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Clandestino e gay Non va espulso
Sentenza del giudice di pace di Torino su un giovane senegalese «Per l’orientamento sessuale nel suo Paese rischia il carcere» Il ministro Calderoli: l’Italia paradiso dei terroristi e dei finocchi.

• da La Stampa del 4 febbraio 2005, pag. 6

di Francesca Paci

Ora che ha ottenuto l’ambito permesso di soggiorno Mohammed non dimentica la comunità senegalese di Torino che per un anno e mezzo ha coperto la sua clandestinità, ma festeggia l’evento con il compagno italiano: ha evitato l’espulsione solo perché preferisce gli uomini alle donne e la giustizia di Dakar, su questo, usa la mano pesante. La sentenza rivoluzionaria è stata firmata poco prima di Natale dal giudice di pace Giuliana Bologna. Secondo la nuova interpretazione della legge Bossi-Fini, non può essere rimpatriato lo straniero omosessuale proveniente da un paese in cui l’essere gay viene punito con il carcere o la morte. Novantacinque stati, calcola Amnesty International. Dall’Egitto, dove nel 2003 ventuno giovani “diversi” sono stati condannati a tre anni di lavori forzati, alla pena di morte di Iran, Arabia Saudita, Nigeria.
La vicenda, che risale ad alcuni mesi fa, è stata resa nota ieri dall’attivista per i diritti civili dei gay Paolo Hutter e dall’avvocato Maurizio Cossa, promotori del ricorso. Sono loro a raccontare la storia di un giovane senegalese che ha vinto la sua battaglia ma rimane in ombra perché i connazionali immigrati sarebbero probabilmente meno comprensivi della legge italiana. Il Senegal è un paese musulmano e il Corano non tollera di buon grado la dimensione omosessuale, come racconta la scrittrice ugandese e lesbica Irshad Manji nel libro «Quando abbiamo smesso di pensare? Un’islamica di fronte ai problemi dell’Islam».
Mohammed, 24 anni, qualche lavoretto saltuario qua e là dall’edilizia ai trasporti, viene fermato il 4 ottobre scorso. Abita a Torino da alcuni mesi, come molti extracomunitari è passato attraverso la frontiera francese munito solo di un visto turistico e un indirizzo di improbabili zii. La Prefettura certifica l’espulsione e il questore concede cinque giorni di tempo per fare i bagagli. Mohammed si rivolge al suo legale, spera in una proroga, ignora che l’orientamento sessuale di cui non fa alcuna mostra possa rappresentare una chance. Invece, l’avvocato Cossa impugna direttamente la Bossi-Fini: «Il comma 2 dell’articolo 17 consente di chiudere un occhio con donne in gravidanza, minori, stranieri con il coniuge italiano. L’omosessualità non è annoverata tra le eccezioni, ma il comma 1 stabilisce che non può essere espulso chi, in patria, rischi persecuzioni per motivi di razza, sesso, religione, opinioni politiche». Non ci sono precedenti del genere in Italia. Solo due palestinesi, entrambi gay, erano stati graziati alcuni mesi fa dal tribunale di Varese per un vizio di forma nel procedimento d’espulsione.
Le associazioni per i diritti civili esultano. «Sentenza storica», proclama l’Arcigay. E mentre Paolo Hutter lancia provocatoriamente la proposta di istituire «numeri verdi per far sapere ai clandestini omosessuali che possono ottenere per questo il permesso di soggiorno», l’eccezione di Mohammed rischia di accendere la polemica in Parlamento. Il leghista Roberto Calderoli non esita: «Povera giustizia, povera Italia. Un tempo decantata come terra di santi, poeti e navigatori, trasformata in terra paradiso per terroristi e finocchi irregolari». Una posizione duramente stigmatizzata dal responsabile immigrazione della Margherita Giannicola Sinisi, che chiede al premier Silvio Berlusconi di prendere distanze dal collega di schieramento. Scaramucce politiche a parte, la sentenza della Bologna pone degli interrogativi. Chi impedirà ora che migliaia di extracomunitari si accalchino davanti alle Questure richiedendo la regolarizzazione in virtù delle proprie preferenze sessuali? I tabù, secondo Hutter: «Quando in Italia si poteva evitare il servizio militare autocertificando di essere gay, c’erano pochissime richieste, alcune decine ogni anno. Figuriamoci se uno straniero sbandiera tanto facilmente la propria omosessualità». La decisione di concedere il permesso spetta comunque al giudice di pace. Per Mohammed è stata risolutiva la testimonianza del suo amico, un medico italiano che ha lavorato anche con Medicin Sans Frontiere e da vent’anni di occupa di Africa francofona.

 

 

 



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