Emma Bonino ci spiega che cosa renderebbe più efficace l’ultima risoluzione sul Sudan
Roma. C’è una nuova risoluzione sul Darfur, che non sembra avere particolare verve. L’ha adottata il Consiglio di Sicurezza; al voto si sono astenuti Algeria, Pakistan, Cina e Russia. Le novità : minacce di sanzioni petrolifere e l’istituzione di una commissione d’indagine. Ma siamo già a due risoluzioni e in Sudan la situazione non sembra essere radicalmente mutata. “In Sudan è cambiato qualcosa – dice al Foglio l’europarlamentare radicale Emma Bonino – l’accesso umanitario è migliorato. A giugno c’erano 37 operatori, oggi 560”. Che cosa non è cambiato? “La parte relativa alla sicurezza: ci sono ancora rapporti di attacchi aerei del governo sudanese, seguiti o preceduti da quelli dei Janjaweed (gruppi di etnia araba che si accaniscono contro la popolazione africana del Darfur). Poco è stato fatto per affrontare l’impunità di queste bande”. I colloqui di pace, in Nigeria, sono falliti la settimana scorsa. L’Onu ha dato la responsabilità al governo di Khartoum, che si rifiuta di collaborare. Il Sudan ha dichiarato di non approvare l’ultima risoluzione, ma ha assicurato che si atterrà alle richieste. La questione è capire come un documento dell’Onu possa fermare quello che il segretario di Stato americano, Colin Powell, ha definito “un genocidio”.
“Nella situazione in cui siamo, con la Cina che ha rifiutato l’idea delle sanzioni petrolifere, bisogna rafforzare il mandato e l’autorità della forza di monitoraggio dell’Unione africana (Ua) in Darfur – spiega Bonino -. L’idea dell’organizzazione era quella di raddoppiare gli osservatori e la protezione militare. Era stato elaborato un piano: 3.000 armati a proteggere gli osservatori dei diritti umani. Si parlava di 200 milioni di euro l’anno. Ma di tutto questo non si vede traccia nel testo. Né dei blocchi dei conti all’estero e dei visti di viaggio, che avrebbero dato un ulteriore segnale. Questa risoluzione, abbastanza svuotata, ha come unica novità la richiesta di una commissione internazionale per indagare sui crimini di guerra”. E’ stato difficile arrivare ad una svolta anche a causa dell’atteggiamento dei paesi arabi: “Il governo sudanese si fa forte di un’ambiguità nel mondo arabo nei suoi confronti. Solo recentemente la Lega araba ha sostenuto, almeno con una dichiarazione, gli sforzi dell’Ua. A luglio tentennava sulla teoria del complotto giudaico-americano. Se nel mondo arabo fosse giunto un segnale d’isolamento contro Khartoum le cose sarebbero cambiate”. L’Ue non si è fatta sentire come gli Stati Uniti, che più di una volta hanno alzato la voce chiedendo un intervento internazionale in quella che è una delle maggiori crisi umanitarie da decenni, con più di un milione e mezzo di profughi e 200 mila rifugiati in Ciad. “Per ora l’Ue si è mossa dietro l’Onu. Ha mobilitato risorse economiche, si è detta disponibile a sostenere logisticamente e finanziariamente la missione di osservatori e il rafforzamento della protezione degli stessi. La Francia ha schierato i suoi militari sulla frontiera del Ciad, non soltanto a protezione degli stessi. La Francia ha schierato i suoi militari sulla frontiera del Ciad, non soltanto a protezione dei rifugiati ma anche del suo amico, presidente Idriss Déby, che cerca, violando la Costituzione, un terzo mandato. Tengono sotto controllo la crisi: in un paese fragile come il Ciad, 200 mila rifugiati sono un bel problema”. A poche ore dall’inizio dell’Assemblea generale, questa risoluzione fa pensare alle lentezze strategico-strutturali che caratterizzano l’Onu. “Il Darfur dimostra la cronica difficoltà dell’organizzazione di mettere in piedi una risposta adeguata in tempi adeguati. Per scelta politica non si è voluto vedere quello che succedeva nel marzo 2003. Il problema del peace keeping dell’Onu che è sottoposto in termini di numeri e sostegni finanziari. I compromessi e i rinvii hanno consentito le prevaricazioni da parte del governo sudanese e la ricerca del massimo consenso si è scontrata contro la necessità di mandare un messaggio forte a Khartoum. Al di là della riforma del Consiglio di sicurezza, quello che dovrebbe cambiare è la pars construens: le agenzie, il management della crisi. Non so bene cosa Kofi Annan possa fare di più. Sono gli Stati membri che vogliono un’organizzazione che non funziona. Annan potrebbe denunciarlo con più vigore, ma non ha truppe proprie”.