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Vaticano, struzzi e referendum

• da L'Indipendente del 19 gennaio 2005

di Benedetto Della Vedova

Il Presidente della CEI, Cardinale Ruini, ha, va da sé, la libertà di dire quello che crede e anche di invitare i cattolici italiani a quella o a quell’altra scelta politico-elettorale. Tra l’altro, siamo oggi agli antipodi dell’ottocentesco divieto ai cattolici di partecipare alla vita politica nello Stato Liberale: Ruini opera oggi come il capo di una potente agenzia del consenso che si propone di assicurare che su alcuni obiettivi i deliberati istituzionali - le leggi - coincidano con i propri “interessi”, in questo caso i “valori” predicati e propugnati. Nulla di strano che la Chiesa scelga così di entrare nell’agone politico come una qualsiasi lobby, anche se assai particolare soprattutto in Italia (tra l’altro, una delle affermazioni di Ruini, l’auspicio di un confronto aperto sui media italiani nella campagna elettorale referendaria è pienamente condivisibile).

Il che, naturalmente, non significa che le parole di Ruini non vadano analizzate e discusse o possano essere giudicate irrilevanti. Credo si possa dire che quelle parole non siano le parole di una Chiesa trionfante, ma di una Chiesa perdente. Evocare la possibilità che la Chiesa scelga, in modo militante, di invitare i fedeli all’astensione nel referendum che chiede di abolire le parti peggiori della Legge 40 sulla fecondazione assistita equivale a riconoscere che le posizioni della Chiesa sono minoranza nel paese. E a riconoscere che nelle maggioranze parlamentari a favore di leggi che recepiscano la dottrina della Chiesa prevalgano gli opportunismi - la speranza di intercettare il voto cattolico: una specie di chimera che tutti inseguono - e non le convinzioni degli eletti riflettenti le opinioni dell’elettorato. Chiedere l’astensione nel referendum è tanto legittimo - lo hanno fatto i sindacati, altra potente agenzia del consenso - quanto pavido. Siamo lontani da quel “sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no” che pure dovrebbe ispirare anche i Vescovi. La Chiesa “astensionista” sul referendum sarebbe una Chiesa che si sente perdente nel paese ma non ammette la sconfitta. Una Chiesa che riconosce di essere divenuta minoranza ma che non rinuncia ad usare politici spregiudicati per imporre comunque la sua visione. Una Chiesa che punta su èlite compiacenti piuttosto che sul consenso dei fedeli per vedere affermate le proprie convinzioni profonde.

Per la Chiesa in questo referendum sono in gioco questioni ritenute oggi fondamentali (....la storia ci insegna che potrebbero non esserlo più in un futuro non lontano), come la difesa assoluta della vita dal suo concepimento. Pur non ritenendo che le questioni sollevate siano irrilevanti, sostengo che il legislatore liberale non debba cercare con una Legge di proporre i imporre il “bene” o la “verità”, bensì di scegliere quello che realisticamente sia il meglio per una società di liberi e responsabili in un dato momento storico. La legge invece afferma che le convinzioni di alcuni debbano valere “erga omnes” limitando comportamenti e scelte che invece in Europa sono disciplinati ma permessi. Sulle conseguenze, più che sulle premesse, della legge 40 ci si dovrebbe confrontare. Tant’è. I referendari hanno la strada in salita. A loro spetta l’onere della prova che il legislatore ha mal interpretato le convinzioni degli italiani. La Chiesa accetti il confronto aperto e il giudizio degli elettori, laici e cattolici. Se il voto dovesse confermare la Legge vorrà dire che avrà avuto ragione lei. Ma una Chiesa che si rifugiasse nell’astensione renderebbe un cattivo (anche se legittimo) servizio all’Italia laica e a quella religiosa, che invece meritano di confrontarsi come accaduto in passato. Non fosse altro per capire che su questi temi le convinzioni non sono a compartimenti stagni ma s’incontrano e si scambiano di posizione; con arricchimento reciproco.



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