad una lettera circolare dei comitati promotori indirizzata direttamente ai segretari degli 8.097 comuni italiani, con la quale si richiedeva l'invio il 20 di novembre di tutti i moduli sui quali a quella data fossero state apposte delle firme, alla data del 5 dicembre erano arrivati plichi solo da 3.007 comuni, mentre 5.090 segretari comunali non davano alcun riscontro alla richiesta dei comitati stessi. I comuni che al 7 dicembre 1995 avevano indebitamente trattenendo le firme di cittadini sottoscrittori, o comunque non davano alcun riscontro alle richieste del comitato promotore rappresentavano il 63% del numero complessivo dei comuni italiani, cui corrispondeva una popolazione residente di oltre 35 milioni di cittadini.

(Interpellanza urgente presentata dai deputati radicali il 7 dicembre 1995 al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro degli Interni e al Ministro di grazia e giustizia)

7.2 Campagna di raccolta della firme del 1997

Durante la raccolta delle firme su 35 referendum nell’estate del 1997, il Ministro degli Interni Napolitano il 5 luglio inviava una circolare nella quale si ordina alle Segreterie Comunali di restituire i moduli vidimati ai Comitati Promotori. Dopo 22 anni, di fatto, si vietava la raccolta presso i Comuni. Dopo 10 giorni di scioperi della fame, interpellanze, interrogazioni, denunce, il 15 luglio il Ministro Napolitano emanava una nuova circolare che ripristina la legalità violata.

7.3 Certificati elettorali

“Il numero dei certificati elettorali non consegnati non si è discostato - scriveva il 13 ottobre 1997 il Ministro Napoletano i risposta ad un’interrogazione del senatore radicale Piero Milio - in misura apprezzabile dai dati registrati in occasione di precedenti tornate referendarie. Alla chiusura delle operazioni di votazione, la percentuale complessiva dei certificati non consegnati è stata, infatti, del 7,3%, con un incremento di appena l’1,1% per cento rispetto alla consultazione referendaria del 1995, allorché la percentuale fu del 6,2 per cento.”
In realtà, come sottolineavano i radicali in una successiva interrogazione presentata nel 1999, il dato dell’1,1% di certificati in meno consegnati corrisponde a circa 500.000 persone, cioè a due volte e mezzo gli elettori che sono mancati per il raggiungimento del quorum nel 1999.

8. CONCLUSIONI

L’Italia, insieme alla Svizzera e ad alcuni Stati americani, è uno dei pochi Paesi il cui ordinamento prevede la possibilità di indire referendum di iniziativa popolare, per quanto soltanto di natura abrogativa. Questo strumento ha consentito di conquistare, contro la volontà o l’inerzia dei partiti, riforma di portata storica come il riconoscimento del divorzio e dell’aborto negli anni ’70, l’abbandono dell’energia nucleare negli anni ’80, la riforma del sistema elettorale negli anni ’90. Altre riforme di altrettanta importanza sono state impedite attraverso i comportamenti e i meccanismi di cui abbiamo tentato di dar conto.
Al di là del favore che si può avere per questo strumento di democrazia diretta, il punto di partenza è il fatto che il referendum abrogativo è previsto dalla Carta Costituzionale italiana (articolo 75) come diritto politico inviolabile a disposizione dei cittadini. Qualsiasi limitazione del ricorso al referendum deve essere stabilita per legge e non può arbitrariamente essere imposta attraverso comportamenti di fatto, ostracismi istituzionali, censure mediatiche e violazioni di leggi.
Quello che abbiamo tentato di documentare con questo dossier è la sistematica violazione della legalità costituzionale praticata in Italia ai danni della certezza del diritto, della Costituzione e dei diritti politici dei cittadini italiani per ciò che concerne il diritto al referendum.


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