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Parla Piero Dorazio, una sua retrospettiva a Locarno - la mia difesa dell'astratto
Il periodo americano, i rapporti con Pollock e De Kooning, le svolte italiane a cominciare dalla scoperta della Pop art.

• da La Repubblica del 16 febbraio 2004

di Paolo Vagheggi

È costretto su una sedia a rotelle Piero Dorazio a causa di un lungo periodo di malattia. Sta però migliorando e non ha perduto l´ironia: «Questa è una tortura che doveva finire nella Commedia di Dante. Ma forse a quel tempo non c´erano sedie a rotelle». E non ha perso lo spirito polemico che ha segnato tutta la sua tumultuosa esistenza, segnata da viaggi, incontri e amicizie con artisti come Arp, Miró, Léger, Pollock, De Kooning o Barnett Newman. Difende sempre, con foga, la pittura astratta, scaglia strali contro la Biennale di Venezia, contro la mercificazione dell´arte, contro la Galleria nazionale d´arte moderna di Roma.

È lunga la storia di Dorazio che ormai ha 77 anni. Negli anni Cinquanta è stato artista "errante", pronto a correre a Parigi o a New York, ma sempre legato a filo doppio alla natia Roma e agli italiani, a Consagra, Sanfilippo, Turcato, al gruppo "Forma 1" fondato nel 1947, risposta al "realismo socialista" di Guttuso.

È una storia che oggi racconta una retrospettiva allestita a Locarno, nella Pinacoteca Casa Rusca (dal 22 febbraio al 30 maggio) e in un volume che la casa editrice Skira ha da poco mandato in libreria, Piero Dorazio. La formazione artistica di Annette Papenberg-Weber, che è anche la curatrice della mostra. La scelta di Locarno non è casuale. Negli anni della gioventù Dorazio si recava spesso nella città svizzera per incontrare Jean Arp, che vi soggiornava, così come sono state significative l´amicizia con il pittore e pioniere del cinema astratto Hans Richter, anch´egli di stanza a Locarno, nonché la collaborazione con la stamperia d´arte Lafranca.

Insomma è il ritorno a una seconda casa anche se fu Roma il centro di ogni battaglia, il luogo in cui si predicava un´arte «insieme formalista e marxista». Racconta Dorazio: «Alla fine della seconda guerra mondiale in Italia, da un punto di vista artistico, c´era quasi il vuoto. C´era la Scuola Romana, è vero. Ma nient´altro. L´idea di unire formalismo e marxismo fu del nostro gruppo, di Forma 1. Venne da Ripellino con cui studiavamo i formalisti russi, la cultura della sinistra russa della rivoluzione e prima della rivoluzione. Il resto era figlio di quel poco che conoscevamo della tradizione europea moderna».

Fu un´idea molto osteggiata?

«Piuttosto che provare a conciliare il marxismo con il formalismo cancellarono tutto. Fu Togliatti, furono i comunisti italiani non moderni. C´erano anche dei comunisti moderni, e non pochi, ma erano messi la bando. Amendola non era ostile. Di Guttuso è inutile parlare: era il nostro nemico numero uno. Io a quel tempo ero iscritto al partito socialista. Ma quelli che erano iscritti al Pci, come Consagra o Turcato, furono più volte chiamati per rendere conto di queste "deviazioni". Ci fu sempre una grande ostilità nei nostri confronti tanto che a nessuno di noi fu affidato un insegnamento. Solo Turcato insegnava, ma perché gli era stato assegnato un posto di assistente di Consagra fin dai tempi di Bottai. Io fui costretto a emigrare negli Stati Uniti per insegnare, andai a dirigere una scuola. Non avevamo i soldi per vivere. Nessuno comprava i nostri quadri. E l´ostilità degli stalinisti, anche se ora sono degli ex, continua tuttora».

Tuttora?

«Nel settembre dello scorso anno ho donato alla Galleria nazionale d´arte moderna di Roma alcuni dipinti del valore di un miliardo di vecchie lire e non è stato emesso neppure un comunicato. Ho regalato cinque grandi quadri, tra i più belli che ho realizzato tra gli anni Cinquanta e i giorni nostri, che aveva cominciato a scegliere Palma Bucarelli. Per completare le pratiche burocratiche ci sono voluti trent´anni. E alla fine la galleria non mi ha scritto neppure una lettera di ringraziamento».

Negli Stati Uniti quali erano i suoi rapporti con Pollock, De Kooning o Barnett Newman?

«Con gli artisti americani c´era un vero rapporto di scambio. Non c´era colonizzazione, quel fenomeno che ha cominciato a manifestarsi dopo la metà degli anni Sessanta, dopo il Leone d´oro assegnato dalla Biennale di Venezia a Rauschenberg. Fu questo il momento in cui mercanti, galleristi, collezionisti decisero di sostenere la pop art, che non è la vera arte americana, ma un´involuzione commerciale, una speculazione. Gente come Pollock o De Kooning rappresenta la vera grande pittura americana, che nasce dalla tradizione europea, sviluppa la tradizione francese, italiana. Gli altri sono duplicatori, copiatori. Si vede bene alla Biennale».

Davide Croff ne è stato appena nominato presidente. Ma della Biennale di Venezia riformata dal ministro Urbani cosa ne pensa?

«Una cosa è certa. Continua l´ostilità verso l´arte astratta. Quanto alla Biennale, la riforma del ministro Urbani è un disastro totale. Allontana l´arte dal pubblico anziché avvicinarla. Non ci sono critici, storici d´arte negli uffici. Sono tutti burocrati, che non sanno neppure cos´era la Biennale: era la mostra più importante del mondo dove si sancivano i giudizi sugli artisti. Esporre alla Biennale era uno straordinario riconoscimento. Ora non sappiamo più cos´è».



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