E' stata richiamata l'analogia tra il motto EBB (Everyone But Bush) che anima una consistente parte dei sostenitori di Kerry nella corsa alla presidenza USA e un analogo EBB (dove al posto di Bush ci sarebbe Berlusconi) che potrebbe divenire lo slogan implicito delle prossime campagne elettorali del centro sinistra italiano. Dare sbocco elettorale all'opinione pubblica delusa - o peggio - da Bush è un vantaggio indubbio per Kerry. L'assetto istituzionale americano consentirebbe comunque allo sfidante democratico di portare avanti in autonomia la sua agenda politica in caso di elezione (fermo restando, naturalmente, la dialettica con il Congresso); nonostante questo, pero', la difficoltà di esprimere una linea politica solida, lineare e comprensibile - dettata dalla necessità di non scontentare le anime assai diverse dei gruppi che lo sostengono - indebolisce Kerry.
A maggior ragione ciò accadrebbe nel caso in cui il collante principale della coalizione di centro sinistra guidata da Prodi dovesse rimanere quello dell'EBB all'italiana. Un sistema parlamentare con governi di coalizione, infatti, impone la definizione di una piattaforma politica comune che prefiguri fin da subito i principali contenuti dell'attività di governo.
A tal proposito la strada della coalizione che oggi vede come leader Romano Prodi appare tutta in salita, tanto in politica estera quanto sui temi economici. Quest'ultimo aspetto è apparso evidentissimo con le polemiche feroci esplose a proposito del destino che una eventuale maggioranza di centro sinistra dovrebbe riservare ad alcune riforme varate dall'attuale coalizione di Governo. A anciare il sasso è stato Nicola Rossi, deputato diessino e già consigliere economico di D'Alema che, pur criticandola, ha detto senza mezzi termini che la riforma delle pensioni appena approvata non andrebbe abolita. Il leader della Margherita, Francesco Rutelli, ha aggiunto alle riforme da non cancellare ma, al pi∙, da mettere alla prova, anche quelle del mercato del lavoro e della scuola.
Le sconfessioni di questa linea della prudenza non sono mancate, soprattutto da parte di quanti - e sono stati molti e in tutti i partiti dell'opposizione - temono che così si possa depotenziare il messaggio "chiunque ma non Berlusconi" o che semplicemente definiscono "macelleria sociale" o "deriva neoliberista" quei provvedimenti.
La prima e più palese contraddizione nella politica economica dello schieramento che si rifà a Romano Prodi è quella della inconciliabilità tra le rivendicazioni della "sinistra massimalista" di Rifondazione, Comunisti Italiani e Verdi e quella della "sinistra riformista" della Margherita e dei DS. Conciliare chi vagheggia di fuoriuscita dal capitalismo e chi si propone di governare in una chiave moderata ed "europea" è impresa su cui appare oggi difficile scommettere; soprattutto in un orizzonte temporale che si spinga oltre un eventuale successo elettorale. Come ha scritto il direttore del Sole24Ore Guido Gentili qualche settimana fa, la sinistra appare in viaggio "su strade divergenti". Un solo argomento, anche se serio, può essere portato a difesa della praticabilità di questa alleanza tra "massimalisti" e "riformisti": quanto successo nella scorsa legislatura. Paradossalmente, infatti, fu con il Governo Prodi, sostenuto da Rifondazione Comunista, e non dopo che il centro sinistra varo' provvedimenti significativi come una prima riforma del mercato del lavoro (pacchetto Treu) o la liberalizzazione del commercio (voluta dal Ministro Bersani e tradita poi, nei fatti, dalle inadempienze delle Regioni). E sempre con Rifondazione nella maggioranza venne varata la privatizzazione di Ste/Telecom. In alcuni casi (avvio della riforma del collocamento e lavoro interinale e la stessa privatizzazione dell'azienda di telecomunicazioni) fecero premio vincoli esterni, europei per la precisione, anche se i fatti restano. Affidarsi a questo precedente sarebbe comunque un esercizio cabalistico piuttosto che di prospettiva politica.
Il piccolo terremoto provocato dalle dichiarazioni di Rutelli, pero, ha reso evidente una questione se possibile ancor pi∙ rivelante del contrasto tra le due "anime" del centro sinistra: ha evidenziato quanto poco siano definite e coese le prospettive di politica economica all'interno delle forze che si sono riunite alle recenti elezioni europee nella Lista Unica. Dietro il pragmatismo di uomini come Enrico Letta o Pierluigi Bersani, infatti, appare difficile individuare una linea di politica economica coerente; un disegno di modernizzazione del paese dotato di qualche slancio e che vada al di là del "noi siamo più attrezzati".
Fino ad oggi le indicazioni che vengono dal centro sinistra riguardano i grandi obiettivi come quelli della "strategia di Lisbona", o sono di carattere, diciamo così, metodologico: il richiamo alla concertazione, al dialogo e alla volontà di "unire" ciò che il centro destra avrebbe diviso. Su questi assunti Ds e Margherita si trovano concordi, ma è sulle ipotesi delle misure concrete che ancora non si capisce dove si voglia andare a parare.
Un primo dilemma che rischia di paralizzare l'opposizione se divenisse maggioranza è quello tra consenso ed innovazione. Continuando a gridare al "massacro sociale" e alla pericolosa "deriva neoliberista", la sinistra degli ultimi anni ha raccolto il facile scontento di coloro che vedono messe in discussione alcune confortevoli certezze del passato, ma ha finito per promettere implicitamente la difesa di ciò che, in termini di spesa sociale e di organizzazione del lavoro, non è più difendibile. Uno sguardo all'Europa mostra quali siano i termini del dilemma. Senza scomodare Tony Blair, l'eretico della siistra europea, è bene tenere a mente la lezione che viene dalla Germania di Shroeder. Il Cancelliere ha deciso una inversione di marcia senza precedenti riguardo un caposaldo dello stato sociale tedesco, il sussidio di disoccupazione. Con questo decisione ha scelto l'innovazione pagando nell'immediato un costo elevato in termini di consenso nel paese e nella sua maggioranza; nella duplice convinzione che questo passo fosse necessario per ridare fiato alla Germania e che in tempi brevi sia possibile, grazie ai buoni risultati delle scelte compiute, risalire la china anche in termini elettorali. Schroeder ha al fianco un alleato, i verdi tedeschi, decisamente più aperto alle riforme di quanto non lo siano Rifondazione e i Verdi nostrani, ma resta da capire se la "sinistra riformista" italiana - poco importa qui se "laica" o "cattolica" - abbia la volontà , prima ancora che la capacità , di un tale scatto di reni. Sempre in termini di consenso non è chiaro, ad esempio, se per i DS il rapporto con il sindacato e soprattutto con la Cgil resti la cornice entro la quale ricercare le soluzioni "compatibili", oppure sia divenuto un "semplice" auspicio al quale non si è disposti a sacrificare l'efficacia della politica fiscale ed economica. L'Istat ha indicato in questi giorni come la spesa sociale italiana continui a crescere: meno che in passato ma comunque a ritmi superiori all'inflazione ed al PIL. Se il sindacato proclama: "giù le mani dal welfare", la sinistra riformista si adegua e accetta lo status quo o è disposta, ad esempio, a fare proprio lo slogan "meno pensioni, più welfare", felice titolo di un libro di Tito Boeri? E' chiaro che in Italia non abbiamo il problema tedesco di sussidi di disoccupazione eccessivamente generosi, ma quello contrario: si è pronti ad un confronto (fino allo scontro, se necessario) con il sindacato per arrivare, rimodulando la spesa sociale, a misure generalizzate di "welfare to work" che eliminino qualsiasi tipo di discriminazione tra lavoratori, anche cancellando il sostegno pubbico alla cassa integrazione? Sempre dalla Germania sono arrivate innovazioni importanti sull'orario di lavoro in alcune grandi aziende, dove la decisione è stata quella di aumentare le ore di lavoro a parità di salario: la sinistra riformista intende restare "neutrale" qualora scelte di questo tipo si imponessero anche in Italia o si prepara a cavalcare lo scontento sindacale, magari mettendo sul piatto incentivi alle imprese e misure di tipo protezionistico? Più in generale, è chiaro che un tema fino ad oggi eluso ma da affrontare è quello della destrutturazione dei Contratti Collettivi Nazionali. La scelta più razionale sarebbe quella di consentire almeno differenziazioni settoriali e territoriali per agevolare recuperi salariali dove possibile e consentire recuperi di competitività dove necessario. Inoltre, come suggerito di recente dall'OCSE, i contratti italiani premiano troppo l'anzianità di servizio e troppo poco la produttività dei lavoratori, disincentivando cosi' l'occupazione dei lavoratori sopra i cinquant'anni: inutile ripetere che si vuole aumentare l'occupazione dei cinquanta-sessantenni se non si ha il coraggio di affrontare anche questo tabù (a meno che, ancora una volta, la via non sia quella degli incentivi, cioè della spesa pubblica).
Su questi temi è abbastanza chiara la posizione, conservatrice, della sinistra antagonista; assai meno comprensibile, fino ad ora, è quella della componente maggioritaria della coalizione prodiana.
L'impressione è che DS e Margherita, al di là della consapevolezza e della convinzione di alcuni sulla necessità di una forte azione riformatrice, puntino ad un fine-tuning, ad una gestione tecnicamente ben attrezzata dell'esistente, evitando in questo modo "strappi" e "scosse" che manderebbero in discussione l'unità politica della coalizione. Nel passato recente questo approccio ha probabilmente consentito di incassare il dividendo dell'aggancio all'Euro, consistente nella drastica riduzione degli oneri sul debito pubblico. Nel futuro, pero', saranno necessariinterventi politicamente assai più coraggiosi - chiunque sia al Governo - ed elettoralmente più rischiosi se si vuole avere almeno l'ambizione che siano adeguati. Anche il welfare ha bisogno di sviluppo per sostenersi, e lo sviluppo ha bisogno di riforme. Per questo, pero', ci vorrebbe una sinistra convintamene a trazione liberale.