Nairobi. Hidaya Mohammed se le ricorda ancora quelle albe vicino al fiume, quando al sorgere del sole tagliava e cuciva. Gli strumenti erano rudimentali: un ago e un coltellaccio da cucina. L’operazione casereccia, senza anestetici, né antibiotici: un taglio alla clitoride, via tutta la carne soffice intorno, i due lati della vulva rammendati con spine di acacia o, a piacere, con un impasto a base di uova ed erbe collose. Di tutto l’apparato genitale femminile esterno rimaneva solo un foro, più piccolo di una lenticchia. La pratica si chiama infibulazione, e Hidaya ne era, fino a qualche tempo fa, fiera. "Sentivo di fare la cosa giusta davanti a Dio. L’ho fatto anche alle mie tre figlie: chiudendo le loro vagine, le preparavo al matrimonio".
Non la pensa più così. Hidaya, 54 anni, si sente oggi una macellaia. Sensi di colpa la tormentano per aver mutilato il sangue del suo sangue, per non parlare delle centinaia di donne che nel corso degli anni ha tagliato sul greto del fiume che scorre vicino a Garissa, il suo villaggio nel Nordest del Kenya.
La buona notizia è che come Hadaya, molte altre "tagliatrici" professioniste africane stanno lentamente facendo arrugginire i propri coltellacci. Alcuni parlamenti hanno approvato leggi che condannano la mutilazione genitale femminile; il numero di bambine che fuggono dai villaggi per sottrarsi alla tortura si moltiplica; l’attenzione internazionale e i finanziamenti che essa porta stanno facendo il resto.
Hadaya, per dire, l’abbiamo incontrata a una conferenza organizzata dal governo del Kenya e dalla Ong italiana Non c’è Pace Senza Giustizia (fondata dalla parlamentare europea Emma Bonino). All’ordine del giorno, la ratifica del Protocollo di Maputo sui diritti delle donne, adottato lo scorso anno dai capi di stato dell’Unione Africana. Più che un convegno formale, l’incontro di Nairobi si è trasformato in una seduta di aiuto, con ex mutilatrici, vittime, attiviste, medici e politici provenienti da mezza Africa e da tanti paesi arabi.
A sentire le loro testimonianze, c’è da essere (timidamente) ottimiste. "Mi sembra che abbiamo fatto un bel passo in avanti", ci dice Bonino, che già la scorsa estate aveva messo su assieme al governo egiziano un simile raduno al Cairo.
"Il Kenya si è impegnato a ratificare gli impegni di Maputo e, soprattutto, è passato il messaggio, ripetuto un po’ da tutti, che la mutilazione è un crimine. E non c’è nessuna giustificazione tribale o religiosa che regga".
E’ stata proprio la convinzione (sbagliata) che fosse un dovere religioso, a inorgoglire per anni Hadaya e le sue colleghe pentite. L’attività era una tradizione di famiglia; fece pratica da bambina tenendo ben aperte le gambe delle piccole pazienti di sua madre. C’erano, anche, vantaggi concreti:il mestiere portava rispetto e buoni guadagni, superiori a quelli del marito cammelliere.
Poi, un giorno, si presentarono al villaggio delle attiviste dell’associazione Womankind Kenya, decise a convertirla. Le spiegarono i danni enormi, fisici e psicologici, che la mutilazione comporta. Le dissero che, a causa di essa, 135 milioni di bimbe in tutto il mondo erano state costrette a rinunciare a una vita (e a una intimità ) normale. Sfondarono il muro di Hadaya solo quando portarono, come rinforzo, gli imam di Garissa. Furono loro a farle cambiare idea. "Mi dissero che la vagina è parte integrante del corpo, che agli occhi di Allah è importante quanto gli occhi o le braccia, che tagliarla è un peccato". Gli imam andarono anche oltre: le dissero che doveva compensare tutte le ragazzine che nel corso degli anni aveva mutilato sulla riva del fiume. Ad ognuna, doveva 80 cammelli. "Per me fu uno choc. Non avevo quei soldi. Piansi. Alla fine mi dissero che se fossi riuscita a farmi perdonare da ognuna delle bambine, allora non ci sarebbe stato bisogno di compensarle".
Da allora, Hidaya non ha più toccato un coltello. E’, anzi, diventata una fervente attivista, come le centinaia di signora avvolte nei variopinti vestiti africani che hanno affollato in questi giorni la conferenza di Nairobi. La sua è una storia edificante, ma la strada rimane lunga. "Tutte, dico, tutte, in questa stanza siamo rimaste mutilate", ci dice Sahra Ali, una splendida signora Masai di perline rosse adornata. "La differenza sostanziale è una: noi siamo state infibulate. Tabula rasa. Ci hanno tolto tutto su tavoloni da cucina. Alle nostre figlie, invece, abbiamo fatto solo un taglietto sulla clitoride, su un letto di ospedale". Perché? Sahra è, oggi, la presidente di un’associazione che difende i diritti delle Masai di Narok, nel Suda del Kenya. Perché, anche lei ha tagliato le sue figlie? "Oggi non lo rifarei. Ma deve capire che questa è una pratica che ha radici molto profonde. Se si vuole sposare, una donna deve essere circoncisa, pulita. E’ opinione diffusa, che così facendo, si riduce il piacere sessuale e con esso la possibilità di adulterio. In pratica, è un’associazione matrimoniale che il maschio si compra pagando una dote più alta alle donne circoncise".