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In Kosovo Rugova s'ammala, Haradinaj non governa, l'islam brucia

• da Il Foglio del 2 settembre 2005, pag. I

di Daniele Raineri

Il Kosovo è come una grossa e pericolosa caldaia. Dentro i confini della provincia — grande soltanto un terzo del Belgio ma fittamente popolata da due milioni di persone di etnie diverse — la pressione sta salendo così in fretta che la zona minaccia di saltare in aria. Gli albanesi, che rappresentano l'88 per cento della popolazione, vogliono a ogni costo l'indipendenza dalla Serbia. I negoziati che decideranno lo status definitivo del Kosovo — che è pur sempre una provincia meridionale della Serbia, trasformata soltanto temporaneamente in un protettorato internazionale amministrato dalle Nazioni Unite sotto l'autorità legale dell'United Nations Interim Mission in Kosovo (Umnik) — dovrebbero tenersi entro novembre. Nel marzo scorso, si è già avuta un'anteprima minore di quello che potrebbe accadere se la tensione salisse oltre il livello di guardia. Gruppi di albanesi hanno assalito le enclave serbe, lasciandosi dietro, dopo quarantatt'ore di disordini, 19 morti e 800 case date alle fiamme.

 

 La questione ci tocca da vicino. I militari italiani, con una breve cerimonia di passaggio delle consegne nella sede del comando di Pristina, hanno preso dalle mani dei francesi la responsabilità della forza di pace Kosovo force (Kfor) proprio ieri mattina. Ora a capo del contingente Nato di 17 mila uomini, in rappresentanza di più di trenta paesi, c'è il generale Giuseppe Valotto, cui toccherà sorvegliare l'incerta tenuta della caldaia in questa fase cruciale.

 

 In vista degli imminenti colloqui sotto l'egida delle Nazioni Unite, tre sono i fattori che complicano la situazione e non fanno presagire nulla di buono. Il primo è una notizia: sabato scorso il presidente del Kosovo, Ibrahim Rugova, è stato ricoverato in gravi condizioni all'ospedale militare americano di Landstuhl. in Germania. Rugova è una icona per i kosovari e ha guidato in modo pacifico le aspirazioni indipendentiste del suo popolo per quindici anni. E' una figura influente, che tutti si aspettavano avrebbe avuto un ruolo forte nel far scendere a patti i suoi rivali politici durante i prossimi colloqui. Non ha un immediato successore allinterno del suo partito, la Lega democratica del Kosovo, e questo da adito a una maligna lotta di successione per prendere il suo posto, una lotta da cui trarrebbero beneficio le violente fazioni rivali nate durante la guerriglia del 1998-99 per sfidare il potere della Lega democratica.

 

 La seconda notizia è più risalente nel tempo e riguarda il ritorno in Kosovo di Ramush Haradinaj, temuto ex comandante dell'Uck e rispettato primo ministro, che in giugno ha ottenuto dal tribunale dell'Aia, dopo tre mesi di carcere, la liberazione. La relativa calma con la quale il Kosovo aveva assistito alla partenza del primo ministro per l'Aia non aveva convinto nessuno. Non è un segreto che — specialmente nelle zone dove la guerra è stata combattuta più duramente e dove la distruzione è stata maggiore — i veterani sono in mobilitazione semipermanente. All'inizio della guerra il loro obiettivo era l'indipendenza, e non è mai cambiato. Haradinaj è il leader indiscusso di una di queste aree: Dukagini, confinante con l'Albania e il Montenegro, la stessa che i Serbi chiamano Methoja. Ramush Haradinai è tornato in Kosovo, ma senza poter svolgere alcuna attività politica pubblica, secondo le regole del tribunale dell'Aia. La sua scarcerazione ha contribuito non soltanto a calmare gli elementi più caldi, ma a rassicurare anche il resto della popolazione, che aveva molto apprezzato la sua capacità di leadership al governo. In sostanza, tuttavia, egli rimane un politico con le mani legate, delegittimato nel suo ruolo.

  Le persecuzioni contro i cristiani  Il terzo motivo di preoccupazione è un "briefing" tenuto al Senato americano nella seconda settimana di agosto. Secondo gli analisti geopolitici — che hanno dato notizia della distruzione di 150 tra chiese, seminari, conventi e residenze di vescovi, e della parallela costruzione di 200 moschee tra il 1999 e il 2004— l'intervento internazionale per fermare la persecuzione dei fedeli cristiani in Kosovo è un "completo fallimento". Molte delle chiese contenevano affreschi e mosaici bizantini di valore inestimabile, e altre opere d'arte d'ispirazione religiosa risalenti al XIII secolo, ma sono state ridotte in cenere. La provincia kosovara, vale la pena notare, è sempre stata considerata uno dei gioielli dell'eredità cristiana, il "Vaticano della Chiesa Serbo ortodossa" a partire dal XII secolo. Gli incendi e le attuali persecuzioni sono considerati un attacco intenzionale ai simboli della civiltà cristiana europea. 'Grazie a i filmati girati sul posto — dice l'ex ambasciatore americano Thomas Melady, riferendosi all'ultima ondata di violenza nel corso della quale è stato appiccato il fuoco a 34 chiese — sappiamo bene come vanno le cose. La folla muove all'assalto indisturbata, strappa le croci dai tetti e le calpesta, poi distrugge i luoghi sacri". I video mostrano anche la presenza inerte di soldati e di blindati della Kfor. Francesi e tedeschi si sono giustificati dicendo che il loro mandato prevede l'uso della forza soltanto per proteggere persone, non proprietà. Tuttavia, secondo gli osservatori, "i soldati americani e italiani della Kfor rischiano le loro vite non solo per trarre in salvo le persone, ma anche per tutelare i siti". L'ambasciatore Melady riferisce che suore e monaci del monastero di Pec non possono neanche mettere fuori il naso dalla porta senza una scorta militare, perché sono fatti a segno dai cecchini. L'analista della Difesa Frederick Peterson punta il dito contro l'Arabia Saudita. Le nuove moschee, costruite mentre le chiese sono date alle fiamme, sono finanziate dalle nazioni wahabite, dando motivo di temere che lo spettro dell'islamismo radicale stia covando alle porte dell'Europa, in una regione turbolenta dove dominano il traffico di armi e di droga. Per ora, spiega l'analista, le moschee sono ancora vuote, ma è chiara l'intenzione di indottrinare i musulmani locali. 

 

 



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