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La Cecenia nel cuore dell'Europa

• da Diritto&Libertà del 8 settembre 2004, pag. 14

di Olivier Dupuis

Una coltre di silenzio avvolge la "questione cecena": le decine di migliaia di morti ignorati, il ricorso massiccio alla tortura, il ruolo dello Stato russo, dei suoi "servizi" nelle misteriose e sanguinarie esplosioni di immobili, in numerosi rapimenti, un generalizzato diniego di giustizia a vittime giuridicamente cittadini di uno Stato membro del Consiglio d'Europa; i media russi irregimentati, i media occidentali che diffondono, salvo rare eccezioni, le gioie e i dolori della cosiddetta "crociata anti-terrorista" del Presidente Putin, ...

Ma c'è un silenzio che è ancora più strano: quello relativo al ruolo dell'Europa, delle sue istituzioni e dei suoi cittadini, a quanto potrebbe e dovrebbe fare all'interno di frontiere che si sforza di nasconderci. Perché lo sterminio del popolo ceceno, il lento genocidio di questo piccolo popolo, la litania interminabile di crimini di guerra e contro l'umanità si sta compiendo da noi, in Europa. In quest'Europa geografica e storica, in quest'Europa politica e giuridica che dovrebbe incarnarsi nel Consiglio d'Europa e nella Corte europea per i Diritti Umani, nell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa (OSCE), nell'Accordo di Partenariato e Cooperazione che lega la Federazione russa all'Unione europea.

Può questa Europa, che si vuole politica, accettare che un genocidio si perpetui al suo interno? Che un piccolo popolo di meno di un milione di abitanti continui a essere vittima delle nostalgie imperiali degli uni, delle ambizioni e dei calcoli degli altri, del laisser-faire e della spirale dell'orrore?

Può - e vuole - questa Europa riprendere la politica dello struzzo che ha adottato nei confronti della Jugoslavia del dopo Tito? Una politica che ha prodotto oltre 250.000 morti, una lista senza fine di crimini di guerra e contro l'umanità, distruzioni senza precedenti in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, costi finanziari enormi per la comunità internazionale (e non è ancora finita) e, last but not least, una rinascita duratura dei peggiori sentimenti nazionalisti all'interno di importanti frange di queste società convalescenti.

Non sarebbe forse il caso che l'Europa prendesse come esempio la recente adesione all'Unione degli otto Paesi d'Europa centrale e orientale? Perché si tratta, né più né meno ... di una politica: chi, infatti, potrebbe escludere che in assenza di tale chiara prospettiva di adesione all'Unione europea - con dei doveri e un calendario precisi - l'uno o l'altro dei nuovi Paesi membri avrebbe, sul modello della Bielorussia del sinistro Lukachenko, ceduto alle sirene dell'autoritarismo? Questa politica riuscita è una politica dell'Unione europea, anche se quest'ultima dà, talvolta, l'impressione di volersene giustificare o di minimizzarne l'importanza.

Forte di queste due esperienze, della catastrofe Jugoslava e del successo dell'allargamento, l'Unione europea dovrebbe da subito avviare un grande cantiere delle adesioni mancanti. Oltre all'allargamento, già in programma per il 2007 o il 2009, alla Romania, alla Bulgaria e alla Croazia, è indispensabile integrare senza ulteriori attese gli altri Paesi dei Balcani - Serbia-Montenegro, Albania, Macedonia, Bosnia e Kosovo -, i Paesi del Caucaso, la Georgia che non mancherà di presentare a breve termine una domanda d'adesione, l'Azerbaijan e l'Armenia, la Turchia - fosse solo per confermare l'universalità dei valori che sono alla base del progetto europeo -, Israele - affinché in un clima di sicurezza possa far rifiorire una democrazia minacciata e affinché quei palestinesi che sognano una Palestina democratica possano finalmente governare il loro paese - ma anche l'Ucraina e la Moldavia, due Paesi che sembra vogliamo condannare a una lotta senza fine contro i demoni interni ed esterni del ritorno al passato, e la Bielorussia (senza Lukachenko).

Già possiamo immaginare l'atto d'accusa: questi nuovi allargamenti finiranno di scavare la fossa all'Europa politica. Il ritornello è noto: è stato cantato ogni qual volta l'Unione si è allargata. E ogni volta è stato smentito dai fatti. Perché è avvenuto l'esatto contrario. L'Europa dei Sei era sostanzialmente immobile. È stata la prospettiva dell'adesione della Gran Bretagna che l'ha rimessa in moto (Sistema Monetario Europeo, prima elezione diretta del Parlamento europeo). Per quanto riguarda Spagna, Grecia e Portogallo, l'adesione ha non solo assecondato il loro ritorno alla democrazia ma è stata altresì accompagnata dal rilancio della costruzione europea (Atto Unico: avvio del mercato unico delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali), mentre il passaggio da 12 a 15, con l'entrata della Svezia, della Finlandia e dell'Austria, è servito da bussola al Trattato di Maastricht (lancio della moneta unica, primi passi in materia di politica interna e di politica giudiziaria comuni, primo abbozzo di una politica estera comune). Rispetto ai Paesi d'Europa centrale, non v'è nessun dubbio che la prospettiva d'adesione ha rappresentato un motore decisivo per il loro approdo alla democrazia e per il prossimo approfondimento dell'Unione (la Costituzione). Inoltre, possiamo senza troppe difficoltà immaginare che il contributo dei polacchi, dei cechi, degli ungheresi, dei baltici sarà tutt'altro che marginale per quanto riguarda una questione centrale per il futuro dell'Unione, quella delle sue relazioni con il grande vicino orientale: la Federazione russa.

In verità, ogni allargamento dell'Unione è stato accompagnato da un approfondimento dell'Unione. Certo, al prezzo di nuove contraddizioni e, spesso, di compromessi zoppicanti. Ma i veri demoni contro i quali essa si è trovata a dover lottare risiedevano ogni volta ben più che nell'uno o nell'altro nuovo arrivato, cosiddetti cavalli di Troia della dissoluzione, negli antichi demoni interni della nostalgia imperiale o della grandeur di "vecchi" Stati membri.

Quanto poi all'argomento della cosiddetta massa critica oltre la quale l'Unione non potrebbe che implodere o diluirsi in un grande e informe mercato unico, non è inutile ricordare che l'Unione a 25 rappresenta 450 milioni d'abitanti, a 40 o 42 Stati membri, sarebbero poco più di 600 milioni... Non proprio un cambiamento radicale. Tanto più che il tutto non potrebbe che avvenire a tappe: 2009, 2014, 2019, 2024 . Cosa si dovrebbe dire allora dell'India, paese-continente democratico confrontato a problemi senza alcun parallelo con i nostri! Questo Paese che ci ha appena dato una nuova e grande lezione di democrazia, conta niente meno che un miliardo e cento milioni d'abitanti. Quasi il doppio di quanti ne conterebbe un'Unione europea allargata ai Balcani, alla Turchia, al Caucaso, all'Ucraina, alla Moldavia e a Israele!

È' forse il caso di avere paura di questi 150 milioni di cittadini europei supplementari o di quegli economisti, quasi unanimi, che ci annunciano fra breve, gravi deficit di manodopera, vero e proprio incubo per i responsabili delle casse pensione, per molte imprese e istituzioni d'Europa? L'obiettivo dell'Unione europea è forse quello di incoraggiare, di fatto, l'immigrazione clandestina con il suo corteo di criminalità, oppure quello di prevedere, organizzare, inquadrare le mutazioni delle nostre società?

Infine, si dovrebbe forse preparare un'adesione della Federazione russa all'Unione europea? La risposta appartiene in primo luogo alla Russia, senza dubbio l'unico Paese europeo che disponga di una massa critica sufficiente perché una tale scelta non sia obbligata. Ma nulla vi si oppone in principio. Salvo la Russia quale la conosciamo oggi: piena di malinconie imperiali, incapace di chiudere il capitolo coloniale se non ricorrendo ai vecchi metodi di cooptazione-corruzione delle élites, di destabilizzazione o, come in Cecenia, con le armi, il fuoco, il sangue e la distruzione.

La Russia costituisce, evidentemente, una questione fondamentale per l'Unione europea. È il "suo" grande vicino. È da molto tempo un pilastro della cultura e della storia europea. È - ancora - una potenza militare. È un mercato potenziale di 145 milioni di consumatori per le imprese europee. È uno dei più importanti fornitori di gas e petrolio dell'Unione. Questo mercato, questo gas e questo petrolio non hanno tuttavia solo virtù. In nome di questi, e malgrado le gesta declamatorie, l'Unione fa passare al capitolo di perdite e profitti questioni tanto gravi quanto l'ipoteca del Cremlino sui media e sul sistema giudiziario, l'eliminazione fisica o la reclusione di personaggi ingombranti - militanti dei diritti umani, ecologisti, giornalisti, uomini d'affari, rivali politici, ecc. - e ... lo sterminio del popolo ceceno. Mentre sulla base di un preteso partenariato strategico con la Russia in materia di fornitura di petrolio e di gas, l'Unione europea si offre l'illusione di aver risolto il problema della diversificazione del proprio approvvigionamento energetico rimandando alle calende greche la rivoluzione energetica che la limitatezza delle risorse d'idrocarburi e, nel frattempo, l'esplosione del loro prezzo e i loro effetti devastanti sull'ambiente, dovrebbero imporre come la priorità delle priorità.

Già le sole questioni dello sterminio del popolo ceceno e della deriva autoritaria in corso in Russia basterebbero a dimostrare che l'Unione europea dovrebbe urgentissimamente proporre alla Federazione russa un tutt'altro partenariato strategico. Un partenariato fatto di generosità e intransigenza. Per quanto riguarda la generosità: apertura delle frontiere dell'Unione a tutti i cittadini russi (finite le interminabili procedure burocratiche che solo riescono a favorire le mafie e a ingrassare alcuni funzionari europei corrotti); creazione rapida di un'unione doganale UE-Russia; sostegno agli investimenti delle imprese europee in Russia. Dal punto di vista dell'intransigenza: esigere una riforma accelerata del sistema giudiziario e dei media russi e priorità delle priorità ... apertura sotto l'egida delle Nazioni Unite di negoziati politici con la resistenza cecena.

Perché, come affermano le autorità russe, come ha dichiarato il Presidente Putin al Financial Times, non è lo statuto finale della Cecenia che importa. Come potrebbe essere altrimenti? La Cecenia rappresenta meno di un centocinquantesimo della popolazione russa e il suo territorio meno di un millesettecentesimo del territorio della Federazione russa. Il suo petrolio costituisce meno dell'uno per cento del petrolio russo. Quanto poi ai rischi di un "effetto domino", non è ormai niente più che una fantasia da quando i Tatari del Tatarstan, che, assieme ai ceceni, avevano le maggiori rivendicazioni, hanno trovato un accordo di coabitazione con il potere centrale russo.

Se, secondo il Presidente Putin, il problema ceceno è innanzitutto un problema di sicurezza interna, quello cioè di neutralizzare qualsiasi possibilità di veder sorgere alle frontiere russe un focolaio d'instabilità, un santuario dal quale gruppi terroristici potrebbero lanciare operazioni contro la Russia, non c'è allora che un'unica questione da risolvere: creare in Cecenia le condizioni affinché vi possano fiorire democrazia, Stato di Diritto e libertà.

Niente di più di quanto propone il Presidente ceceno Aslan Maskhadov quando chiede la creazione di un'amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite in Cecenia. Ciò che assieme a lui chiedono centinaia di parlamentari, numerose personalità internazionali e circa 30.000 cittadini di oltre 100 Paesi.

Lo stabilimento di questa amministrazione internazionale come tappa di transizione verso l'adesione della Cecenia all'Unione europea potrebbe e dovrebbe costituire la postazione avanzata dell'indispensabile lotta per una nuova Europa, più larga e più approfondita, di un'Europa che si pensa simultaneamente in un nuovo processo di allargamento e in un nuovo processo di approfondimento, oltre e meglio del progetto di Costituzione elaborato dalla Convenzione.

Infatti, non è certo l'entrata della Turchia, né quella dell'Ucraina, né di tutti gli altri Paesi europei, tenuti con la forza alle porte dell'Unione, né, tanto meno, l'adesione di un Paese di un milione di abitanti e di 10.000 chilometri quadrati come la Cecenia che minaccerebbero l'approfondimento dell'Unione europea. Tutt'altro. La minaccia è, come sempre, opera di quegli Stati incapaci di mettersi al passo coi tempi, ancora nutriti di illusioni imperiali o di grandeur, che proiettano sull'Unione europea i propri sogni impolverati, che guardano a essa come a un surrogato della loro "potenza" perduta. È inoltre, ma lo si dice molto meno, l'interesse particolare di quelle circa 100.000 persone che popolano i Ministeri degli Affari Esteri dei 25 Paesi membri. Una corporazione il cui potere attuale deriva in buona parte precisamente dal processo d'integrazione europea grazie al quale è riuscita, man mano che le competenze erano trasferite dagli Stati membri verso le istituzioni comunitarie, ad accaparrarsi competenze in quasi tutti i campi della vita politica, sociale ed economica.

L'adesione di tutti questi Paesi non è certo una panacea per trovar rimedio a una moltitudine di problemi tanto gravi quanto diversi. E' pero' una necessità imperativa per garantire lo sviluppo democratico di questi Paesi, la loro sicurezza, ovvero la loro sopravvivenza, lo sviluppo democratico della Russia, perché davvero l'Unione europea incarni i valori e gli interessi che afferma di voler difendere e perché gli Stati membri dell'Unione decidano finalmente di gettare alle ortiche i vani orpelli di una sovranità ormai senza oggetto, avviando così il processo di creazione di una politica estera unica.

Per l'ennesima volta l'Europa è a un bivio. Senza la forza delle immagini del muro di Berlino che stava finalmente crollando, senza la gioia, la speranza e lo slancio che questo storico evento suscitò in coloro che venivano liberati come in coloro che li avevano troppo spesso abbandonati, bisognerà trovare forza e mezzi per una grande mobilitazione affinché queste adesioni diventino il nuovo imponente cantiere dell'Unione europea dove, ancora una volta, allargamento e approfondimento potranno completarsi e rafforzarsi reciprocamente.

Chi era politicamente irresponsabile ieri? Jacques Delors che continuava ad affermare davanti al Parlamento Europeo, nel momento in cui la Slovenia dichiarava la propria indipendenza, che la disintegrazione della Jugoslavia non sarebbe stata consentita, o Marco Pannella e i radicali che, fin dal 1983, chiedevano l'adesione della Jugoslavia alla Comunità europea?

Chi è oggi politicamente irresponsabile? Coloro che, riguardo alla Cecenia, confondendo integralità e integrità territoriale, si rifanno la bocca con le stesse formule pronte per l'uso con le quali si riempivano già la bocca all'epoca della guerra in Jugoslavia, tra le quali quella particolarmente abietta dell'integrità territoriale della Russia, quando l'integrità della Russia e del popolo ceceno, degli individui che lo compongono, della sua cultura, della sua storia, del suo territorio, sono violati giorno dopo giorno da dieci anni a questa parte? Oppure coloro che vogliono fare dell'Unione e del suo allargamento alla Cecenia il mezzo e l'obiettivo per salvare un popolo, migliaia di vite, per salvaguardare l'anima della Russia e quella dell'Unione europea?


NOTE


Dal numero 10 del 2004 di Diritto&Libertà.


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