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Code di paglia
Vi compiacete di dire pane al pane e vino al vino e poi se una ministra dice "down" vi scandalizzate

• da Il Foglio del 21 aprile 2005, pag. 4

di Luigi Manconi

Il linguaggio politicamente corretto è il canone — a volte efficace, a volte velleitario — assunto dai movimenti dei "pride". E' fatale: quanti vogliono ribaltare lo stato presente delle cose sanno che chi dà loro il nome — chi denota le cose — esercita, sulle cose, il potere ("A ciascuno diede il suo nome..."). Per questo, ogni conflitto di identità è, da subito, guerra di nomi. Di nomi che identificano e autoidentificano: per affermare il proprio, di nome — quello scelto — contro quello imposto. L'etimologia di identità deriva, infatti, da idem: ovvero
PROPRIO QUELLO (quello stesso). Le conseguenze sono numerose. Se io faccio lo spazzino e ricevo un salario miserabile e decido di battermi per aumenti economici, è probabile che mi impegni anche per non essere più chiamato "spazzino": perché la carica denotativa di quel nome può risultare intollerabile e si porta appresso un peso denigratorio di cui voglio liberarmi.
Se chiedo di essere chiamato "operatore ecologico", commetto un errore di comunicazione: ma questo non giustifica il fatto che tanti buontemponi si scompiscino al solo sentire quella formula. Non so se ci avete fatto caso, ma contro questi e altri eufemismi più o meno opportuni e più o meno felici, protestano solo ed esclusivamente coloro che non c'entrano affatto (e che non si imbarazzano a scrivere, che so?, "duri e puri" o "buonista", quasi non fosse mille volte più sciatto). Avete mai visto un handicappato protestare contro l'uso della
formula (anch'essa certamente non bella) di "diversamente abile"? No: a protestare, sono esclusivamente i simil-albertiarbasini, spiritosissimi e tonicissimi uomini di mondo, frequentatori delle beauty farm di Merano.


Il Foglio ha fatto della lotta al politicamente corretto la sua ragion d'essere e il suo tic, la sua cifra stilistica e la sua mission (e scrivere “mission", lo ammetto, è come  scrivere "duri e puri"). E si compiace, un po' fanciullescamente, di dire pane al pane e vino al vino, e di "chiamare con il loro nome" le attività corporali e quelle sessuali, come un Calderoli qualsiasi o un adolescente brufoloso al Mc Donald's. Ma poi, inopinatamente, lo stesso Foglio si scandalizza se Stefania Prestigiacomo paventa il rischio che — nella discussione pubblica sulla fecondazione assistita — si possano strumentalizzare "anche i down che suonano il pianoforte". Conosco la questione, per ragioni private, e sono tra coloro che — a determinate condizioni — ritengono non inutile mostrare le "diverse abilità" di chi soffre di un handicap. Ma qui non si sta parlando di questo. Qui si parla di un aspro conflitto politico, che vede saldarsi un asse Giovanardi-Foglio, disposto a utilizzare l'immagine del Terzo Reich contro i critici della legge 40 e contro chi ritiene possibile sospendere l'alimentazione e l'idratazione artificiali a Terri Schiavo. Questo è il contesto. In tale, come dire?, temperie culturale, la Prestigiacomo — da posizioni critiche nei confronti della legge sulla fecondazione assistita - denuncia il rischio del ricorso ad armi improprie. E lo fa motivatamente, va detto, se l'arsenale dialettico previsto dal "fronte del No" oscilla tra la letteratura dei Comitati civici e quella di un pulp di Ittiri (provincia di Sassari), tra Grand-Guignol e Romero (non l'arcivescovo Oscar Arnulfo, ma il regista George Andrew). Se questo è il quadro, c'è davvero il rischio che i ruoli — delicatissimi e cruciali di Luca Coscioni e di Loris Brunetta vengano piegati a fini osceni (anche qui, secondo etimologia). E' assai importante, invece, che i corpi di Coscioni e Brunetta possano "stare" nel dibattito pubblico, se così vogliono i diretti interessati: e a quel dibattito possano offrire, da posizioni diverse, il loro prezioso contributo. Oggi, infatti, la discussione pubblica e la decisione politica
riguardano propriamente quei corpi: e i corpi di tutti. La politica non ne può prescindere — e sempre meno ne potrà prescindere in futuro — perché indotta (dallo sviluppo della Tecnica, innanzitutto) a trattare e a ridefinire le categorie primarie e fondative del legame sociale: vita e morte, nascita e dolore, biografia e memoria. La politica, dunque, ha bisogno del corpo: per "sentire" e farsi sentire. Del corpo malato e di quello impotente, del corpo che desidera e
di quello che rinuncia: perché, come ha scritto Beppe Sebaste (l'Unità del 4 aprile), suonano "insopportabili le parole pubbliche di chi, in un'illusione di immunità, parla e scrive come se non avesse un corpo, come se non fosse capace di morire, cioè di vivere". Ma se questo è "il livello dello scontro", come fa Giuliano Ferrara a scrivere che il presidente del Consiglio "dovrebbe liberarsi in una serata" della Prestigiacomo? Perché non chiedergli, allora, di "liberarsi" della sua propria moglie, che ha, sul referendum, le medesime posizioni del ministro
delle Pari opportunità? (Ah, a proposito, probabilmente non avete saputo di quell'intervista di Veronica Lario al Corriere della Sera, dal momento che—mi pare — non ne avete dato notizia... Eppure anche lì si parlava del corpo e dei suoi limiti).


2. Titolo del Foglio di venerdì 15 aprile: "Solito muro di gomma per l'intervista alla Fallaci, a parte i nostri lettori". Ci si riferisce, presumibilmente, al fatto che l'intervista del 13aprile non ha suscitato alcuna discussione pubblica: e si affaccia una qualche teoria del complotto, diciamo così, culturale. E se, invece, considerassimo l'elementare ipotesi che — a prescindere dall'indubbia bravura di Christian Rocca e dai suoi eroici sforzi — quella della Fallaci fosse
"una boiata pazzesca"? (E io che l'ho letta tutta tutta...).



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