Terzo Congresso di Radicali Italiani
Roma, 29 ottobre - 1° novembre 2004
Relazione di Daniele Capezzone
1. 2005: 50 anni di vita del Partito Radicale, 30 anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini. Una lunga e difficile fecondazione eterologa -riuscita- della società italiana, del suo vissuto più profondo. La reazione dell’Italia “ufficiale”.
Per altro verso -ecco il secondo anniversario- il trentesimo anno dalla morte di Pier Paolo Pasolini. E (con l’unica eccezione di Giuseppe Zigaina, eterodosso e bandito, cioè messo al bando, come eterodosso e bandito fu Pasolini, e come lo siamo noi, e per le stesse ragioni), c’è da attendere con angoscia -dico bene: letteralmente con angoscia-, tra dodici mesi, il triste rosario delle celebrazioni, delle commemorazioni pasoliniane, da parte di chi ne fu parassita in vita, e continua ad esserlo post mortem, da parte dei tenutari ufficiali di una memoria monca e alterata, costantemente adattata e abbassata alle esigenze e agli interessi dell’autoproclamato celebrante, cioè del piazzista di turno. Scrisse Leonardo Sciascia che l’Italia deve la conservazione della parte residua del suo patrimonio artistico, in particolare architettonico, piuttosto all’incuria -la quale sa essere, a suo modo, “rispettosa”, o quanto meno “equa”- che non a certe forme di “restauro”. Ecco, a me pare che, per Pasolini, sia venuto il momento di chiedere, innanzitutto ai Nico Naldini, agli Enzo Siciliano e a tutti gli altri, che, con un po’ di pietas, e insieme con un sussulto di dignità , inizino a sperimentare, a tentare la strada del silenzio…
E’ a partire da questa chiave che intendo affrontare quello che considero l’elemento centrale di questa relazione: la questione della legalità e della democrazia nel nostro paese. Se c’è -e c’è- necessità di un medico che trovi il coraggio di dire: “Questo è cancro” (e parlo proprio del meccanismo tumorale, cioè di un meccanismo che cambia, che fa impazzire il modo in cui le cellule nascono e crescono), se l’Italia è, a mio avviso, a questo punto, tutto ciò non accade per nequizia o sadismo di qualcuno, e neppure -meno che mai!- per ragioni “storiche” e “culturali”, perché questo è il paese di Machiavelli. A parte il fatto che questo è soprattutto il paese di Guicciardini, e che, prima o poi, invece, bisognerà restituire la verità di Machiavelli (che non è affatto “machiavellico”: quanti sanno che interi capitoli de “Il Principe” sono dedicati alla differenza tra la conquista del potere compiuta attraverso il “merito”, la “virtù”, e quella avvenuta per effetto della “violenza” o del “caso”?), a parte questa digressione, che scuserete, il problema è tutt’altro. Ripeto: né “storico-culturale”, né di “nefandezza collettiva” delle classi dirigenti. Il problema è di necessità . Le classi dirigenti di questo paese hanno avuto e continuano ad avere una spasmodica, tremenda e assoluta, necessità di illegalità . Per sopravvivere, per non morire, per non essere battute e travolte.
E’ la storia di trent’anni di “corpo a corpo” (non riesco a trovare immagine più pertinente) tra chi cerca con ogni mezzo (innanzitutto, la seconda scheda “costituzionale”, quella referendaria) di far esprimere quelle maggioranze, e una classe dominante che sente l’incalzare del pericolo e si muove di conseguenza. Poi, l’idra ha molte teste (di volta in volta, quella “Dc-Pci” del compromesso storico; quella “pentapartita” con le “opposizioni” a supporto nella difesa del sistema comune; quella del “blocco burocratico e anti-produttori” che unisce, nel parassitismo e nel privilegio, certa Confindustria e certo sindacato; infine, quella del Polulivo…), ma, sia pure con testa e tentacoli di volta in volti diversi, il mostro reagisce in un solo modo: arginando o cercando di arginare una minaccia che ritiene giustamente letale, cioè quella della rivoluzione liberale possibile.
Così va interpretata la giurisprudenza della Corte costituzionale, che, come ho detto, ha vanificato in partenza il “50%+1” delle richieste referendarie (45 su 89): non va letta, anche qui, in termini di successione di giudici corrotti, ma va -letteralmente- apprezzata e compresa nel suo affastellarsi, nella sua progressione. Non guardate i singoli “punti”, guardate la “curva”, la sua “traiettoria”: vedrete, nel “corpo a corpo”, l’idra che risponde “colpo su colpo”, che a nuova domanda, a nuovo tentativo, a nuovi argomenti, risponde con nuovo diniego, nuova illegalità , nuova escogitazione giuridica.
Starei per dire a me stesso: non divagare. Ma, in realtà , in questa introduzione c’è l’essenziale, e la divagazione rischia di essere il resto.
Occorre, quindi, molta flessibilità e molta fantasia: molta disposizione a tessere, a costruire politica, senza pregiudizi. A titolo di esempio, voglio ricordare una pagina tutt’altro che ingiallita, ai miei occhi: quella del 1994, anno a cui il prossimo 2006 delle politiche potrebbe anche assomigliare, per alcuni versi. Dieci anni fa, una strategia complessa determinò l’appoggio del Polo della libertà a sette candidati radicali, a sette nostri compagni, poi eletti in altrettanti collegi uninominali, ed entrati -come componente dei Riformatori- nei gruppi parlamentari di Forza Italia. Contemporaneamente, Marco Pannella si candidò in un collegio romano contro Gianfranco Fini: e non fu solo una scelta emblematica, ma un’iniziativa volta ad orientare l’evoluzione possibile di un centrodestra magmatico in una direzione diversa, che la sinistra, peraltro, sabotò con due candidati di disturbo (uno solo le parve poco…); e a quella stessa logica corrisposero per un verso la nostra offerta (rifiutata) di appoggio -nel sud- a tutti i candidati uninominali dei progressisti che non fossero stati espressi dalla Rete di Orlando o da Rifondazione comunista, e per altro verso la proposta -a partire dall’Italia centrale- di costituire uno schieramento terzo, con Segni, Amato, Martinazzoli, i quali, a loro volta, con scarsa lungimiranza, lasciarono cadere quell’opportunità .
Occorre una simile ambizione di tessitura politica, facendo tesoro della grande carta referendaria, a cui si aggiunge la gigantesca occasione rappresentata da quanto è accaduto a Strasburgo, e che potrebbe indurre il Governo (e l’opposizione, perché, nei loro diversi ruoli, la cosa vale sui due fronti) a riaprire la partita della Commissione europea. Perché nessuno prende l’iniziativa di riaprire il “caso Bonino”?
Ed è bene avere chiaro che le intese, tanto improbabili -ad oggi- quanto massimamente da ricercare, devono, dovrebbero (perfino al di là dei precisi segmenti o punti di accordo) prevedere una evidenza nostra perfino “scandalosa”. Se (lo ripeto: è improbabile, e proprio per questo è cosa da coltivare, da ricercare, da costruire) intesa ci fosse, l’”evento” di un accordo con i radicali dovrebbe essere presentato come tale, in modo da raggiungere il 100% degli elettori, per sperare di determinare un fatto nuovo, o -se preferite- due fatti nuovi: per un verso, il passaggio nostro dalla dimensione del 2 a quella dell’8% (sapete da tempo la mia opinione sul fatto che il livello del 4% ci è -per così dire- precluso: o la comunicazione non passa, e allora è 2%; oppure, invece, passa, e può determinarsi una grande sorpresa); per altro verso -e sono le due facce della stessa medaglia- una ripresa di forza delle potenzialità liberali di uno schieramento (e quindi, in prospettiva, anche dell’altro).
Se le cose stanno così, mi si permetta: piuttosto che inventarsi ricostruzioni fittizie, e su quella base costruire contrapposizioni prevedibili, mi parrebbe saggio -per ciascuno- fare tesoro della linea che abbiamo seguito, e che si è rivelata positiva, e contribuire -semmai- ad arricchirla, ad irrobustirla, ad articolarla, ad affinarla. Non tanto (cosa legittima ma a mio avviso un po’ sterile) a contrapporvisi per partito preso, per ritagliarsi un ruolo.