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Dimenticare Ventotene?
Bandinelli fa l’apologia del Manifesto di Spinelli, Rossi e Colorni

• da Il Foglio del 7 ottobre 2004, pag. 4

di Angiolo Bandinelli

Difendere il “Manifesto di Ventotene”, aderendo al cortese invito rivoltomi da Giuliano Ferrara sul “Foglio” del 23 settembre? Perché no, se “difendere” vuol dire ripercorrere, con occhio critico e senza feticismi, origine e contenuti del testo elaborato nel 1941 da Spinelli, Rossi e Colorni tra confino e guerra, ma anche i tanti straordinari eventi che attorno e grazie a quelle pagine si sono poi snodati. Non ho nemmeno bisogno di stimoli esterni: sui temi del “Manifesto”, del federalismo europeo, dell’Europa di oggi e di domani, è in corso tra noi radicali un forte dibattito, nel quale Marco Pannella ha portato il contributo di un progetto di “Stati Uniti d’Europa e d’America” che lui vede come superamento, ma anche come logico sbocco delle idee che dal “Manifesto” ebbero inizio. Nel suo “revisionismo”, Pannella ha l’ambizione di raddrizzare proprio le storture segnalate da Galli della Loggia sul “Foglio” del 21 settembre; ma prendendo un cammino ben diverso da quello che il saggista ci propone.

 

La mia copia del “Manifesto” - certo più citato che letto, non ce n’è nemmeno una edizione critica - la presi da uno scaffale del Movimento Federalista Europeo, nella sede di Piazza Fontana di Trevi, due o tre piani sotto la casa di Pertini. La frequentavamo in pochi, assediati da violenti nazionalismi: quello delle sinistre e comunista in primo luogo, che vedeva come il fumo negli occhi una Europa unita “capitalista” e “serva degli americani”; quello delle destre revanchiste, e infine quello - un arabesco di distinguo - di molti laici, scettici dinanzi alle innovazioni laceranti proposte da Spinelli. Lì si incontrarono parecchi giovani che poi hanno tutti confermato, nell’impegno politico, l’ispirazione liberale delle idee agitate dal drappello (dall’”avanguardia”, perché no?) federalista. All’epoca della CED, vidi in quelle stanze Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio; vi era passato anche il gen. Dwight Eisenhower, Comandante in capo degli eserciti alleati. Ombra di Altiero, vi si incontrava la moglie Ursula, magnifica con i suoi capelli di rame (ne fui silenziosamente invaghito), protettiva verso il marito e materna verso le sue sei figlie, tra le quali Renata Colorni e la piccola Barbara mi sono più rimaste impresse. Ti guardava dritto negli occhi, da quella limpida rivoluzionaria che era, innocentemente.

Secondo Galli della Loggia, “L’Europa non è riuscita a mettere salde radici sul terreno delle grandi mutazioni ideali e dell’elaborazione culturale da cui nascono le emozioni e i sentimenti che muovono le opinioni pubbliche”; dunque, visto che il “Manifesto” “non sembra in grado dirci molto, oggi”, bisognerà trovare qualcos’altro capace di far crescere “la base ideologica e culturale necessaria ad alimentare il progetto europeista”. Galli della Loggia elenca quindi i problemi da cui l’Europa è afflitta, “l’improvvisazione” del processo unificante, il “pervasivo regolamentarismo amministrativo”, il “pangiuridicismo”, l’ipertrofia della recente Costituzione, che ha già “praticamente deciso tutto” codificando e prevedendo ogni passo della nostra vita “per i prossimi cent’anni”, l’eccessivo allargamento della sfera dei “diritti soggettivi” e, conclusivamente, l’assenza di una “identità politica”. Ne fa discendere un perentorio “j’accuse” diretto al “Manifesto”, “troppo figlio dei tempi terribili in cui fu scritto” e dunque “dominato dal problema del totalitarismo e dalle sue cause”, peraltro “frettolosamente” individuate nella “questione” dello Stato nazionale.

Su questo punto almeno, il giudizio dei radicali è diverso, e univoco. E’ proprio in grazia di tale terribile consapevolezza che il “Manifesto” ha la sua pregnanza, che la “pietas” (cioè l’intelligenza) storica dovrebbe ben cogliere: sfrondato dal caduco, quel testo si dimostra una lucida analisi dei suoi tempi, che sono in buona misura anche i nostri. Ricorda ai dimentichi che con la lacerante guerra allora in corso l’Europa si trovava a pagare ancora una volta un prezzo esoso alla lotta per l’ egemonia continentale che per secoli aveva contrapposto Francia e Germania, Austria, Spagna, Russia, e magari la Svezia di Carlo XII. Spinelli e Rossi arrivavano alla conclusione che sul tronco dei nazionalismi storici si erano alla fine radicati i totalitarismi fascista, nazionalsocialista e sovietico: oggi, in singolare e inaspettata convergenza, Antonio Socci anche lui ci rammenta come la Francia napoleonica o la Germania nazista furono simili nel voler “unificare” l’Europa con la violenza e la dittatura. Il “Manifesto” individuava dunque un male reale e forniva una ricetta. Una ricetta politica. Non si occupava dell’identità culturale o spirituale europea né delle sue radici cristiane (in nome delle quali si tenta oggi di impedire l’ingresso della Turchia). La sua “tavola dei principi fondativi” era, correttamente, il progetto di costruzione di una realtà politico-istituzionale a livello sovranazionale. Tale intuizione, nei suoi tratti di fondo, è stata ampiamente convalidata. Poi, è vero che gli Stati postbellici non hanno visto la “degenerazione” reazionaria delle previsioni spinelliane. Ma un po’ del merito ne va attribuito alla costruzione europea, che ha dato forza agli elementi liberali piuttosto che a quelli reazionari (che tutti, nell’incerto dopoguerra, ancora paventavano). E’ vero anche che in quelle pagine circola un’atmosfera di esacerbato protosocialismo: ma nessuno deve e può dimenticare che la Grande Crisi degli anni ’20 aveva intaccato ovunque le fedi liberali, producendo negli USA il “New Deal” e la “Tennesse Valley Authority”, in Inghilterra Keynes e nel dopoguerra Lord Beveridge con il suo Welfare e le sue nazionalizzazioni. Comunque consentiamo, queste parti sono inadeguate. Sono caduche, e infatti sono cadute subito, per opera innanzitutto di Spinelli e Rossi, fedele allievo di Einaudi. Quanto alla richiesta di abrogazione del Concordato, beh, sta anche nel programma radicale…

Ma io temo che coloro che criticano il “Manifesto” siano in realtà ostili alla costruzione europea in sé, e vorrebbero magari riproporci la sovranità assoluta di Francia, Austria, Slovenia, Polonia, Germania (che già si agita per avere un suo seggio nazionale all’ONU). Di tale loro non-Europa Metternich direbbe qual che disse al suo tempo sull’Italia: “E’ solo una espressione geografica”, e notoriamente le espressioni geografiche non fanno politica. Per converso molti critici (magari gli stessi cui si deve l’obiezione precedente) accusano l’Europa di non voler assumersi responsabilità, di non voler combattere, in quanto Europa, contro i nemici della democrazia, i fondamentalismi, e così via. C’è in costoro una patente contraddizione. Scelgano: o si vuole un’Europa unita, capace di intervenire in quanto tale nelle questioni di un mondo segnato dall’emergere di formazioni politiche di livello continentale o infracontinentale come la Cina, l’India, il Brasile, dal lento ma inesorabile aggregarsi degli Stati - nelle due Americhe come in Africa - in strutture coesive più o meno blandamente “confederali” pur se non federali, e infine dalla presenza di Istituzioni infra- o sovranazionali come l’ONU, giustamente criticata ma forse ancora utile nei suoi contestati e insufficienti limiti, oppure la si smetta di aggredirla accusandola di vile impotenza e gettandole in faccia, con volontà offensiva, il paragone con l’America, tanto buona e brava quanto l’Europa è malvagia. Stiamoci attenti, peraltro: l’irridente paragone potrebbe ritorcersi contro quelli che se ne fanno una clava. Il percorso politico che a partire dal “Manifesto” si è avviato in questi cinquanta anni si è ispirato, proprio grazie a Spinelli, a quella speciale entità politica che sono gli USA, gli “United States of America” stretti in federazione (toh!) dal 1787. Spinelli puntava - piaccia o no a Fini - a una Bruxelles gemella della Philadelphia di Hamilton, Jay e Madison. Sfido chiunque a dimostrare che la lunga battaglia spinelliana e dei federalisti più rigorosi non si iscriva rigorosamente in questo quadro. Quella per l’Europa federale (che nulla ha a che spartire con l’Europa degli “europeisti”) è una battaglia del liberalismo che sa bene come le Istituzioni distinguano un paese funzionante da uno impotente.

 

L’Europa burocratica perché antifederalista, con la sua Commissione, il Consiglio degli Stati, ecc., in mancanza di fondamenta politiche chiare e responsabilizzanti si rifugia, per compensare una avvilente condizione di “nano politico”, nelle sue bardature, vantandosi di difendere diritti che sono piuttosto privilegi più o meno corporativi, e che ora la costituzione di Giscard-Amato arriva persino a dilatare. Galli della Loggia ha facile gioco quando punta il dito sull’”insieme alquanto contraddittorio delle linee guida che hanno presieduto alla costruzione europea”, oscillante tra liberalizzazioni e protezionismo, “senza obbedire ad alcun progetto né ad alcuna ispirazione generale” ma in una perniciosa “improvvisazione durata 50 anni”, con “trattati legati al mutevole interessi delle parti contraenti”. Il ritratto, ad effetto, presenta qualche falla. Come si fa a confondere quello che è stato uno scontro di poteri di dimensioni “epocali” (ne conviene anche Galli della Loggia) con una irenica “Danza delle Ore” interpretata disneyanamente da una combriccola di orsetti, passerotti, caprioli, elefantini (o erano ippopotami?) che intrecciano carole e minuetti da cui emergono istituzioni, leggi, normative e quant’altro è nel corredo dell’Europa di oggi? Non viene il sospetto che l’eterogeneità e contraddittorietà di esiti, la lamentata assenza di “ispirazione”, sia la conseguenza di battaglie, di vittorie e di sconfitte, di faticosi compromessi politici raggiunti dai diversi protagonisti che si sono confrontati nel corso del processo? Che, ad esempio, il “mutevole interesse delle parti contraenti” significhi l’interesse degli Stati nazionali restii a cedere la pur minima parte del loro potere? Il percorso istituzionale è tuttora “in progress”. Gli istituzionalisti, e in primis quelli nati dal “Manifesto”, vogliono strutture snelle ma ferme, come è in ogni buon Stato federale. Un “Superstato Europeo”, allora? Macché, basta guardare al modello americano.

 

A contrastare gli istituzionalisti c’erano e ci sono poi i funzionalisti/contenutisti fautori di una Europa costruita attorno alla gestione di settori dell’economia, ovviamente risucchiata dal “pervasivo regolamentarismo amministrativo” e dal “pangiuridicismo” che Galli della Loggia depreca. L’incertezza dei principi è anche il prodotto dei loro scontri e, ancora una volta, dei conseguenti compromessi, tutti drammaticamente politici, non fioriti su irenici balletti. Tra tanti intrecci e tanta farragine fioriscono qua e là contraddizioni positive: per esempio, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, fiore all’occhiello del funzionalismo, produsse una prima irreversibile rottura del principio della sovranità nazionale. La breccia non si è più ricucita. La nascita della CED, la Comunità Europea di Difesa, strenuamente sostenuta dai federalisti del MFE (io stesso tenni allora i miei primi comizi, nei paesi attorno a Roma, da Frascati a Montecompatri a Rocca di Papa, su un pullman probabilmente pagato dalla CIA) avrebbe fatto fare un balzo in avanti irreversibile al modello istituzionalista (per inciso: la creazione di una forza di difesa comune avrebbe forse evitato i sarcasmi sull’Europa “venusiana”, imbelle e pantofolaia). Ma la CED venne silurata dall’Assemblea francese, grazie all’alleanza tra gaullisti e comunisti. Dopo la crisi della CED si cercò di porre riparo - ancora - al vuoto di istituzioni: nel 1957-‘58 viene firmato il Trattato di Roma, che istituiva la Comunità Economica Europea. Il trattato, indicato come ulteriore prova della bontà del metodo funzionalista, consentiva fortissimi sviluppi “centripeti”, che si sono in parte anche realizzati, modificando profondamente il volto e le strutture della Comunità. Nel 1984 Spinelli proponeva un suo nuovo progetto, ma Jacques Delors, Presidente della Commissione dal gennaio 1985 e interprete dei funzionalismi nazionali, gli contrappose l’”Atto Unico Europeo” (approvato nel 1987) che avviava la libera circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi e delle persone. Queste iniziative, non tutte negative, hanno però puntato sulle strutture burocratiche, senza rafforzare il nocciolo decisionale dell’Unione. Si è sempre evitato la problematica della sovranità” (“chi governa, chi comanda?”), i pur inadeguati centri decisionali esistenti, tra Commissione e Parlamento, sono stati lentamente svuotati. E’ il processo che ha portato alla Convention Giscardian-amatiana, della quale i suoi stessi padri, come Amato, cercano oggi di prendere le distanze. Pannella contrappone la “classicità” dello Stato di diritto - alla Montesquieu - che semplifica per far sì che le gente capisca, e le logiche del potere partitocratrico (e nazionale) il quale tale classicità non tollera. Bene, la Convention giscardiana ci consegna una farragine normativa, spacciata come quella che promuove diritti, quando invece difende privilegi e corporativismi di gusto paleosocialdemocratico, alla SPD. Non lo scopre Galli della Loggia, i parlamentari radicali europei organizzarono a Bruxelles, nel dicembre scorso, un convegno dedicato alla “Riforma e controriforma dell’Europa”, e vi denunciarono vigorosamente questi mali.

 

Rifiutata credibilità al federalismo del “Manifesto”, Galli della Loggia chiede che l’Europa si dia una qualche “identità politica”. “Di questo - ammonisce - dovrebbe occuparsi, o preoccuparsi, chi intende contribuire allo sviluppo futuro dell’Europa”. Ottime intenzioni. Ma cosa significa, nel suo lessico, “identità politica”? Per noi, il termine non può non significare altro se non “soggettività politica”. Ogni altra definizione non esprimerebbe alcuna “identità” se non vagamente culturale, o meramente emblematica. Se poi si ritiene che una identità di quest’ultimo tipo possa essere più adeguata a generare le “grandi mutazioni ideali e dell’elaborazione culturale da cui nascono le emozioni e i sentimenti che muovono le opinioni pubbliche”, anche qui, benissimo: attendiamo idee e suggerimenti operativi. Comunque ci arriveremo, mozioni e sentimenti delle opinioni pubbliche saranno presto portati, grazie ai ventilati referendum, ad un grande scontro - appunto - politico-istituzionale. Una prova durissima, perché la Costituzione-Trattato, che può aspirare ad esprimere, al più, una struttura economico-gestionale, non è fatta per scaldare animi e sentimenti. Per accendere i quali ci vorrebbe una classe dirigente con volontà ed obiettivi a vasto raggio, che voglia puntare su una “rivoluzione liberale”, diciamo all’americana. Pannella ci propone i suoi “Stati Uniti d’Europa e d’America”. Sì, c’è bisogno di qualcosa del genere. Ma questo è già un altro discorso. Interessa Galli della Loggia?


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