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INTERVENTO DI EMMA BONINO ALL'ASSEMBLEA DEI MILLE (SINTESI NON CORRETTA)

6 marzo 1999

Quello che segue è l'intervento, non revisionato dall'autrice, pronunciato da Emma Bonino il 6 marzo scorso all'Assemblea dei Mille per la Rivoluzione Liberale e gli Stati Uniti d'Europa svoltasi all'Hotel Ergife.





Mi soffermerò in questo mio intervento su tre temi che sono al centro dei nostri lavori e sulle strette interazioni tra loro: l'Europa, la liberazione del lavoro e dell'impresa in Italia, le libertà individuali.



Uno sguardo retrospettivo sull'ultimo mezzo secolo porterebbe a concludere che i funzionalisti l'hanno spuntata: quel tanto di integrazione che c'è stata in Europa è stata in effetti di natura economica. Al punto che la prima vera cessione di sovranità nazionale, quella monetaria, avviene proprio su questo terreno.



Ma è una strana vittoria, perché lungi dal relegarlo in soffitta, riporta l'approccio alternativo, il federalismo, all'ordine del giorno.



In politica, come nella vita, è impossibile rimanere immobili. Se non si va avanti, si va indietro. Perciò sono convinta che senza unione politica l'Europa non è in grado di reggere, a termine, nemmeno quella economica e monetaria.



Ecco qualche motivo d'ordine strettamente economico.



Primo, nel mondo moderno nessuna unione monetaria è sopravvissuta a lungo senza unione politica - con l'unica eccezione di quella tra il Belgio e il Lussemburgo che, con tutto il rispetto, mi sembra talmente peculiare da essere scarsamente rappresentativa. Proprio l'Italia è già passata per una esperienza simile, a cavallo del secolo scorso con l'Unione Monetaria Latina. Rimasta sul terreno puramente monetario, è finita come una nota sui libri di storia.



Secondo, un mercato unico e una moneta comune richiedono una politica economica - invece di undici o quindici - e i mezzi per porla in essere. Mi spiego con un esempio: le economie dei cinquanta stati americani non marciano sempre all'unisono. La California può essere in pieno boom nello stesso momento in cui, che so, la Pennsylvania entra in una fase recessiva.



Nessuna delle due per correggere la situazione può contare sulla politica monetaria, che è fatta al centro dalla Federal Reserve e vale per tutti. Tuttavia, il governo federale può spostare le risorse da uno stato all'altro, ad esempio aumentando la pressione fiscale in California e diminuendola in Pennsylvania, oppure aumentando i trasferimenti netti verso lo stato in crisi. Per far qu4esto può contare su una massa di risorse pari a circa il 20% del PIL statunitense.



Ma le istituzioni comunitarie amministrano l'1,2% del PIL dei quindici, di cui la metà se ne va in sussidi all'agricoltura. E anche se queste risorse fossero dieci o venti volte tanto, il loro prelievo e la loro allocazione verrebbero decisi in ultima istanza non da un centro federale, ma dai governi dei quindici Stati membri. Con i risultati sotto gli occhi di tutti, che queste decisioni sono dominate dal più barbaro dei concetti economici, il cosiddetto principio del juste retour.



Mi chiedo dunque come faremo a gestire i cosiddetti shock asimmetrici - che sicuramente si presenteranno, poiché non si può pretendere appunto che undici o quindici economie marcino sempre all'unisono.



Eppure l'intreccio tra l'economia e la politica in questo mondo sempre più piccolo è talmente evidente che - anche con tutta la fede nella mano invisibile di Adam Smith - è impossibile parlare di soldi e di merci senza porsi al contempo questioni di governo. Lo ripete con insistenza oramai persino George Soros, da tutti additato come sfruttatore impareggiabile dell'essenza di un governo dei mercati finanziari mondiali. Varrebbe la pena di rifletterci, e sono in effetti in tanti a farlo. E ciò sia perché sono i governi che fissano le regole del gioco, sia perché sono sempre i governi a decidere l'allocazione di una fetta delle risorse economiche - che è probabilmente eccessiva in Europa, forse più accettabile negli Stati Uniti, ma comunque sempre consistente.



Se ci fermiamo un attimo a guardare a quanto sta accadendo oggi nel mondo e riflettiamo a come lo avevamo immaginato solo pochi anni orsono, viene da pensare che nemmeno un regista surrealista alla Buñuel potrebbe aver concepito un simile copione.



Pensiamo al mondo di dieci anni fa: George Bush è saldamente alla guida di un'America come sempre superpotenza militare, ma ossessionata dall'angoscia del declino economico. Declino relativo, certamente. Ma rispetto a chi? Rispetto al Giappone e al resto delle economie asiatiche, la cui marcia sembra inarrestabile. L'Unione Sovietica è in crisi; una crisi gravissima, certo, ma nessuno discute il suo status di superpotenza militare e politica - né tantomeno prevede che di lì a tre anni il paese si disintegri e il partito comunista venga cacciato dal potere. All'Europa nessuno bada veramente: siamo alle prese con la creazione del nostro mercato interno, qualcuno si preoccupa che non dia luogo a una fortress Europe, ma la parola chiave che ci definisce è generalmente la stessa: eurosclerosi.



Ed eccoci alla fine del 1998. Un'America che è ora l'unica superpotenza militare è al culmine della più lunga espansione economica in tempo di pace. Ma proprio mentre cominciano ad addensarsi le nubi di un rallentamento della crescita, il paese sembra senza guida perché il presidente ha rischiato l'impeachment. L'economia giapponese ristagna da sette anni e rischia di avvitarsi in una spirale depressiva che evoca il grande slump degli anni Trenta, senza che la classe politica riesca a fare nulla per invertire la rotta. Le alte economie asiatiche sono, se possibile, in condizioni ancora peggiori. L'Unione Sovietica non esiste più, la Russia è vicina alla bancarotta e priva di un governo efficace ed affidabile dell'economia.



Per assurdo - verrebbe da dire - i comandi della locomotiva potrebbero passare a noi, gli eurosclerotici, poiché a quanto pare siamo rimasti l'unica regione del mondo in cui nel breve periodo si prevede una certa crescita; o una crescita certa. Immaginiamo che questa locomotiva abbia due comandi: uno per la politica monetaria e l'altro per quella fiscale. Risultato: dietro la leva e i pedali monetari avremo, come è giusto che sia, un solo pilota, la Banca Centrale Europea; mentre dietro quelli fiscali avremo come al solito undici governi della zona Euro, più altri quattro cosiddetti "pre-in".



Ma il vuoto di potere globale che in quanto europei potemmo essere chiamati a colmare non si limita alla sfera economica, né può limitarsi ad essa.



Mente osserviamo nervosi l'andamento dei listini di borsa da Hong-Kong a Mosca, da Wall Street a S. Paulo, in altri angoli del mondo si combattono guerre sanguinose: dal Kosovo al Congo, alla Sierra Leone, all'Angola, all'Afghanistan. Conflitti a volte mediatizzati, spesso dimenticati: ma tutti rovinosi per la pace e la stabilità di intere regioni, alcuni delle quali così prossime a noi da creare minacce inaccettabili per la nostra stessa prosperità, o per la sicurezza: si pensi al dramma dell'immigrazione clandestina, controllata da criminali; o all'eroina prodotta a partire dall'oppio afgano, che arriva in Europa in quantità sempre più massicce.



Sono i veri drammi del nostro tempo - tragedie immani: perché milioni di esseri umani sono alle prese non con la potenziale perdita del proprio lavoro ( che pure è una tragedia immensa) o col declino del proprio tenore di vita, ma con la propria sopravvivenza pura e semplice. Di fronte a questo proliferare di crisi, di micro-conflittualità diffusa, l'Europa, chiamata ai comandi di un'altra locomotiva - quella politica- non sa, non è attrezzata per, pilotarla.



Chi conosce i meccanismi della cosiddetta politica estera e di sicurezza comune, varata a Mastricht, sa a cosa faccio riferimento. A dispetto del suo nome altisonante, si tratta in pratica della lenta e affannosa ricerca di un minimo comune denominatore tra quindici diverse politiche estere e di sicurezza. Che quando arriva a qualche risultato, appunto minimo, è sempre in ritardo sul corso drammatico degli eventi.



Non mi riferisco solo alla incapacità di intervenire in occasione di singole crisi; ma anche alla latitanza dell'Unione Europea nel più generale tentativo di porre la dimensione etica ed il rispetto dello Stato di diritto al centro dell'attenzione internazionale.



So che certe mie posizioni critiche su questo punto sono variamente giudicate velleitarie, od irrealistiche, o nel migliore dei casi caratterizzate da un'impazienza cronica rispetto al ritmo - lento ma sicuro - del processo di integrazione. Ritmo lento, ne convengo, ma sicuro?!



Quale sicurezza offrono ai propri cittadini, alle generazioni future, dei governi che fingono di non prendere atto della realtà che la dimensione delle sfide transnazionali (prevenzione e risoluzione dei conflitti; droga; immigrazione; terrorismo; etc.) eccede già oggi la capacità individuale di analisi e di reazione di ogni singolo Stato? O c'è ancora chi ritiene che la globalizzazione riguarda solo la comunicazione, o la società dell'informazione, o i mercati finanziari, o semplicemente i discorsi della domenica; laddove si può continuare a governare un Paese in versione ombelicale, lasciando tutte le sfide globalizzate alla sicurezza fuori dei confini domestici?



E a queste domande - elementari - che i Capi di Stato e di Governo Europei continuano, semestre dopo semestre, a non rispondere. Ma la realtà dei rapporti internazionali non aspetta le cancellerie, né rispetta gli egoismi inveterati o gli status di potenza del secolo scorso!



Pensiamo al Kosovo, dove si continua a morire di repressione etnica, mentre l'Unione continua a pattinare sul ghiaccio della realpolitik da salotto. E la sagra delle frasi fatte: "non ci sono santi, solo peccatori"; "la NATO non può fare da aviazione del KLA"; "evitare di incoraggiare le derive autonomiste verso una Grande Albania". Una Grande Albania: vogliamo fare ridere? Mentre fuggono via mare tutti quelli che possono dalla povertà e dalla disorganizzazione dell'unica Albania che già esiste? Fin quanto sottili strateghi in qualche capitale continueranno a far finta di non vedere che Milosevic è il problema - non parte della soluzione - nei Balcani, migliaia di persone innocenti continueranno a morire inutilmente in Kosovo, come già in Bosnia. Sento voci autorevolissime sottolineare che l'Unione fa già del suo meglio; ne siamo veramente sicuri?



Pensiamo alla Sierra Leone, Paese oggi trasformato in teatro degli orrori senza testimoni, dopo l'espulsione della Croce Rossa, e da cui giungono rapporti scioccanti su mutilazioni di massa, ed altre drammatiche violazioni dei diritti umani.



Penso anche ad iniziative per le quali il Partito radicale transnazionale si batte da anni - come l'istituzione di una Corte penale internazionale permanente, decisa finalmente nel luglio scorso in occasione della Conferenza diplomatica di Roma, o la lotta per l'abolizione della pena di morte entro il 2000.



Non può la costruzione comunitaria continuare a rinviare l'assunzione di responsabilità politiche, diplomatiche, militari a misura delle sue ambizioni economiche. Non può sottrarsi più a l8ungo all'incombenza storica di farsi promotore di un progetto di stabilità per la regione euro-mediterranea che non si limiti a replicare le formule già viste e sperimentate dell'unione doganale, l'integrazione dei mercati, il dialogo politico. Come si fa a sostenere credibilmente che c'è un disegno politico euro-mediterraneo, se non si riesce nemmeno ad arbitrare (a 15) se sostenere un candidato tailandese o marocchino per la successione di R. Ruggiero al WTO?



E questo il costo globale, della non-Europa politica: che al momento in cui il mondo ci chiede di metterci ai comandi del convoglio, o di un convoglio, noi semplicemente non esistiamo - è un po' come in quel film di Andrej Konchalowski, Runway train, i cui protagonisti si ritrovano su un treno in corsa che nessuno conduce.



L'economia ha portato l'Europa fin dove poteva portarla. L'approccio funzionalista ha raggiunto il suo apice con l'euro, ma anche verosimilmente un limite di integrazione invalicabile. Ora, c'è bisogno di un rilancio dell'integrazione politica. I candidati primi per questo rilancio dell'integrazione politica europea sono i settori della politica estera e di difesa.



Certo, un'unione diplomatica e militare più un'unione economica e monetaria, non è ancora l'Europa federale. Avremo gli Stati Uniti d'Europa solo quando una serie di altri nodi di natura costituzionale - come i poteri del Parlamento, il ruolo esecutivo della Commissione e così via - saranno stati sciolti.



Tuttavia, un'Europa del genere avrebbe sulla scena mondiale quella autorità che attualmente manca ai suoi singoli stati membri e cui persino i britannici sostengono ora di aspirare. Ho articolato questa proposta di UDM recentemente in un articolo pubblicato dal Financial Times e le prime reazioni che ho avuto (fuori Italia) sono incoraggianti.



Ottenere dal primo Consiglio europeo utile - probabilmente quello in Finlandia il prossimo dicembre - un mandato per la creazione di un comitato à la Delors che studi la fattibilità di un'Unione Diplomatica e Militare credo sia un obiettivo alla nostra portata. E comunque coerente con la storia di battaglie federaliste del Partito Radicale Transnazionale.



Quale che sia il suo assetto costituzionale, questa Europa va comunque riempita di contenuti, di politica. La settimana scorsa ho preso parte ad un convegno, organizzato a Roma dalla fondazione amici di Liberal, che si è concentrato su tre di queste politiche: il mercato, il lavoro e il welfare. La domanda cui ho tentato di rispondere era: siamo davvero sicuri che l'Europa abbi8a le ricette giuste per il mercato, il lavoro e il welfare?



E dico subito che la mia risposta approssimativa è no. L'Europa, e con essa l'Italia, dovrebbero affrettarsi a cambiare strada se vogliono far funzionare il mercato, creare posti di lavoro, provvedere servizi pubblici laddove occorrono veramente (tradurrei così il termine welfare). Serve, ci arriverò tra poco, un nuovo contratto sociale - in Italia con molta urgenza, ma anche nel resto d'Europa.



Contratto sociale.

Vediamo perché. Oggi, un qualsiasi europeo rispetto a un qualsiasi americano:

volendo lavorare, ha il doppio delle probabilità di non riuscirci;

paga molte più tasse: la pressione fiscale è pari (1998) al 46,4% del PIL nell'UE, contro il 35,4% degli USA;

paga molto più caro tutto quello che compra: nel 1996 i prezzi al consumo in Europa erano più alti in media del 24% rispetto agli Stati Uniti.



A questo punto vorrei che qualcuno mi spiegasse in cosa consiste questo benedetto "modello sociale europeo" di cui andiamo tanto fieri e che mai ci stanchiamo di contrapporre alle presunte nefandezze di quello anglosassone.



E, badate, quando provate a sollevare il problema, davvero vi sentite rispondere di tutto. Da cose abbastanza pertinenti. Tipo: da noi ci sono meno poveri. Ma se andate a vedere, scoprite che i poveri - definiti come coloro che hanno un reddito inferiore alla metà di quello medio - sono su entrambe le sponde dell'Atlantico attorno al 15%, senza drammatiche differenze.



Fino ad obiezione che di pertinenza ne hanno assai meno. Tipo: la popolazione carceraria. O la violenza da armi da fuoco. Tutte cose giuste e importanti, per carità. Ma anche abbastanza lontane dai nodi economici fondamentali, dal mercato, dal lavoro e dal Welfare.



Torno ora su queste tre grandi aree di intervento politico.



Il lavoro è IL problema dell'economia europea. Il dramma non sta tanto nel tasso di disoccupazione, che nell'Unione Europea è (1997) al 10,7%, contro il 4,9% degli Stati Uniti e il 3,4% del Giappone. Il tasso di disoccupazione misura, grosso modo, che probabilità ha di NON lavorare uno che vuole farlo - per riprendere l'espressione che ho usato prima.



Ma c'è anche gente che, pur essendo in età da lavoro (15-64 anni), il lavoro ha smesso di cercarlo o non lo ha mai cercato: vuoi perché si è scoraggiata, vuoi perché ha un sussidio o una rendita, vuoi perché ha qualcun altro che la mantiene. Se si vuole considerare anche questa categoria di persone, è meglio fare ricorso al tasso di occupazione. Questo ci dice quanta gente lavora sul totale di quelli in età da lavoro. E qui è il dramma, a mio modo di vedere.



Perché nell'Unione Europea il tasso di occupazione è (1997) al 60%, negli Stati Uniti è al 74%, in Giappone è al 75%.



In Italia è al 51%.



Questo significa che mentre negli Stati Uniti e in Giappone lavorano tre persone su quattro, in Italia lavora una persona su due. Qui c'è un problema, credo, e anche grosso.



La differenza, badate bene, è quasi inesistente tra i lavoratori maschi in prime age (25-54 anni): 84,5% in Europa, 88,4% negli USA. E' invece allarmante tra i giovani, le donne e gli anziani - intendendo con quest'ultimo termine la classe d'età compresa tra i 55 e i 64 anni. Nel 1997 lavorava il 36% della popolazione europea in questa classe d'età, contro il 57% negli USA e il 64% in Giappone.



In Italia il 27%.



Il problema del lavoro tra gli anziani - se si può chiamare così una persona di 55 anni - ci porta dritti ad almeno un aspetto del welfare: le pensioni. Mi chiedo quale sistema potrà mai permettersi di mantenere con trasferimenti e sussidi una tale proporzione, oltre tutto destinata a crescere, della popolazione. E mi chiedo anche se ciò sia giusto e morale.



E' un problema acuitosi negli ultimi anni, anche per un ricorso eccessivo ai prepensionamenti - qui gli industriali hanno le responsabilità, credo, al pari dei sindacati. Ad esempio in Francia il non-lavoro tra gli anziani maschi è aumentato di quasi dieci punti percentuali tra il 1985 e il 1997. Ma questo non ha impedito all'industria automobilistica di invocare solo qualche mese fa, nuove misure di prepensionamento. E non, badate bene, per ridurre il personale punto e basta. Ma per poter sostituire gli ultracinquantenni con gente più giovane. Una specie di razzismo anagrafico.



In Francia il dibattito sulla riforma del sistema pensionistico s'è riacceso proprio in questi giorni. E anche nel resto d'Europa quasi non si parla d'altro. Ma mentre se ne parla il problema si incancrenisce, senza che nessuno trovi il coraggio politico per invertire veramente questa insostenibile tendenza. Di nuovo il confronto con gli Stati Uniti è avvilente per noi europei.



Mentre noi siamo prigionieri della nostra paura, Clinton propone di consacrare una parte dell'attivo di bilancio previsto da qui al 2015 al rafforzamento diretto e indiretto del sistema pensionistico. E la polemica (con Greenspan) è sull'opportunità o meno di investire in borsa parte delle relative risorse. Non sono una specialista in sistemi pensionistici e non so se e in che misura quello americano sia meno generoso del nostro. Fatto sta che può contare su una base di popolazione in attività molto più ampia, su un bilancio previdenziale attivo, e su un bilancio pubblico attivo. Esattamente quello che noi europei non riusciamo a fare.



Perché manca il coraggio politico per impedire che troppa gente esca troppo presto dal mercato del lavoro? Il fatto è che smettere di lavorare, specie si si tratta di un lavoro poco gratificante, conservando l'ottanta per cento del proprio reddito è spesso benvenuto. Chi ha il coraggio politico per mettere in discussione questo privilegio di massa, storicamente inedito?



Mi chiedo, allora, se la formazione di questa nuova massa di rentiers non stia cambiando la prospettiva politica. Milioni di lavoratori che diventano rentiers non mutano i partiti che tradizionalmente li rappresentavano in partiti di rentiers, cioè in partiti contrari a qualsiasi cambiamento?



Ho paura di un'Europa al cui invecchiamento demografico corrisponde un invecchiamento politico: l'incapacità di innovare, di accrescere la flessibilità di strutture e mentalità, di mettersi nei panni di chi crea ricchezza e non di chi si limita a spartire quella che già esiste, nei panni di chi ha il problema di entrare nel mondo del lavoro e non di uscirne.



Per capire quali riforme potrebbero effettivamente favorire la creazione di nuovi posti di lavoro in Europa devo tornare, scusatemi, al confronto con gli Stati Uniti. Anche qui, comincio ad essere un po' stufa di sentirmi ripetere che tanto è tutta gente che gira gli hamburger. Primo perché non è così. E secondo perché ha ragione Amartya Sen, recente premio Nobel in economia, specialista in problemi di povertà e sviluppo, quando ripete a chiunque voglia sentirlo che è meglio qualsiasi lavoro, comunque precario e poco qualificato, di no lavorare affatto.



Ma torniamo qui da noi. Il rapporto sull'occupazione 1998 approvato dalla Commissione lo scorso ottobre dice a chiare lettere che in Italia, Francia e Germania la quota di addetti ai servizi è rimasta la stessa tra il 1985 e il 1997. Dice anche che in Italia sono sottosviluppati settori come la ristorazione e gli alberghi. Pensate: in Italia!



E per tutti questi motivi, quindi, che liberare lo spirito di iniziativa diffuso che c'è in Italia - soffocato da una spessa coltre burocratica e corporativa - mi entusiasma come progetto politico. Per liberare questo spirito di iniziativa l'Italia ha bisogno di uno Stato leggero. Può permettersi, forse, uno Stato pesante chi lo ha avuto per secoli, come la Francia e la Spagna. O chi lo ha nel proprio DNA culturale, come i tedeschi. Col tipico errore degli ultimi arrivati, noi abbiamo provato a copiare questi modelli. Non ci siamo riusciti. Cambiamo strada.



Spero sia più chiaro, a questo punto, il perché di una mia netta preferenza per il modello anglosassone di Stato, società e mercato. E se suona troppo filo-americano, che sia: due grandi europeisti come Monnet e Spinelli, ciascuno a modo proprio, si sono ispirati largamente al federalismo d'oltreatlantico.



Sono sicura che esistono studi sofisticati sulla pressione fiscale che dimostrano come, oltre un certo limite, essa soffoca la crescita e quant'altro. Ma il mio personalissimo problema è che questa concezione dello Stato sociale che bada al cittadino dalla culla alla tomba ha dato sempre un certo senso di soffocamento.



E di irresponsabilità. Perché maggiore è la porzione di reddito che un cittadino controlla direttamente, più è lui stesso tenuto a prendere decisioni. Può scegliere di coprirsi verso certi rischi e non verso altri, e può scegliere la compagnia con cui assicurarsi. Può scegliere per i figli un'ottima università, una mediocre, o nessuna. Non viene trattato come un minus habens cui non solo bisogna imporre degli accantonamenti per finanziare certi servizi, ma addirittura gli si prelevano delle risorse per fornirgli poi gli stessi servizi in regime monopolistico, che gli occorrano o meno. C'è insomma, dietro la pressione fiscale, il mercato, il lavoro e il welfare, una fondamentale questione di libertà individuali.



L'incubo degli esami per la moneta unica è finito. Certo che siamo in Europa (c'eravamo già prima), certo che siamo nell'euro. Nondimeno è tempo di ridiscutere il contratto sociale che lega il cittadino-consumatore-utente allo Stato. Dobbiamo, tutti, prendere a chiederci di cosa deve farsi carico lo Stato, oltre la sicurezza esterna e interna, la diplomazia, la giustizia, la scuola dell'obbligo e certe infrastrutture.



E cosa, viceversa, è meglio lasciare all'incontro tra domanda e offerta di agenti privati, con il ruolo dello Stato limitato alla creazione e al mantenimento di un quadro legislativo e amministrativo che permetta il buon funzionamento della concorrenza e assicuri i diritti dei consumatori.



Che questi siano i nodi fondamentali della politica e dell'economia, italiana ed europea, noi radicali andiamo dicendolo da qualche anno ormai. Anche se le resistenze ai cambiamenti che chiediamo si sono indebolite assai poco, il consenso, almeno verbale, su queste nostre analisi cresce.



Non so se avesse in mente noi, ma mi ha comunque fatto piacere leggere l'altro giorno su La Repubblica questa dichiarazione di Tony Blair: "noi socialisti dobbiamo essere 'i nuovi radicali' d'Europa". Potremmo, perché no?, metterci d'accordo e per una volta provare a invertire i ruoli: loro fanno i radicali e noi facciamo i socialisti.



Ma il fatto è che l'analisi di Blair è davvero molto simile alla nostra. Essere radicali, per il primo ministro britannico significa: "mettere a punto un'agenda di coraggiose riforme economiche. L'euro può dare stabilità all'Europa, ma non può darle dinamismo, questo tocca alla politica".



"Dobbiamo riformare - dice ancora Blair - i nostri sistemi di welfare, far funzionare meglio i meccanismi fiscali, abbattere le barriere strutturali che impediscono alla gente di entrare nel mercato del lavoro. Se non lo facciamo l'Europa andrà all'indietro. E penso che dobbiamo essere pronti, nonostante le differenze tra Stati Uniti ed Europa, ad apprendere le lezioni che possono essere apprese, che incoraggiano l'Europa all'innovazione e all'impresa".



Nel suo intervento al congresso del PSE a Milano, Blair ha poi affermato che occorre mettere in discussione la presunta superiorità del modello sociale europeo su quello americano e ha invocato una modernizzazione del primo in direzione di minori tasse e deregolamentazione.



Siamo, vedete bene, sulla stessa lunghezza d'onda. E dunque, per la proprietà transitiva, siamo sulla stessa lunghezza d'onda di Massimo D'Alema - che, sempre martedì scorso, s'è detto d'accordo in tutti e per tutto con l'analisi del premier britannico.



E fatta, dunque. Poiché D'Alema guida il governo italiano, possiamo aspettarci che da un momento all'altro tutte queste idee riformiste vengano applicate.



A pag. 2 del Financial Times di mercoledì scorso, un articolo in alto raccontava appunto del sostegno di D'Alema a Blair. Un altro in basso descriveva invece il cattivo stato dell'economia italiana. C'è bisogno di crescita, scriveva il giornale, e per stimolare la crescita occorre ridurre la pressione fiscale con tagli alla spesa strutturale, soprattutto quella pensionistica. Aggiungendo: "D'Alema, il cui governo si basa su una complicata coalizione di partiti, ha escluso di farlo".



"Una riforma del mercato del lavoro italiano - proseguiva il giornale - viene anche ritenuta essenziale per rilanciare l'iniziativa economica. Ma anche qui, il governo D'Alema non è riuscito a fare progressi, a causa stavolta della riluttanza dei sindacati".

Eccoci quindi piombati nel paradosso italiano: un sistema politico così bizantinescamente bloccato che nessuna riforma può essere intrapresa, nemmeno quelle che piacciono al capo dell'esecutivo.



Se persiste questa disgregazione delle regole istituzionali, dei trenta gruppi, gruppetti e gruppettini, della partitocrazia virtuale che si crea per partenogenesi in parlamento, nessuna riforma sarà possibile, nemmeno se la vuole il Presidente del Consiglio.

E allora che fare? Io credo che se questa visione è condivisa, una forza politica in questa assemblea vi ha chiamato a discutere per decidere che fare, tenendo conto che nei prossimi mesi ci sono scadenze imposte dal sistema o da altri e che sono: il referendum del 18 aprile, la scadenza della Presidenza della Repubblica e le elezioni europee. Ma forse è prudente per noi e per voi mettere in atto una qualche altra iniziativa di priorità che non sono quelle volute dall'establishment, ma che, credo, milioni di cittadini vogliono, proprio perché queste cose di cui abbiamo parlato, prima o poi, arrivino sul tavolo delle priorità e stiano lì come un macigno costringendo appunto a discutere di quello e non se Mastella ha il raffreddore o se a quell'altro gli è venuta la varicella.

Che fare allora? Marco Cappato ha proposto nella sua relazione di discutere se non è il caso di riprendere l'arma referendaria sulle libertà economiche, sul buon governo o su altri temi liberali e liberisti. Io credo che su questo dovremo e dovrete, prendendo la parola oggi e domani, discutere per darci la vostra percezione. Personalmente ritengo che per una forza politica che non ha il 51%, che non esprime il Presidente del Consiglio, che anzi già che c'è che non ha neanche rappresentanti in Parlamento, che comunque rappresenta cittadini che tutti voi, io credo che l'arma referendaria resti e debba tornare ad essere un'arma straordinaria da utilizzare perché appunto il disuso massacra l'organo come sapete. Discutiamo di questo. Tenendo presente che quando Marco Cappato proponeva una stagione referendaria perché se riraccogliamo le firme adesso, ad aprile dell'anno prossimo quelle staranno sul tavolo, quelle proposte staranno sul tavolo. Ma per fare questo, se vogliamo che queste cose che ci diciamo, siano l'attualità e la priorità di aprile dell'anno prossimo, allora le firme le dobbiamo raccogliere adesso, perché i tempi delle regole e la legge sui referendum questo dice. E voglio subito chiarire che quando penso ad una stagione di questo tipo non penso solo ad una stagione coi banchetti per strada. Anche. Ma mi viene in mente soprattutto la stagione del 1975, quello insomma del CISA, dove il referendum fu una delle armi, ma accompagnata da un pieno di attività, di disobbedienza civile, di chi andava in carcere, di chi si autodenunciava; migliaia e migliaia di donne che si autodenunciarono all'epoca. Insomma un pieno di iniziativa politica che non può essere delegata a pochi radicali: ve lo diciamo subito abbiamo già dato a questo paese. Abbiamo già dato. Solo se altri sentiranno queste esigenze, come prioritarie della loro vita, se in base a queste, saranno in grado, vorranno sconvolgere come è successo a me nel '75 o ad altri di sconvolgere la propria vita per tre mesi, per quattro mesi, darsi altra priorità, solo se questo riusciremo ad aggregare e non in modo burocratico possiamo sperare di farcela: noi ne abbiamo con altri, e ripeto con altri la determinazione e la volontà. Su questo Paolo Vigevano vi ha detto siamo disponibili a mettere a rischio l'intero patrimonio che abbiamo costruito in tanti e tanti anni. Ma non basterebbe comunque. Credo che non sarebbe neanche decoroso e decente ridelegare a pochi radicali a inventarsi fantasmi, scioperi della fame e quelli della sete, e le poltrone davanti a Palazzo Chigi, e le tramontane non so dove. Credo che veramente abbiamo già dato; in modo "scomposto" viene detto. Evviva la compostezza altrui, se ci ha portato alle cifre di cui parliamo. Certo siamo persino a volte maleducati, irragionevoli e folli, ma non ci avete mai "provati". Mi pare che questo paese ha sempre fatto fiducia ad altri. Non è forse arrivata l'ora di provare i radicali. Abbiamo la scadenza del 18 aprile. Su quello avevo lanciato mi pare poco raccolta, a meno che non la si volesse delegare a me e dico subito deleghe: basta più. Avevo lanciato l'idea del "giuramento della Pallacorda" a questo referendum, ovvero chi l'ha voluto e chi ci crede, è un referendum autoapplicativo, la legge che esce da questo referendum, quella deve essere. Non è perfetta, non importa. Dio ci scampi da quella che può uscire da un Parlamento dove trenta gruppi, quegli altri ecc., avranno tante belle fantasie. Io credo che i sistemi istituzionali non si inventano. Non è pensabile che siamo così straordinari da inventare un modello che ha una parte di brasiliano, un pezzo di nuovozelandese, un'altra idea delle tribù del Mato Grosso e già che ci siamo ci mettiamo anche un pezzo di modello svedese. I sistemi istituzionali sono quelli che hanno già dato prova di sé, che hanno una loro credibilità detta nella storia, negli anni e nei fatti. La specificità fantasiosa italiana l'abbiamo già sperimentata, vediamo forse di affidarci a qualche altro modello. Ma non ho visto ripresa a questa idea della Pallacorda. Domani alle ore 10.00 alla via tale, vuoi venire? Spero che non ci si aspettasse che l'organizzassi ancora io e qualche radicale per poi invitare altri. Come ho detto: basta più. Ci saremo al referendum, ma ci saremo in questo spirito e in questo senso: il referendum non è l'Euchessina, non è l'Amaro Giuliani, non è lo stimolo per nessuno. Non è pensabile riaccettare che i cittadini votano in un modo e i parlamentari fanno tutt'altro.



L'invito e la sollecitazione di Gianfranco Pasquino e del comitato "Emma for President" non può restare senza risposta.

Pasquino non chiedeva certamente ad Emma Bonino semplicemente l'accettazione di una candidatura anche perché non saprei dove andare per accettarla. Ma se non vogliamo che qualsiasi mia decisione si riduca a pura gestualità dobbiamo prima metterci d'accordo sul significato politico di questa campagna. Solo dopo aver fatto chiarezza su questo punto, possiamo decidere in un senso piuttosto che nell'altro.



L'elezione del Presidente della Repubblica assume infatti in Italia un significato diverso rispetto agli altri paesi. Non si tratta solo di eleggere la persona che meglio può rappresentare la nazione ma di compiere un passo decisivo per le sorti dello Stato e dello Stato di diritto.

Condivido l'analisi di chi afferma che la Presidenza della Repubblica è oggi l'elemento più evidente di crisi dell'attuale assetto istituzionale, la cartina di tornasole che consente di toccare con mano lo sfascio delle regole che è stato praticato in questi 50 anni di vita repubblicana, ma che ha registrato negli ultimi 15 anni una accelerazione fortissima.

La Carta fondamentale dello Stato fissa in maniera tassativa i poteri del Presidente della repubblica e quindi i limiti invalicabili all'esercizio di questa funzione. A nessuno è consentito attribuirsi compiti e funzioni che non solo non sono stati previsti ma che la Costituzione considera come tradimento del giuramento di fedeltà.



Per questo, per prima insorgo quando sento che molti, anche alcuni sostenitori della mia candidatura, vorrebbero che la campagna per la mia elezione a presidente della repubblica anticipasse il ruolo che anche noi vorremmo attribuire ad un presidente eletto dal popolo oppure quando mi si chiede di assumere impegni e responsabilità che non appartengono al presidente della repubblica eletto oggi con la Costituzione vigente.

Proprio noi che denunciamo per primi la strage di legalità che viene attuata ad ogni livello dello Stato, proprio noi per primi dobbiamo rispettare la legge che attribuisce al presidente della repubblica solo ed esclusivamente la funzione di garante imparziale della legalità costituzione e di rappresentanza della nazione. Niente di più e niente di meno.



Se emergerà con forza questa denuncia e questa esigenza di legalità e di diritto, io non mi sottrarrò certamente alle mie responsabilità, alla mia convinta adesione a questa battaglia di libertà e di democrazia.



Il problema non è quindi se Emma Bonino accetta o meno la candidatura che con tanta forza e con indubbio successo il Comitato ha sostenuto, raccogliendo consensi nell'opinione pubblica sicuramente eccezionali, quanto di verificare, ovviamente attraverso l'iniziativa, se questo Paese sente come prioritario il problema del diritto e della legalità.

Non propongo quindi, di stare fermi, in attesa che il paese esprima o meno questa esigenza, ma di fare tutto, proprio tutto, per sollecitare la gente, anche coloro che saranno chiamati ad eleggere il presidente della repubblica, a questa riflessione e a questa battaglia politica.

Da subito quindi con i tavoli nelle strade per convincere i cittadini che attraverso la campagna "Emma for President" può e deve passare quella riscossa del diritto e della legalità senza la quale è illusorio pensare che il nostro Paese possa compiere la rivoluzione liberale che tutti chiediamo e vogliamo.



Per finire, mi piace ricordare con voi quanto mi abbia emozionato recentemente e convinto, ma più di questo quanto mi abbia scosso rileggere alcune pagine di Carlo Rosselli da "Socialismo Liberale".

Rosselli scrive una cosa semplice nell'enunciazione, quasi terribile e difficilissima da applicare. Scrive: "Nella sua più semplice espressione il liberalismo può definirsi come quella teoria politica che partendo dal presupposto della libertà dello spirito umano dichiara la libertà supremo fine, supremo mezzo, suprema regola dell'umana convivenza."

Non mi attarderò né sul supremo fine, né sul suprema regola. Mi soffermerò perché mi ha colpito sul 'supremo mezzo': "Mezzo in quanto reputa che questa libertà non possa essere elargita od imposta, ma debba conquistarsi con duro, personale travaglio nel perpetuo fluire delle generazioni. (Duro e personale travaglio). Esso concepisce la libertà non come dato di natura ma come divenire, come sviluppo".

Insomma dice Rosselli: "Liberi non si nasce ma si diventa liberi e ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigilante la coscienza della propria autonomia e costantemente esercitando le proprie libertà".

Questa la sfida per tutti noi. Grazie.













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