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Laos, quel che nessuno racconta

• da L'Opinione del 24 dicembre 2004

di Olivier Dupuis

 

Fatti d’inverno. Nell’ottobre scorso due criminali sono stati “liberati” dalle autorità laotiane. Arrestati nell’ottobre 1990, erano stati condannati, due anni dopo, a 14 anni di prigione, da un “tribunale popolare”. Come si deve. All’epoca erano in tre. I capi fila di un movimento rivoluzionario e sovversivo. Uno di loro, Thongsouk Saysangkhi, è morto nel 1998. In prigione.

 

Alti dignitari del regime all’epoca del loro arresto, Thongsouk Saysangkhi era vice-ministro delle Scienze e delle Technologie, Latsami Khamphoui, già vice-ministro dell’Economia e della Pianificazione e Feng Sakchittaphong, alto funzionario del ministero della Giustizia, erano in realtà affondati nell’eresia fondando, qualche tempo prima, un “Club social-democratico” che riuniva una quarantina di incoscienti che criticavano il sistema del partito unico.

 

Graziosamente “scarcerati” nell’ottobre scorso, al termine della loro pena (scontata per intero), hanno ancora potuto beneficiare delle attenzioni del regime per altri due mesi. Il tempo, probabilmente, per riprendere qualche chilo e la giusta misura con il regime tuttora vigente. Una volta più presentabili e una volta concluso il vertice dell’Asean, il 3 dicembre hanno ritrovato le loro mogli (una delle quali lavora all’ambasciata di Francia) e le loro famiglie a Vientiane.

 

Il 16 dicembre, sono arrivati a Parigi. Dove sono stati “accolti per ragioni mediche e umanitarie”. Premurosa precisione del portavoce del Quay d’Orsay, il quale aggiunge che i due oppositori laotiani “seguiranno, in ambiente ospedaliero, i trattamenti medici appropriati a loro stato di salute per la durata necessaria alla loro cura”. Altri hanno avuto meno fortuna (tutto è relativo). Come quegli studenti scervellati che organizzarono, il 26 ottobre 1999, una manifestazione a Vientiane che chiedeva la democrazia, la fine della corruzione, il diritto all’educazione e alla salute per tutti. I manifestanti furono bloccati prima ancora di aver potuto iniziare la loro marcia pacifica.

 

Almeno cinque di loro furono arrestati, altri riuscirono a fuggire e ad attraversare il Mekong a nuoto. Pare che furono condannati a 20 anni di prigione, ridotti a 10 anni per tre di loro e a cinque anni per gli altri due. Ma questo non ha niente di ufficiale. Le loro famiglie non sanno tutt’ora nulla. Aspettano. Uno di loro, Khamphouvieng Sisa-At, non concluderà la sua pena. E’ morto nel 2001. In prigione. Gli altri, Thongpaseuth Keuakoun, Seng-Aloun Phengphanh, Bouavanh Chanmanivong e Keochay usufruiscono ancora del confort delle celle delle prigioni di Vientiane.

 

A qualche centinaio di chilometri da lì, nel centro del Paese e lungo la frontiera vietnamita, migliaia di Lao-Hmong, circa venti mila ripartiti in una trentina di gruppi secondo alcune fonti, vivono un’interessante esperienza di autarchia. Si nutrono di fibre e di corteccia bollite. Per forza di cose e dei soldati del regime di Vientiane hanno optato per il nomadismo, spostandosi di campo distrutto in campo tra poco distrutto. Da più di ventinove anni. E’ vero che hanno un grosso peso sulla coscienza. Hanno fatto parte (piuttosto i loro padri o i loro nonni) prima delle truppe di elite francesi, poi di quelle americane. Quindi vagano nella giungla.

 

L’anno scorso due giornalisti europei, Thierry Falise e Vincent Reynaud, ed il loro interprete, Naw Karl Mua, li hanno incontrati, prima di essere arrestati. Dopo un mese di detenzione e molte manovre, le autorità laotiane, magnanime, hanno concesso il loro rilascio. Le loro guide, Thao Moua, Pa Fue Khang e Va Cha Yang sono rimaste lì. In prigione. Almeno si spera! Quest’anno, due reporter della Bbc, Ruhi Hamid e Misha Maltsev, hanno avuto più fortuna. Li hanno incontrati e sono poi tornati. Senza arresti. Occorre vedere il loro filmato “Day of War: Frontlines”. Assolutamente. E bisogna anche farlo vedere.

 

L’Unione Europea è il primo cliente del Laos. Poco più del 25% delle esportazioni del Paese sono destinati ai Paesi dell’Unione. Paese poco popolato (5,3 milioni di abitanti) tra i più poveri dell’Asia, il Laos è anche il destinatario di molti progetti di cooperazione, di cui è difficile valutare gli effetti sulle popolazioni locali. Non sui dirigenti che apprezzano molto le inaugurazioni con orchestre, nastri rossi, pacche sulle spalle con i ministri occidentali e i dovuti servizi della televisione di Stato. C’è il legno ed il suo traffico. Le pietre preziose ed il loro traffico. La droga anche.

 

Siamo nel triangolo d’oro. Ma se ne parla poco, perfino negli ambienti internazionali. Con un po’ di attenzione, se ne possono vedere i riflessi nelle grosse ville che sorgono qua e là a Vientiane. C’è anche l’oro bianco. O almeno presto. Quando Edf e Ital-Thai Development saranno riusciti a convincere tutti quelli che bisogna convincere al Quai d’Orsay (dovrebbe andare), alla Farnesina (dovrebbe andare anche li), alla Banca mondiale (si presenta bene) della fondatezza del loro progetto di megacentrale idroelettrica e del suo costo: un buon miliardo di dollari.

 

Tre (ne sono rimasti due per la verità) eretici social-democratici incarcerati per 14 anni: via, l’Unione Europea non vede, non dice, non fa. Cinque studenti scervellati (ne sono rimasti quattro per la verità) condannati a 20 anni di prigione per manifestazione pacifica: via, l’Unione non vede, non dice, non fa. Tre guide arrestate mentre accompagnano dei giornalisti europei: via, l’Unione non vede, non dice, non fa. Venti mila (20.000) Lao-Hmong perseguitati da quasi trent’anni: via, l’Unione non vede, non dice, non fa… L’Unione fa della cooperazione



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