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EMMA BONINO: «NOI RADICALI, UN PARTITO DI GOVERNO»

17 agosto 1999

Intervento di Emma Bonino sul Corriere della Sera del 17 agosto 1999

Pedagogia politica

Lasciatemi sbagliare da sola

Caro direttore,

in politica ormai da un quarto di secolo, cerco di ricordare quale altro personaggio prima di me abbia suscitato mai presso editorialisti, politologi, leader di partito, imprenditori, sindacalisti (gli opinion makers, insomma) una ondata di «pedagogia politica» quale quella che subisco dal 13 giugno.

Non passa giorno senza che io riceva consigli, raccomandazioni, appelli, censure, ironie, anatemi. Da parte di amici, nemici e sconosciuti. Di destra e di sinistra. Italiani e stranieri. Sui giornali, via etere, via e-mail, anche per strada.

Quasi tutti sanno dove ho sbagliato e dove no: in quanto donna, in quanto radicale, in quanto deputata europea. Un tormentone. Come se io non sapessi (e preferissi), come quasi tutti, sbagliare da sola. Decisa a perserverare, chiedo l'aiuto del Corriere per esporre brevemente le ragioni di alcune mie scelte.

Perché, avendo conquistato la lista elettorale che porta il mio nome l'8,5 per cento dei voti, affido un patrimonio così cospicuo a una forza così marginale come il Partito radicale?

Quando fui nominata commissaria europea, ci fu chi sostenne che il mio marchio di fabbrica radicale sarebbe stato un serio handicap per un incarico istituzionale di tale portata.

Ora non sta a me fare il bilancio del mio lavoro in seno all'esecutivo dell'Unione Europea, elencare le cose fatte o ricordare i riconoscimenti che mi sono venuti dal mondo intero.

A me preme segnalare che se c'è stato un fattore determinante, che possa spiegare quella mia felice esperienza, credo si sia trattato del mio essere radicale, e cioè: un rispetto maniacale per le istituzioni, le regole e la «legalità»; il bisogno di lavorare in gruppo; l'abitudine al lavoro «transnazionale»; l'esigenza di comunicare, far sapere quello che fai, intesa come parte integrante dell'azione politica e non come occasionale «propaganda».

Non capisco come qualcuno abbia potuto pensare che il ruolo di commissaria europea mi avesse «de-radicalizzato». Tanto più che io mi sono sentita invece, in questi anni «europei», ciò che definirei la manifestazione più visibile del mio partito, di un gruppo di persone accomunate da un modo assai speciale di fare politica. Ecco perché, concludendosi la mia esperienza a Bruxelles, non potevo immaginare il ritorno alla politica nazionale se non nelle file del partito nel quale milito ininterrottamente da 24 anni.

Se anteponessi la mia fortuna personale a quella delle mie idee, alla realizzazione dei miei sogni, sarei già ministro, o segretario di un cespuglio senza spine, o mi sarei dotata di un asinello anch'io. Perché, disponendo di una così solida immagine, «ritorno sotto l'ala di Marco Pannella» anziché mandarlo in pensione? Marco e io non potremmo, umanamente, essere più diversi. Per carattere, abitudini, persino per visione della vita: tutto questo non ci ha impedito di lavorare e lottare insieme, di vivere una grande affinità ideale. E poi, mi sarebbe difficile ignorare che le tappe decisive della mia carriera sono nate da altrettante intuizioni di Marco, il quale, avendo sempre avuto fiducia in me prima ancora di me stessa, mi ha sospinto sui banchi del Parlamento nazionale e poi di quello europeo, mi ha voluto presidente del partito, commissario europeo e capolista alle ultime elezioni.

Mi spiace, lo scioglimento del tandem Bonino-Pannella, invocato spesso con malanimo e un pregiudizio maschilista che fanno rizzare i capelli, non è all'ordine del giorno. Continueremo a lavorare insieme, ognuno a modo suo: Marco con il suo stile così poco «disciplinato» (irruento, fatto di forzature semantiche e di una inesauribile capacità di indignarsi), e io con il mio, ancorato alle abitudini, allo studio delle carte, alla fissazione di fare e dire cose che capisca la mia vecchia mamma.

Perché, se non so proprio rinunciare né al mio partito né alla compagnia di Pannella, non uso almeno il mio senso della misura per mettere fine alle stravaganze radicali, come i 20 referendum? Sembra quasi che noi radicali dobbiamo scusarci per i traumi che procuriamo al nostro sistema politico. Quasi tutti ammettono che la «rivoluzione liberale» che auspichiamo è indispensabile, ma ci si chiede lo stesso di rinunciare alla nostra iniziativa, alla campagna referendaria, perché «destabilizzante». Come se la destabilizzazione degli equilibri esistenti non fosse una delle funzioni essenziali della politica. Il suo sale.

E così, ogni volta che, a giudizio dell'establishment, noi radicali «esageriamo», l'establishment reagisce con una supponenza, con un complesso di superiorità che meriterebbero l'attenzione di qualche psicanalista capace. Faccio un esempio: quando, come in questi giorni, avendo constatato che il 55,5% dei Comuni italiani non consente ai cittadini di sottoscrivere i quesiti referendari noi radicali parliamo di morte presunta della pubblica amministrazione, chi «esagera»? Noi o i Comuni?

Adoro le lezioni di etica e di stile politico. Le cerco ogni giorno. Ma ho difficoltà a trovare maestri nel mutevolissimo panorama italiano, dove il nostro risulta l'unico partito che non abbia avuto bisogno di cambiare nome, etichetta o ideologia; il solo che non abbia dovuto ripudiare un passato impresentabile (la complicità morale con gli orrori del fascismo o del comunismo realizzato), o farsi perdonare qualche malversazione. C'è una sola buona ragione per cui non dovremmo essere orgogliosi di noi?

Mentre alcuni illustri Tartufi continuano a liquidarci come «una forza di mera contestazione», noi rivendichiamo il ruolo di «partito di governo». Per realizzare, insieme a chi li condivide, i nostri progetti principali: in Italia, da buoni liberali, la rivoluzione liberale che solo i nostri referendum possono avviare; in Europa, da buoni federalisti, la trasformazione dell'UE in un'autentica federazione di Stati.



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