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TESTO DELL'INTERVENTO DI EMMA BONINO ALL'ASSEMBLEA NAZIONALE

22 gennaio 2000

Preambolo

Non posso cominciare senza guardare indietro, al passato così prossimo e così entusiasmante del nostro partito.
Ricordate l'Assemblea dei Mille? Eravamo qui ed era appena il 6 marzo dell'anno scorso. Ci accingevamo a lanciare la sfida - sconsiderata, secondo alcuni - dei referendum, e ci auguravamo che le questioni sollevate dai quesiti potessero essere "all'ordine del giorno" nell'aprile del 2000, nella migliore delle ipotesi. Siamo riusciti a realizzare - con le nostre limitate risorse, umane e finanziarie - la migliore delle ipotesi.
abbiamo fatto di più. La rivoluzione liberale contenuta nei referendum - lo dicevo io stessa quel 6 marzo scorso - ci sembrava una iniziativa politica di tale portata da non potere essere delegata ai soli radicali. E sostenevo: "Solo se altri sentiranno queste esigenze come prioritarie, solo se riusciremo ad aggregare altre forze e non in modo burocratico possiamo sperare di farcela". Ebbene, siamo riusciti a raccogliere, strada facendo, due milioni e mezzo di voti alle elezioni europee di giugno e 16 milioni di firme in calce ai quesiti referendari in piena estate. Non cito questi dati per gusto di auto-esaltazione ma perché mi paiono il segno di un consenso che cresce e si consolida via via che si chiariscono i nostri obiettivi, via via che il paese nel suo insieme scopre di essere in sintonia con i nostri obiettivi.
Fino al grande dibattito nazionale letteralmente esploso in queste ultime settimane. Perché ormai le riforme proposte dai nostri referendum - finalmente analizzate e discusse dai media - dominano la scena di congressi e riunioni di partiti politici, sindacati, organizzazioni imprenditoriali. E' quello che volevamo. E se tutto ciò è accaduto in soli undici mesi, ed altro continua ad accadere, allora non è vero che i tempi della politica italiana sono - come molti credono - necessariamente biblici. Allora è vero che anche l'Italia può cambiare ed evolversi, come cambiano ed evolvono le altre grandi democrazie industriali. Anche se, non dimentichiamolo, i nostri primi tentativi di lanciare temi e riforme liberisti rimontano al 1993.
Gli italiani hanno finalmente messo a fuoco le quattro modernizzazioni contenute nel pacchetto referendario e da noi orgogliosamente rivendicate (ancora qui, nel congresso del luglio scorso) come un programma di governo, un programma infinitamente più comprensibile e coraggioso delle fumisterie elaborate sia dalla numerosa, litigiosa e petulante famiglia del centro-sinistra, sia dal consorzio politico-aziendale presieduto da Silvio Berlusconi.
Le quattro modernizzazioni che noi invochiamo - riguardanti il funzionamento della giustizia, il sistema politico e il finanziamento della politica, la riforma del sistema sanitario e di quello previdenziale, e soprattutto, la liberalizzazione del mercato del lavoro - sono altrettanti passaggi obbligati se vogliamo restare membri a parte intera dell'Unione europea.

Giustizia

Sulla giustizia, malgrado i rassicuranti discorsi d'apertura dell'anno giudiziario recitati dai nostri ermellini, il segnale più eloquente viene dal procuratore generale della Cassazione: l'Italia rischia di venire sospesa dal Consiglio d'Europa (insieme alla Turchia, non so se mi spiego) perché è il paese più condannato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Condannato per la durata eccessiva dei processi e per una lunga serie di altre violazioni della Convenzione europea dei diritti umani.
In apparenza la giustizia è l'unico ambito nel quale il Parlamento sia intervenuto, addirittura con una riforma costituzionale, parlo del nuovo articolo 111 riguardante il "giusto processo". A noi sembra una riforma destinata a morire sul nascere, a produrre un nuovo groviglio di norme da interpretare e reinterpretare, a produrre paralisi: perché questa riforma è priva della sua necessaria premessa. Come si fa a realizzare un processo "giusto" - in cui accusa e difesa si scontrano ad armi pari di fronte a un giudice "terzo", spettatore imparziale - senza modificare insieme l'ordinamento giudiziario, separando le carriere di giudici e magistrati del Pubblico ministero?
Proprio la separazione delle carriere, questione inutilmente discussa in Italia da oltre 25 anni, propone il più importante fra i nostri referendum in materia di giustizia. Solo il referendum permetterà di tagliare questo nodo. Lo sostiene oggi anche l'Avvocatura penale italiana che auspica da decenni la separazione delle carriere e che - con l'adesione dell'Unione delle camere penali italiane al Comitato d'onore per i referendum sulla giustizia - dimostra al di là di ogni dubbio l'urgenza della riforma che proponiamo.
Anche gli altri cinque referendum toccano questioni cruciali irrisolte. La riforma in senso maggioritario del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura è l'unica strada per liberare l'organo di autogoverno dei giudici dalla stretta soffocante delle correnti, che lo hanno trasformato in luogo di autoconservazione e di minaccia al principio della separazione dei poteri, attraverso una politicizzazione para-sindacale di un organo cui la Costituzione attribuiva tutt'altro ruolo.
E lo scandalo dei termini processuali, che valgono per cittadini e difensori ma rimangono pura indicazione - sprovvista di sanzioni - per i magistrati? Non c'è altra via che il referendum per cancellarlo.
Né sarà possibile - senza i referendum - mettere fine all'indecenza degli incarichi extra-giudiziari dei magistrati (stigmatizzati perfino dal CSM, a parole); né ottenere la riduzione dei termini di custodia cautelare; né affermare la responsabilità civile dei magistrati.
A quest'ultimo proposito non posso non ricordare il colpo di mano con cui la partitocrazia ha sovvertito l'esito di un plebiscito popolare (l'80% dei sì) i cui simboli rimangono il volto di Enzo Tortora e la storia del suo processo.

La legge elettorale e il finanziamento della politica

Per quanto riguarda le riforme istituzionali non sarò certo io a rifare l'ennesima morale sui risultati del "Mattarellum", sui quaranta partiti che imperversano sulla scena politica e sul numero ormai illimitato di deputati transumanti, alla ricerca del miglior pascolo disponibile. Ripeterò qui invece i risultati di uno studio del Fondo Monetario Internazionale - e sfido chiunque a trovare un ente più autorevole e insieme neutrale in materia di regole elettorali - che considera i sistemi socioeconomici dei paesi dotati di sistema maggioritario mediamente meglio gestibili, più produttivi e più trasparenti rispetto a quelli dove si vota con il proporzionale. Per la semplice ragione, fra le altre, che il maggioritario riduce drasticamente il peso della “mediazione dei partiti”.
Gli elettori italiani hanno bocciato clamorosamente il proporzionale nel 1993, ma questo non impedisce a molti presunti rappresentanti di quegli elettori di riscoprire oggi le virtù del proporzionale. E poi ci lamentiamo dell'astensionismo di massa? Mi chiedo alle volte se personaggi politici come i figli della diaspora democristiana - i Mastella, i Buttiglione, i Casini (a proposito, un bentornato a Flaminio Piccoli che rifonda la DC) - pensino di dovere rendere conto di quel che fanno anche ai loro elettori o solo a Bruno Vespa.
Mi piacerebbe farmi spiegare da Silvio Berlusconi in persona l'itinerario logico che ha seguito dal 1996 - quando firmò con noi un impegno solenne a presentare una legge sul presidenzialismo e l'uninominale a turno unico – alla fine del 1999, quando ha inopinatamente riscoperto il fascino del proporzionale.
Si capisce benissimo, per contro, il panico che suscita l’ipotesi di mettere fine al finanziamento pubblico dei partiti, attualmente denominato “rimborso elettorale”.
Tariffa corrente: 4000 lire a voto. Se infatti si arriva al referendum – e non riesco a immaginare che cosa possa impedirlo, quand’anche la Consulta fosse presa da una crisi di follia collettiva – i primi caldi dell’estate, fra maggio e giugno, farebbero evaporare alcune centinaia di miliardi e appassire svariati cespugli. E già, perché in questo stesso parlamento a cui non bastano anni interi per produrre una sola riforma, è bastata una settimana per varare la leggina sul ripristino del finanziamento pubblico. E siccome sarà difficile per le burocrazie di partito trovare il coraggio di invocare ancora, ad alta voce, la provvidenze di Stato, gli italiani allaccino le cinture: l’ipotesi di elezioni anticipate tornerebbe ad apparire a molti partiti come l’unica salvezza dalla bancarotta.
Craxi scrive nel suo testamento che la pratica del finanziamento occulto era pratica che coinvolgeva “tutti o quasi tutti”. Ebbene, noi siamo stati e siamo orgogliosamente quel “quasi” di cui parla Craxi.

Noi, la sinistra e la liberalizzazione del mercato del lavoro

E veniamo alla più urgente e discussa delle riforme, la liberalizzazione del mercato del lavoro. Ma poiché questo tema fa scorrere fiumi d'inchiostro e sembra quasi prefigurare uno "scontro di civiltà" fra noi "liberali sfrenati", senza morale, e coloro che avrebbero invece a cuore il benessere e la dignità della persona che lavora, consentitemi una digressione. Semantica, in primo luogo.
Quando i comunisti si chiamavano comunisti, e i socialisti socialisti, "liberale" era quasi un insulto: ma perché adesso che tutti sono diventati liberali, anche gli ex-comunisti, proprio noi - che non abbiamo cambiato né nome né ideologia - dobbiamo vederci espropriati dell'etichetta di liberali e relegati nella inquietante categoria dei "liberali sfrenati"?
Se in politica valessero, come per la creazione artistica e letteraria, i diritti d’autore, noi radicali saremmo più ricchi di tutti. E già che parlo di diritti d’autore, è giusto citare quel che Mauro Suttora ha scritto qualche giorno fa su “Il Foglio” chiedendosi: sopravviverebbero i DS senza i radicali? L’articolo non fa che ricostruire il mezzo secolo in cui i radicali hanno sistematicamente anticipato e ispirato l’azione dei comunisti e dei post-comunisti.
Ora questa storica rincorsa della sinistra ufficiale nei nostri confronti (non so più come chiamarli senza urtare qualche suscettibilità: né comunisti né post-comunisti; né marxisti né post-marxisti; né socialisti né socialdemocratici;) - questa rincorsa, dicevo, è diventata nei giorni scorsi al congresso del Lingotto qualcosa a metà fra lo scippo e l’appropriazione indebita. Che sa di caricatura.
I care, dice Veltroni, “me ne preoccupo”, riesumando uno slogan dei pacifisti radicali anni Sessanta. E pazienza. Ma di cosa si preoccuperà il popolo democratico di sinistra? Dei derelitti del mondo e della loro fame? Bravi, noi abbiamo cominciato quindici anni fa. Del DalaiLama e del popolo tibetano colonizzato da Pechino? Bravi. Noi abbiamo cominciato tredici anni fa.
Dell’impossibilità di fronteggiare il fenomeno della droga con il semplice proibizionismo? Era tempo. Della campagna per l’abolizione della pena di morte? Ma non è stato forse il governo D’Alema che in sede europea ha mascherato la viltà di una ritirata all’Onu, presentandola ipocritamente come “il coraggio di una sconfitta”? Dei diritti umani e dell’inconciliabilità fra comunismo e libertà? Benvenuti nel club.
Ricordiamo le vostre ironie quando noi – che bollavate come agenti della CIA - andavamo a farci arrestare nei paesi del blocco sovietico per aiutare i dissidenti e invocare libertà; o quando ci preoccupavamo dei boat-people buttati a mare prima dal “glorioso popolo vietnamita” e poi dal "glorioso popolo cubano" del vostro immaginario collettivo. Avete messo Togliatti in soffitta? Alla buon’ora. Noi abbiamo sempre saputo che un’ipotetica Norimberga dedicata alle nefandezze dello stalinismo coinvolgerebbe fatalmente Togliatti ed altri “rivoluzionari di professione” italiani come testimoni se non complici di crimini impuniti contro l’umanità. Voi vi accingete a scoprirlo.
Niente di nuovo sotto il sole. Noi davamo voce all’Italia laica col referendum sul divorzio e voi, fino alla vigilia del voto, paventavate lo “scontro con i cattolici” su una questione che vi pareva piccolo-borghese, ininteressante per la classe operaia. Contro la vostra sorda resistenza abbiamo liberato le donne italiane dalle mammane, abbiamo reso possibile l’obiezione di coscienza, abbiamo dato dignità ai malati di mente.
La storia si ripete, ma non imparate la lezione. Il plagio puntuale delle nostre idee e delle nostre campagne si ferma improvvisamente davanti ai nostri referendum. Così forte è il bisogno di demonizzare le nostre “quattro modernizzazioni” – per non inimicarvi i cespugli cresciuti alla vostra sinistra, i vertici sindacali, gli industriali rottamatori - che dimenticate come queste stesse riforme siano già state compiute in alcuni paesi felicemente governati dalla sinistra come Regno Unito e Olanda o siano all’ordine del giorno – discusse e sperimentate - in altri paesi governati dalla sinistra, come la Francia.
Mi rivolgo da qui a Massimo D’Alema e a Walter Veltroni per chiedere: quanti anni ci metterete questa volta per darci ragione? Non potreste, per il bene di tutti, accorciare i tempi del vostro ripensamento?
Il Veltroni del duemila ricorda il Fanfani del 1974.
Fanfani, a corto di argomenti per scongiurare la legalizzazione del divorzio, cercava di infinocchiare le donne cattoliche dicendo :”Attente! Col divorzio vostro marito scapperà con la cameriera o con la segretaria”. Con lo stesso stile, sapendo di mentire, ma sapendo anche di suscitare nella platea sdegno e battimani, Veltroni ha detto ai lavoratori italiani :”Noi non riusciamo a considerare libertà quella di essere licenziati senza preavviso e senza motivo”.
Basta leggere i nostri referendum per constatare che in materia di licenziamenti i radicali, lungi dal mettere in discussione il diritto al preavviso e quello alla giusta causa, chiedono solo di abolire l’istituto del reintegro del licenziato per via giudiziaria, peraltro sconosciuto nel resto del mondo. Ribatte qualche sindacalista imprudente: e perché noi italiani dovremmo rinunciare a una misura che ci mette all’avanguardia nella protezione del lavoratore?
Questa osservazione avrebbe qualche dignità se, come ho scoperto da poco, gli stessi partiti e gli stessi sindacati che oggi presentano l’abolizione del reintegro come una sorta di ritorno alla barbarie, questi stessi partiti e sindacati non avessero fin dal 1990 chiesto e ottenuto una deroga alla legge che esime i partiti e i sindacati dall’obbligo del reintegro nei confronti dei loro dipendenti. Sono in grado il composto Cofferati, l’astuto D’Antoni e lo scalmanato Larizza di spiegarci perché ciò che è consentito all’amministratore di un sindacato deve essere vietato a un imprenditore?
C’è qualcuno fra di loro in grado di capire che l’istituto del reintegro, evocando lo spettro dell’”indissolubilità del contratto di lavoro”, paralizza spesso l’imprenditore di fronte a ogni nuova assunzione ? Che così come l’impossibilità di divorziare produceva “coniugi di fatto”, non tutelati dalla legge, così il reintegro alimenta i lavoratori in nero?
A questo punto, poiché l’ho già fatto in questa stessa sala nel marzo e nel luglio dello scorso anno, non vi infliggerò ancora una volta la declinazione di dati e cifre sullo spaventoso ritardo accumulato dall’Italia rispetto al resto del mondo occidentale, su quasi tutti i fronti. Dati e cifre che si sono nel frattempo aggravati.
Consentitemi un cenno a un fenomeno dalle molte facce, l’era della cosiddetta economia digitale, che più di ogni altro mette in luce – insieme ai cambiamenti rapidissimi che produce, sociali ed economici – la necessità di trovare tempestivamente nuove regole. Basta dare un’occhiata alle borse, agli investimenti, alle fusioni, al numero di Web e imprese telematiche aperte ogni giorno (e ai nuovi impieghi creati) per capire quale poderosa pressione in senso liberista l’era digitale eserciti su tutte le società contemporanee. A partire dai paesi che come il nostro sono – e vogliono restare – in posizione d’avanguardia.
In un tale contesto, mentre è illusorio, per un sistema-paese senza capacità di riforma, restare competitivi, é ottuso considerare le trasformazioni imposte dalla modernizzazione (a cominciare dalla liberalizzazione del mercato del lavoro) come una minaccia per i settori più deboli della società quando tutto indica, invece, che la modernizzazione costituisce una straordinaria opportunità di rilancio economico e di benessere diffuso. In un documento della Commissione europea dedicato alle enormi potenzialità in termini occupazionali che lo sviluppo della società dell’informazione offre a tutta l’Europa, due sono le priorità indicate: formazione e flessibilità del mercato del lavoro.
Il rifiuto preconcetto di ogni forma di flessibilità ricalca il rifiuto altrettanto ottuso di un altro fenomeno altrettanto inevitabile dei nostri tempi, la globalizzazione. La flessibilità minaccerebbe i ceti più deboli così come la globalizzazione minaccerebbe i popoli più vulnerabili. Così sostengono alcuni “esperti” di sinistra che non hanno letto né ascoltato cifre ad argomenti come quelli che già nel 1997 Renato Ruggiero, all’epoca direttore dell’Organizzazione Mondiale del Commercio spiegava (cito): ”Vent’anni fa solo il 5% delle importazioni dei paesi sviluppati proveniva da quelli in via di sviluppo. Nel 1990 si è passati al 15% e nel 1995 al 21%. E le prospettive restano favorevoli. Perché i 15 paesi più dinamici del commercio mondiale, fra il 1970 e il 1993, sono tutti paesi in via di sviluppo”. (fine della citazione)

Le regionali

L’eccezionale stagione politica che stiamo vivendo non ci riserva solo lo sforzo finale per condurre in porto i referendum. Nello stesso tempo, come sapete, il nostro partito ha deciso di presentare il prossimo 16 aprile liste e candidati in tutte e 15 le regioni italiane dove si voterà. E’ (oltre che un altro sforzo enorme, per il quale abbiamo già chiesto aiuto a tutti quelli che vorranno darcelo) – è, dicevo, una decisione senza precedenti per un partito come il nostro, tradizionalmente “non legato al territorio”; una decisione che merita di essere spiegata.Cominciamo col dire che sulle elezioni regionali si è verificato un paradosso tutto italiano, tutto legato - intendo - alle derive e alle disattenzioni di cui sono capaci alle volte i nostri media, che agiscono spesso come i pacchetti di mischia nel rugby: tutti sempre e furiosamente sulla stessa palla, guai a chi guarda da un'altra parte.
Così, le regionali si avvicinavano e nessuno si era accorto che, grazie alla riforma regionale già fatta, il 16 aprile gli italiani avrebbero eletto 15 autentiche "assemblee costituenti", in grado di partorire su scala regionale - se lo vorranno - la rivoluzione federalista italiana. Ci si era dimenticati di spiegare agli elettori che la novità non sta solo nell'elezione diretta del presidente regionale ma anche nel fatto che le nuove assemblee potranno liberamente scrivere i propri statuti: scegliere fra un sistema elettorale maggioritario secco e uno proporzionale; fra il presidenzialismo di scuola americana e il parlamentarismo romanesco. Si potranno instaurare sistemi referendari - a livello comunale, provinciale, regionale, interregionale - capaci di sciogliere nodi locali senza passare per le forche caudine costituite dagli interessi di burocrazia, partiti e potentati vari.
Per cogliere questa irripetibile occasione di svecchiamento istituzionale i 15 candidati radicali alle presidenze regionali avranno un unico programma, ispirato ai contenuti della rivoluzione liberale e liberista dei referendum.
E adesso, come dice Pannella, stiamo alla finestra a guardare quali scelte "progettuali e programmatiche" tireranno fuori dal cappello le due maggiori scuderie politiche nazionali, i due Poli. Particolarmente interessante sarà misurare il tasso di omogeneità di questi programmi, in termini, per esempio, di federalismo.Di federalismo si fa da tempo un gran parlare in Italia. Più a sproposito che a proposito. Anche l’Urss e la Jugoslavia di Tito erano federazioni, che federavano però nazionalismi e totalitarismi. Altre federazioni, come gli Stati Uniti e la Svizzera, sono state invece fondate sui diritti civili e individuali e sul principio di sussidiarietà applicato ad ogni Stato o Cantone: mentre la libertà, in ogni sua forma, è riconosciuta come diritto della persona, il ruolo “pubblico” va regolato e limitato, secondo il modello dello Stato liberale.
In Alto Adige/Sud Tirolo ha prevalso la connotazione etnico-nazionalistica della Provincia-Regione. Con grave danno per i diritti dei cittadini di lingua tedesca e anche degli italiani, gli uni e gli altri partitocratizzati e romanizzati.
Che modello persegue la Lega di Bossi? Mi sembra un insulto all’intelligenza definire federalista la sottocultura nazionalistica e profondamente anti-liberale del boss padano, che lo apparenta molto più ad avventurieri come Milosevic e Djirinovski (con cui peraltro simpatizza) che non alla nobile tradizione del federalismo di ispirazione liberale. Ma ve l’immaginate la libertà e la democrazia cui ambiscono i Veneti, i Lombardi, i Piemontesi affidate al “potere padano” di un Bossi trionfante? Mi si accappona la pelle a pensarci. E non basta certo a rassicurarmi la condizione posta da Fini a Bossi: devi rinunciare alla secessione.
Su un piano intellettualmente più alto, alimentata da Buttiglione e da qualche pensatore berlusconiano, si è diffusa in questi ultimi tempi in Italia la moda del cosiddetto federalismo “renano”, di stampo tedesco, che io definirei social-burocratico. Forse funzionava ai tempi della guerra fredda e delle due Germanie. Ma riproporre un cocktail nazionalista austro-bavarese-prussiano in tempi di economia digitale mi sembra un esercizio abbastanza privo di senso.

Andiamo al contenuto politico delle regionali che arrivano. Chi sarà domani più veneto e più federalista fra Cacciari, Galan, il bossiano di servizio e Comecini? Chi saprà individuare meglio gli interessi dei Veneti (e quindi di tutto il paese, se strutturato in senso federalista)? Noi radicali facciamo due esempi concreti: le opere di difesa di Venezia e della sua laguna, e il “passante”. Su entrambe le questioni, se vincessimo le elezioni, daremmo vita immediatamente – nel giro di un anno - a referendum regionali, provinciali e comunali. Che siano i Veneti, insomma, a decidere della propria vita. E quello che vale per i Veneti vale per tutte e 15 le regioni. Eccolo il nostro programma per un federalismo anti-nazionalista, anti-partitocratico, anti-autoritario.
C’è ancora una questione che le nuove regioni potrebbero aiutare a risolvere, è la vecchia questione dei fondi europei – decine di migliaia di miliardi – che l’insipienza combinata dei nostri politici e dei nostri burocrati ci impedisce di utilizzare come fanno senza difficoltà Spagna, Portogallo, Irlanda.
Scusatemi una piccola raffica di cifre su questo punto, ma le cifre parlano da sole. In base agli ultimi dati del Tesoro al 30 settembre 99, cioè a 3 mesi dallo scadere del periodo utile 1994-1999:
3500 miliardi (circa il 9% del totale) ancora da impegnare per il cosiddetto obiettivo 1, le regioni in ritardo di sviluppo;
50 miliardi prevedibilmente persi per quanto riguarda l’obiettivo 2, aree in riconversione industriale;
1665 miliardi (più di un terzo delle risorse ancora a disposizione) ancora da impegnare ancora sull’obiettivo 2;
2800 miliardi ancora da impegnare per l’obiettivo cosiddetto 5B, zone rurali in difficoltà nel centro-nord.

Conclusione

L’azione politica radicale fa emergere nel panorama politico e sociale italiano una frontiera nuova e finora sconosciuta fra conservazione e innovazione. Una nuova tensione trasversale divide mondi che siamo abituati a considerare compatti come l’imprenditoria e il sindacato.
Si assiste, in Confindustria come nel mondo del lavoro, ad un conflitto sempre più aperto fra i difensori degli equilibri esistenti e degli interessi già garantiti: da una parte stanno, fianco a fianco e concertanti, sotto la protezione governativa, la grande industria che ama le rottamazioni e la pace sociale, insieme alla burocrazia sindacale, che perpetua i propri privilegi e garantisce i suoi iscritti. Ma sotto i balconi della grande industria e dei grandi sindacati scalpitano – in parallelo - la piccola e media industria, protagonista della imprenditorialità diffusa dei nostri tempi e insofferente di tutte le burocrazie, insieme all’esercito dei non-lavoratori, di giovani e donne che stentano ad entrare nel mercato del lavoro e sempre più attribuiscono questa difficoltà al rifiuto del potere sindacale di aprire le porte al part time, al tempo determinato, al tele-lavoro.
Forse è vero che i nostri referendum portano a scelte di civiltà. Ma non nel senso che dicono le sfingi della sinistra politico-sindacale e del mondo imprenditoriale. Noi siamo convinti che nell’era digitale, delle biotecnologie, di uno sviluppo tecnologico frenetico, deve vincere chi sa dare fiducia alla persona, chi sa porre le ambizioni e le sensibilità dell’individuo – in ogni campo – al centro della società e della politica.
Deve vincere chi considera la libertà economica – cioè di intraprendere, rischiare, realizzarsi, cercare di essere felici - come una delle libertà fondamentali della persona. Proprio come la libertà di decidere se divorziare, se abortire, se bere alcool ofumare marijuana. Deve vincere chi vuole un nuovo umanesimo.
Per vincere – purtroppo – non basta avere bellissime idee e nemmeno avere ragione. Ancora una volta, per raggiungere i nostri obiettivi – che sono quelli che sapete – che sono a portata di mano – che possono cambiare la faccia del nostro paese – abbiamo un disperato e urgente bisogno di mezzi materiali. Abbiamo bisogno di 7 miliardi entro il 10 febbraio.
Che argomenti abbiamo per giustificare questo ennesimo, fastidioso e apparentemente lagnoso appello al portafogli? Un solo argomento. Se giudicate che è valsa la pena aiutarci tutte le altre volte negli anni passati, ebbene vi posso assicurare che vale ancora più la pena questa volta.
Contro i vostri risparmi non vi offriamo fondi di investimento né fondi pensione: ma vi offriamo dividendi certi, in termini di libertà, per voi e per i vostri figli.



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