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EMMA BONINO: ECCO COME COLMARE IL DIVARIO TRA NOI E L'EUROPA

26 settembre 1999

Intervento di Emma Bonino all'incontro-dibattito dell'Associazione degli industriali della provincia di Ravenna del 24 settembre 1999

Il rapporto annuale del FMI contiene l'ennesimo richiamo all'Italia per una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, minore pressione fiscale e uno Stato sociale e P.A. più efficienti ritenuti indispensabili anche per poter agganciare la ripresa europea.

Parlando con rappresentanti italiani di società multinazionali, emerge la loro difficoltà non solo ad convincere la casa madre ad aumentare gli investimenti in Italia ma anche a far si che la società resti nel nostro paese senza andare ad operare in paesi più convenienti. Questa tendenza é confermata dall'osservatorio privilegiato di Business International che - con poca originalità ma molto realismo - attribuisce la mancanza di investimenti nel nostro paese all'eccessiva pressione fiscale, alla rigidità del mercato del lavoro e all'inefficienza della P.A. Del resto le statistiche Eurostat parlano chiaro: siamo proprio il paese europeo con la percentuale di investimenti più bassa. E se fisco, rigidità e P.A. sono i motivi accertati per cui l'Italia ha la maglia nera degli investimenti stranieri, come possiamo pretendere che gli imprenditori italiani investano in Italia invece di delocalizzare ?

La mancanza d'investimenti purtroppo é solo la punta dell'iceberg, la conseguenza più visibile del divario tra le nostre infrastrutture economiche e quelle del resto dell'Europa e di un buon numero di paesi concorrenti, a cominciare dagli USA. La verità é che siamo diventati parte dell'UEM rispettandone solo i requisisti formali; attraverso un'operazione di risanamento delle finanze pubbliche centrata essenzialmente sul calo degli interessi e su imposte. Poco o nulla é stato, invece, fatto sul fronte - indispensabile per restare in Europa ed essere competitivi - della ristrutturazione della spesa sociale, abbassamento della pressione fiscale, flessibilità del mercato del lavoro, efficienza della P.A., semplificazione delle norme e delle procedure burocratiche. Col risultato che per competitività e livello di crescita siamo sempre più il fanalino di coda dell'Europa. Cosi come abbiamo le peggiori performance in termini di occupazione.

Cominciamo dai dati OCSE 98 più preoccupanti: 37.2 % di ragazze (15/24 anni) disoccupate, come tre anni fa.
I ragazzi disoccupati sono in crescita e arrivano al 32.1 %. La media dei paesi europei che hanno introdotto misure di flessibilità nel mercato del lavoro, quali Inghilterra, Olanda o Irlanda, é di circa il 10 %. Mentre in quasi tutti i paesi europei la disoccupazione, giovanile e non, é sensibilmente diminuita da noi é rimasta sostanzialmente uguale attestandosi intorno al 12.2 % senza che vi siano motivi seri per pensare che possa diminuire nel breve / medio periodo.
Tra l'altro chi é disoccupato in Italia ha le maggiore probabilità rispetto agli altri europei di rimanere tale. Il nostro paese ha, infatti, il primato della disoccupazione di lunga durata per cui il 66.7 % dei disoccupati rimangono tali almeno per 12 mesi contro il 31 % dell'Inghilterra e l'8 % degli USA.

Gli ultimi dati ISTAT confermano che, anche in Italia, buona parte della nuova occupazione, specialmente giovanile - con relativa possibilità di fare esperienza - viene da part time e dai lavori a tempo determinato.
Nel 98 il part time é stato fonte del 22 % della nuova occupazione con ben 367.000 posti.
In futuro, con l'esplosione dell'information society, si svilupperà sempre di più il lavoro a domicilio portatore di flessibilità, migliore qualità di vita e risparmi per lavoratore e datore di lavoro.
E se la maggior parte dei posti nuovi si é potuta creare con quel poco di flessibilità, seppure fortemente limitata da vincoli legali e burocratici e, soggetta alla discrezionalità dei sindacati, fa persino rabbia pensare a quante occasione di nuovo lavoro si sono perse per non aver ancora introdotto una flessibilità vera. Basti pensare che le percentuali dei contratti a tempo parziale nel resto d'Europa vanno dal 38 % e 22 % di Olanda e Inghilterra al 16 % delle "rigidissime" Germania e Francia, mentre noi rimaniamo ad una percentuale di appena il 7 %.

Davanti a queste evidenze lo stesso D'Alema sembra aver finalmente realizzato che la cultura del posto fisso é deleteria per la crescita occupazionale - mentre tutta la nostra legislazione é incentrata sulla garanzia del posto fisso. Dire che non c'é più posto fisso e che bisogna superare quella cultura e conservare una legislazione iper garantisca (la più garantista d'Europa) é una contraddizione da cui francamente il Presidente del Consiglio dovrebbe uscire con urgenti proposte di riforma. Eppure non mi risulta che nella nuova finanziaria vi siano misure rivoluzionarie in tal senso. L'impressione é che si resta sostanzialmente al palo con piccoli passi nettamente inadeguati a rilanciare l'occupazione e la competitività quando, come si evince anche dai dati citati, siamo già gravemente in ritardo. E intanto i sindacati continuano a ripetere che la flessibilità già esiste. In realtà quel poco di flessibilità potenziale che c'é in Italia é nelle mani del sindacato e dipende da una sua eventuale gentile concessione accordata, talvolta, in cambio di corsi di formazione o altri vantaggi.

Anche sui conti pubblici e pressione fiscale in Europa sono davvero pochi a stare peggio di noi. Come noto ogni nuovo nato in Italia si trova automaticamente sulle spalle un debito di 40 milioni. La nostra spesa pubblica ha superato il 53 % del PIL. In media dobbiamo lavorare fino al 23 Luglio per lo Stato e solo 5 mesi per noi stessi, mentre in Inghilterra o negli Usa non si va oltre il mese di Maggio.

Come era fin troppo facilmente prevedibile la riforma Dini del 1995 non ha disinnescato la "bomba pensionistica". Nell'ultimo quadriennio la spesa pensionistica in rapporto al PIL é salita dal 13.4 % al 14.6 %.
Per il 1999 la spesa pensionistica dovrebbe aumentare di oltre 300.000 miliardi.
In Italia vi sono 22 milioni di pensionati a fronte di 21 Milioni di lavoratori attivi.
Secondo i dati Eurostat il 67.5 % della spesa sociale complessiva é destinata alle pensione a fronte del 44.6 % della media europea.
Con relativi minori stanziamenti per sanità, disoccupati o servizi e incentivi alle famiglie.
Oltre ad essere insostenibile il nostro sistema appare anche fortemente iniquo e fonte di conflitti generazionali : un giovane che comincia a lavorare oggi é costretto a versare oltre il 30 % del suo stipendio per pagare la pensione ad un 53 enne - baby pensionato - che magari ha un'altro lavoro in nero. Lo stesso giovane ha la prospettiva di andare in pensione 15 anni dopo detto 53 enne.
Nel 97 le pensioni di anzianità erano 3.5 milioni di cui quasi la meta nella P.A. per una spesa complessiva di circa 87 mila miliardi.
Ben 2.2 milioni di chi percepisce queste pensioni non ha raggiunto l'età di 64 anni per gli uomini e 59 per le donne normalmente necessaria per andare in pensione.
Tutto questo nel quadro di un vero e proprio rischio d'insolvenza dello Stato più volte denunciato dalla Corte dei Conti in assenza di riforme strutturale.

Le nostre proposte

La mia impressione é questa legislatura che era stata annunciata come portatrici di grandi ulivistiche riforme istituzionali ed economiche si sia caratterizzata soprattutto per il tempo e le occasioni perse. E che anche ora, praticamente fuori tempo massimo, con dati davvero inquietanti - snocciolati ormai ad ogni convegno - su mancata crescita, occupazione, investimenti e competitività, in una sorta di pericolosa apatia o semi indifferenza, non si intraveda alcuna seria prospettiva di riforma nel breve medio periodo.

Non é vero, come ho sentito dire da qualche rappresentante sindacale, ma anche da esponenti del Governo, che in Italia sono già stata fatte o sono in cantiere, pronte per il varo, riforme per una vera flessibilità al mercato del lavoro; o che non esiste alcuna urgenza o necessità di rivedere il nostro sistema pensionistico. Purtroppo questo ottimismo infondato e irresponsabile sembra riflettersi nella finanziaria presentata dal Governo: sia sul piano della flessibilità che su quello della ristrutturazione della spesa sociale ed efficienza dello Stato siamo ben lontani da quelle riforme strutturali e mutamenti culturali necessari per non restare sganciati dal treno della ripresa europea, recuperando competitività e attirando investimenti e posti di lavoro.

Credo che i sindacati e, anche parte del mondo confindustriale, abbiano una qualche responsabilità riguardo a questa sostanziale preservazione dell'attuale quadro d'interessi a danno della stragrande maggioranza degli operatori economici dei disoccupati, delle nuove generazioni e, in generale, dell'interesse del paese. E', infatti, evidente che in Italia il partito della "conservazione" é molto forte, sostenuto anche da alleanze tra rappresentanze sindacali e grandi imprese più o meno protette e avvantaggiate dalla partitocrazia. Fino a quando i rappresenti degli interessi attualmente garantiti saranno cosi solidalmente legati e alleati sarà molto difficile, se non impossibile, per Governo e Parlamento portare avanti le riforme che praticamente tutti gli esperti, stranieri o italiani, di destra o di sinistra, considerano indispensabili.

Noi una soluzione, un programma per avvicinare l'Italia a quanto di meglio c'é in Europa in termini di competitività e crescita ce l'abbiamo: e sono i 20 referendum su cui abbiamo raccolto oltre 16 milioni di firme che possono divenire legge nel giro di qualche mese. E che a me paiono l'unico strumento davvero concreto nel breve periodo per superare lo stallo corporativo.

In particolare, i referendum "economici" su libertà di lavoro e di impresa e fisco, hanno per obiettivo di realizzare un quadro di regole economiche e sul lavoro indispensabile per la creazione di nuovi posti, in rilancio degli investimenti e la crescita economica in un mercato europeo e mondiale sempre più aperto e integrato.

Ad esempio, la flessibilità ottenuta attraverso i referendum sarebbe non discrezionale e arbitraria ma regolata, restituita alla disponibilità dei diritti del lavoratore e del datore di lavoro e alla loro libertà contrattuale. Cosi come la piena e non burocratica liberalizzazione del collocamento, ben lungi dal costituire un assurdo ritorno al caporalato, mira a creare un mercato di servizi e informazioni più efficiente facilitando enormemente l'incontro tra domanda e offerta di lavoro.

La riduzione delle pensioni d'anzianità tramite l'innalzamento a 57 anni di età o a 40 anni di contributi i requisiti minimi senza toccare i diritti acquisiti consentirebbe di eliminare un ingiustizia palese e insostenibile per i nostri conti pubblici. Anche cosi questi requisiti resterebbero tra più generosi in Europa. E nessuno vuole mettere sullo stesso piano un lavoro d'ufficio con lavori notturni o pesanti, per cui sarebbero auspicabili delle deroghe che abbassino ulteriormente i requisiti minimi per i lavori usuranti.

E naturalmente non basta una riforma delle pensioni d'anzianità per eliminare il problema pensioni. In proposito sono convinta che bisognerebbe passare al più presto ad un sistema di capitalizzazione con maggiori spazi per fondi integrativi capaci di gestire e far fruttare i soldi dei lavoratori meglio dell'INPS. Non credo che vi possa essere l'auspicato decollo dei fondi pensioni - che consentirebbe anche un recupero di terreno sul mercato dei capitali sostanzialmente guidato dai grandi fondi USA e Inglesi - fino a quando i soldi che il lavoratore deve destinare alla previdenza resteranno quasi interamente vincolati all'INPS; con una possibilità di scelta e di eventuale destinazione a fondi pensioni meramente residuale.

Non ho difficoltà ad ammettere che, talvolta, il referendum, proprio in quanto strumento eccezionale, meramente abrogativo, presenta dei limiti. E vada, dunque, completato da successivi interventi normativi volti ad integrare e, in qualche modo, affinare, la riforma voluta. Ma il suo valore come nucleo essenziale di un programma di riforma "governativo" capace di spezzare l'attuale quadro d'interessi - divenuto ostacolo oggettivo alla crescita e alla modernizzazione del paese - e, dunque, quale strumento per avviare davvero un processo di cambiamento, mi sembra innegabile e, finora, senza reali alternative.



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