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L'umanità smarrita in balia degli eventi

• da L'Opinione del 6 gennaio 2005

L'immane tragedia che ha colpito il Sud Est asiatico ripropone antiche domande che puntualmente, da quando esiste l'umanità, tornano con uguale drammaticità al verificarsi di calamità naturali. Ci s'interroga sul senso del dolore e sul significato di certi accadimenti, addebitando, a seconda delle convinzioni personali, la responsabilità degli eventi a Dio o agli uomini, alla natura leopardianamente "matrigna" o alla fatale casualità. Sarebbe semplicistico e superficiale dare una risposta univoca anche perché proprio davanti alla visione della morte, di vite recise e straziate, di occhi sbarrati per sempre nel vuoto o attoniti o, ancora, gonfi di lacrime senza alcuna possibilità di consolazione ogni assolutezza cade rovinosamente, si rompe, si frantuma.

Non si tratta di assolvere o condannare Dio o l'uomo. Entrambi sono innocenti tanto quanto recano in sé traccia di colpevolezza. Entrambi, ognuno ovviamente secondo le proprie capacità e le proprie differenti aspirazioni, intervengono nel corso della storia, anzi si fanno essi stessi storia e, quindi, natura ("naturans", cioè in divenire, e "naturata", cioè conclusa, compiuta). Se poi andiamo un po' più a fondo l'ateo non ha elementi per giudicare Dio, se non altro perché ne ha spavaldamente negato esistenza e dignità, ma allo stesso modo chi si professa credente non può permettersi di imputare alcunché all'uomo sia perché non gli farebbe onore adottare scorciatoie di comodo, sia perché, in qualsiasi prospettiva ci si voglia mettere, colpire l'uomo equivale ad assestare fendenti a Colui che lo avrebbe fatto a sua immagine e somiglianza o che, comunque, lo pervade.

E', dunque, colpa del male? Non solo se si ritenesse questo si cadrebbe nuovamente nell'assolutismo ma si negherebbe una realtà che i mistici di tutte le epoche e di ogni cammino spirituale sanno e cioè che bene e male coabitano in Dio, e di conseguenza nell'uomo, perché sono parti costitutive della libertà di creare, di formare, di essere. Può il male essere, quindi, così potente, così forte e illimitato da piegare alla sua volontà il bene, umiliandone l'azione? Se così fosse il male sarebbe assoluto e non relativo.

Dal momento che il mondo non può essere, però, retto da principi statici e assoluti perché ciò equivarrebbe all'esclusione, anche solo ipoteticamente, di qualsiasi tipo di evoluzionismo, se ne deduce che neanche il male, inteso in senso metafisico, possa essere ritenuto interamente responsabile della catastrofe. E allora? Il problema non sta tanto nella causa, nell'origine ma nel suo dispiegarsi. Se ci si arrocca su posizioni prestabilite e, non importa se da atei o credenti, si guarda all'universo sotto la lente della fissità, di convinzioni atte a interpretare rigidamente ciò che storicamente avviene, incasellandolo in stereotipi, non si va da nessuna parte.

Ciò che, invece, è essenziale è comprendere perché la natura abbia seguito una direzione anziché un'altra, perché la storia abbia improvvisamente conosciuto un brusco arresto in una zona geograficamente individuata, in un'area determinata nonostante la vastità. E' qui che l'analisi da metafisica deve necessariamente convertirsi in politica e non per offrire via di fuga al dolore e dal dolore, a e da quella sofferenza che tutti ci coinvolge e sconvolge, ma per intravedere uno spazio d'apertura, una piccola cruna attraverso cui la speranza di riscatto può transitare e incarnarsi.

Sia che ci si ponga dalla parte di Dio che da quella dell'uomo, ammesso che possa darsi una banale e artificiosa contrapposizione tra i due, non si può negare che in ogni ambito è essenziale la libertà, come modalità d'essere e d'esperire. La natura conosce la sua libertà e il tragico, purtroppo, ne è un aspetto.

Francesco Pullia



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