• da Corriere della Sera del 12 settembre 2004, pag. 1
Sangue, miseria, disperazione. Questa è l'immagine che affiora quando si parla di Africa e di gran parte del mondo arabo. L'arretratezza e la povertà di quei Paesi, l'integralismo religioso che pervade le loro società , i conflitti armati, le masse di profughi... queste appaiono le uniche caratteristiche "degne di cronaca". Una tendenza alimentata dai media che sempre di più raccontano di guerre e fanatismo, a volte al punto di diventare inconsapevoli megafoni di Al Qaeda, e raramente degli sforzi - che pure esistono - di porre fine agli autoritarismi e agli oscurantismi. Ma in quella vasta parte del mondo non ci sono solo la guerra in Iraq, la crisi mediorientale o quella nel Darfur: non a caso, da tempo, sono convinta che il notorio "effetto Cnn", in base al quale una crisi umanitaria diventa tale solo dal momento che viene mediatizzata, può e deve essere invertito. O, perlomeno, riequilibrato, per dare spazio anche ai tentativi di creare delle società più aperte, rendendo noti gli sforzi compiuti in direzione della democrazia e dei diritti umani. Questo ruolo dei mezzi d i comunicazione, secondo me, può perfino spianare la strada alla prevenzione dei conflitti. Invece, dall'11 settembre in poi, giusto tre anni fa, i media sono diventati quasi esclusivamente portatori di notizie nefaste, in parte perché effettivamente si sono aggravate le tensioni mondiali, in parte perché tali notizie catturano, legittimamente, l'attenzione del pubblico. Approfittando della piega presa dal nostro sistema mediatico, i terroristi hanno velocemente imparato a farne ottimo uso, al punto da imporre la gerarchia delle notizie e dettare l'agenda politica, con il risultato che qualsiasi evento o sviluppo positivo viene oscurato. Che oggi ci siano familiari i nomi e i volti di Osama Bin Laden e dei suoi luogotenenti Al Zawahiri o Al Zarkawi oppure di fanatici tipo Moqtada Al Sadr, ma che nessuno sappia chi siano i dissidenti Saad Ibrahim, Isham Kassem, Aktiam Nasse, Ghassam Charbel e tanti altri, vale a dire i Vaclav Havel del mondo arabo, è il paradigma di questa realtà . Eppure, "belle" notizie da dare ci sarebbero. Per esempio, la conferenza internazionale che si svolgerà a Nairobi, dal 16 al 18 settembre, sulle mutilazioni genitali femminili (Mgf), organizzata dal governo del Kenya e dall'associazione radicale "Non c'è pace senza giustizia", grazie al sostegno finanziario di governi e organizzazioni internazionali. L'obiettivo della conferenza è di premere sugli Stati membri dell'Unione Africana affinché ratifichino quanto prima il Protocollo di Maputo sui diritti delle donne africane che stabilisce, tra l'altro, che le Mgf devono essere proibite e condannate perché costituiscono una violazione dei diritti fondamentali della persona. La conferenza vedrà la presenza di centinaia di partecipanti: anzitutto donne vittime delle Mgf, ma anche donne che praticavano la circoncisione, medici, insegnanti, giudici, parlamentari, rappresentanti di governi (per l'Italia ci sarà , probabilmente, il ministro per le Pari opportunità , Stefania Prestigiacomo) e di organizzazioni non govern ative, leader tribali e capi religiosi... Governi e attori non governativi si riuniranno quindi per discutere, condividere idee e strategie e, soprattutto, si confronteranno sui rispettivi problemi e su come risolverli. Ebbene, rispetto a questo evento straordinario, a questa mobilitazione di persone da ogni angolo del continente africano su di un tema fondamentale quale il diritto delle donne e della loro integrità fisica, che vede lo sforzo inedito di governi e società civile insieme, quale sarà l'attenzione della stampa internazionale? Pressoché nulla, come già avvenne per la precedente conferenza del Cairo nel giugno 2003 e, più recentemente, per la conferenza di Sana'a su democrazia, diritti umani e stato di diritto che si è tenuta nel gennaio di quest'anno con la partecipazione di 34 Paesi della regione e che, da allora, è costantemente citata in tutti i documenti internazionali più rilevanti. Eppure, tutti riconoscono - purtroppo il più delle volte ex post - che queste sono iniziative che hanno contribuito in maniera determinante al dialogo democratico e all'apertura della società in genere, soprattutto attraverso precisi impegni di natura legislativa. Ultimamente, numerose personalità , anche italiane, hanno invocato il "dialogo con il mondo arabo moderato" come fattore essenziale per porre fine ai conflitti in corso, basandosi sull'assunto che le tensioni esistenti non debbano essere viste dalla visuale dello "scontro tra civiltà " paventato da alcuni. Sono d'accordo, ma questo dialogo, se non viene dotato di qualche contenuto concreto, rischia di diventare, se già non lo è, uno stucchevole modo di dire, una chiacchiera da bar. Per questo noi occidentali , a cominciare dai governi e dalla stampa, dovremmo prenderci una pausa di riflessione, guardare oltre le tragedie in corso e sforzarci di riconoscere alcuni dei progressi compiuti anche grazie alla lotta nonviolenta condotta da donne e uomini africani e arabi, spesso abbandonati a loro stessi. Queste lotte, portate avanti in condizioni difficilissime e ampiamente ignorate dall'opinione pubblica mondiale, hanno cominciato a portare i loro frutti. Per esempio in Marocco, dove le nuove leggi sullo stato della donna rappresentano al riguardo una prospettiva islamica illuminata; in Giordania, dove il movimento contro il delitto d'onore sta guadagnando consensi; in Kuwait dove, sulle orme dello Yemen, c'è la volontà d'introdurre il diritto di voto alle donne e dove le organizzazioni per i diritti uman i sono state legalmente riconosciute... Dialogare con l'Islam moderato significa, come nel caso della lotta per l'abbandono delle Mgf (che peraltro riguarda anche comunità cristiane), sostenere concretamente chi cerca in quei Paesi di dare un futuro diverso a milioni di donne e bambine minacciate nella loro integrità fisica da una pratica barbara che si sconfigge soprattutto con il progressivo affermarsi di un modello di società il quale, allontanandosi da quello patriarcale al cui interno la donna non ha diritti, si fondi su principi di democrazia e dello stato di diritto.
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