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Non mollare (5)

12 settembre 2005

di Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Gaetano Salvemini

L’ “Italia Libera”

di Ernesto Rossi

Presto si presero la rivincita. Il 30 dicembre 1924, un manifesto convocò una “mobilitazione generale” dei fascisti per il giorno dopo. Nella notte dal 30 al 31 la polizia fece centinaia di perquisizioni e di arresti fra gli antifascisti. I capizona e i capigruppo dell’ “Italia Libera” sfuggirono tutti all’arresto: non c’era nell’organizzazione nessuna spia.


Il 31 dicembre, fino dalle prime ore, vi fu un va e vieni di automobili e di camions, sui quali i fascisti facevano il saluto al duce e minacciavano sterminio agli oppositori. Da tutta la Toscana e da province anche più lontane, i treni rovesciarono “squadristi” e su Firenze, armati di manganelli, moschetti e mitragliatrici. In Palazzo Riccardi il prefetto, il questore, i deputati fascisti e le autorità del partito prendevano accordi per la dimostrazione del pomeriggio. Alle 14, adunata in piazza Santa Maria Novella, e poi corteo in Piazza della Signoria, per tenervi un comizio al quale intervenne anche, con tutte le autorità, il sindaco di Firenze, Garbasso, professore all’Università. I fascisti con alla testa la “Disperata” inalberavano scritte che dicevano: “Basta colle opposizioni”, “Duce, scioglici le mani”, “Viva Mussolini dittatore”. Alcuni gruppi di fascisti della provincia portavano in trionfo dei forconi, tra i denti dei quali erano stati apposti cartelli col motto: “Oppositori, questi sono per voi”. Molti portavano a tracolla fucili da caccia e moschetti. Quando finirono i discorsi, il sindaco e il comandante generale della milizia fascista in Toscana si misero a capo di una dimostrazione attraverso la città. Una squadra, agli ordini di un console della milizia, si distaccò dal grosso della manifestazione e marciò verso la sede del “Nuovo Giornale” in via Faenza: questo giornale si permetteva, in qualche occasione, di fare ancora un po’ di fronda, per quanto assai riguardosa: l’edifizio era protetto da soldati e da carabinieri, che avrebbero ricondotto facilmente alla ragione quelle poche dozzine di assalitori. Ma questi penetrarono senza ostacoli nella sede del giornale, sfasciarono le linotipie, buttarono nella strada e incendiarono mobili e carte. I rulli per la stampa furono imbevuti di petrolio e dati alle fiamme. Ai pompieri accorsi, i fascisti vietarono il passaggio. Si parlò di danni per circa due milioni di lire (di allora). Dopo questa meritata lezione, il “Nuovo Giornale” si mise completamente in linea con gli altri quotidiani del “regime”. Non sgarrò più, neppure di un’unghia.


Frattanto altre colonne di camicie nere mettevano a sacco il “Circolo di Cultura” in Borgo Santi Apostoli: libri, tavole, seggiole, persiane, porte, giù in piazza Santa Trinità a fare un falò. Idem col circolo dei reduci in via San Gallo, le due logge massoniche in via della Pergola e via Ghibellina. I locali del giornale “Fanteria” pubblicato dai veterani, la sede dell’associazione del libero pensiero, gli studi del liberale avv. Corazzini, dei deputati socialisti Targetti e Frontini, degli avvocati Console (corrispondente dell’ “Avanti!”), Tempestini e Pacchi. Otto fascisti, revolver alla mano, si fecero consegnare dal segretario del Partito socialista-riformista, Saccenti, le carte del partito. Un aeroplano faceva cadere sulla città manifestini, i quali annunciavano che per gli oppositori era arrivata l’ultima ora; presto non vi sarebbero stati in Italia che fascisti.


Nel pomeriggio del 31 dicembre, il direttivo dell’ “Italia Libera” si riunì in casa Rosselli, in via Giusti. La madre di Carlo e Nello era fuori di Firenze. A resistere, con meno di duecento uomini e senza mezzi di raccolta, non c’era da pensarci. Ma difendersi, se assaliti, sì. E allora difendersi tutti insieme, anzi che lasciarsi prendere alla spicciolata.


Decidemmo di mettere nel villino il nostro “quartier generale”: esso non solo consentiva una certa difesa, ma lasciava aperta una via di ritirata attraverso il giardino: avevamo il telefono, la macchina da scrivere, la “Bianchina” di Nello e le rivoltelle.


Passammo tutta la sera e buona parte della notte in attesa degli eventi. Invitammo diversi dei nostri giovani, fra i meno conosciuti, a prendere informazioni dove si vedeva il fumo degli incendi e si sentivano gli spari. Ogni tanto arrivava un capo-zona o un capo-gruppo a riferirci quel che avveniva nei vari quartieri della città.


Improvvisamente, la notte, tornò la signora Rosselli, avvertita del subbuglio che era scoppiato a Firenze. Non si aspettava di trovarci in casa, nell’ingresso uomini armati a fare la guardia; nello studio di Nello, a pianterreno, Carlo ed io battevamo a macchina una corrispondenza da mandare a Roma e ai giornali stranieri; seduti sui gradini, per le scale, alcuni sconosciuti mangiavano tranquillamente uno sfilatino; sul pianerottolo gente sdraiata per terra a dormire.


La signora Amelia, pochi giorni prima, ci aveva dolcemente rimproverati, vedendo coinvolti in avventure sempre più pericolose i suoi due figliuoli. Quella sera salì direttamente nella sua stanza, senza dirci nulla.


Nel nostro “quartier generale” nessuno ci disturbò. Questo dipese, quasi certamente, dal fatto che non vi era fra noi alcuna spia.


Nei due giorni successivi, 1 e 2 gennaio, la “ondata” (come i fascisti dicevano) si allargò ad Arezzo, Livorno, Pisa e Lucca. Le prepotenze e saccheggi commessi a Pisa furono tali che l’arcivescovo, cardinale Maffi, mandò a Mussolini un telegramma, in cui denunciava quelle vergogne “con costernazione, come cristiano, ed umiliazione, come italiano”. Dal 3 gennaio in poi, la ondata si diffuse all’Emilia e alla Lombardia, via via che le forze si spostavano da una zona soggiogata ad una zona da soggiogare.


L’ultima clamorosa manifestazione dell’ “Italia Libera” a Firenze fu affidata a Carlo Campolmi. Bisognava commemorare Matteotti il 10 giugno 1925, ad un anno dall’assassinio (ndr.: ai primi di giugno nell’impossibilità di commemorare pubblicamente il primo anniversario dell’assassinio di Matteotti, alcuni socialisti fiorentini si erano accordati per fare una commemorazione simbolica consistente in una fiorita ai piedi del monumento di Garibaldi. Infatti la sera del 10 giugno un gruppo di cui facevano parte il prof. Gaetano Pieraccini, allora deputato socialista, colla signora Vittoria sua moglie, il prof. Alessandro Levi, Carlo Rosselli, la signora Marion Cave, gli studenti universitari Calabrese e Pincherle, le due sorelle calabrese, studentesse, e l’operaio Nannucci, mutilato di guerra, si recarono al monumento a Garibaldi in Lungarno, per deporre ai piedi di esso mazzi di garofani rossi con nastri dedicati a Giacomo Matteotti. Ma la milizia fascista stava di guardia al monumento. Il capomanipolo domandò perché avevano deposto quei fiori: “Per onorare la memoria di Matteotti”. “Se li riprendano”. E poiché rifiutavano di riprenderli, i militi li arrestarono tutti e li condussero al Commissariato di polizia di Santa Maria Novella. Dopo tre ore d’attesa, arrivò il commissario Bollesi, che mise in libertà le signore dicendo: “Noi fascisti siamo cavalieri”; e mandò alle Murate gli altri: dopo qualche giorno di carcere furono rilasciati, coll’ammonimento di guardarsi bene per l’avvenire non dal deporre fiori ai piedi del monumento a Garibaldi, ma dal deporli coll’intenzione rivolta a Giacomo Matteotti! Dell’episodio si trova notizia nella “Nazione” del 12 giugno 1925; nel numero del 13 giugno di “Battaglie Fasciste” la famigerata rubrica “Manganellate” dedicò all’episodio un corsivetto intitolato: “Una provocazione” che si chiudeva colla solita minaccia rivolta all’on. Pieraccini: “…diamo a questo signore un consiglio: cambi aria. A Firenze c’è odor di legnate e noi non possiamo considerare la sua presenza nella nostra città che come una provocazione. E noi alle provocazioni siamo abituati a rispondere, e con argomenti persuasivi”).


La battaglia sul terreno legale era ormai terminata con la completa sconfitta dell’opposizione parlamentare. Il “governo nazionale”, abbandonate le mascherate democratiche, aveva assunto la grinta definitiva totalitaria. Ma “L’Italia Libera” non doveva mollare.


Il Campolmi, avendo come collaboratori la madre ed alcuni compagni, in tre giorni di lavoro dipinse molto bene, su un gran lenzuolo, l’effigie di Matteotti, riprendendola da una fotografia che gli aveva prestata Gaetano Pieraccini. Il Campolmi era una pecora segnata: la sua casa in San Frediano era stata perquisita diverse volte dalla polizia ed era tenuta continuamente d’occhio dai fascisti. Mentre lui lavorava, la madre spiava da una finestrina sulle scale, per dare l’allarme qualora avesse veduto entrare persone sospette. Il ritratto era dipinto in bleu, perché non fosse visibile nel buio della notte. Ma a giorno chiaro doveva fare una figurina. Terminato quel capolavoro, il Campolmi passò alla parte più difficile del piano.


Il quadro doveva essere esposto in mezzo all’Arno, sul Ponte Santa Trinità, utilizzando il fascio di fili telefonici, che partendo dal tetto del palazzo Ferrosi andavano ad ancorarsi, dall’altra parte del fiume, sopra il palazzo Frescobaldi. Salire sul tetto di questo palazzo non era certo la via dell’orto. Il palazzo era la sede di una scuola superiore femminile; gente curiosa e chiacchierona, per giunta. Ma accanto al palazzo Frescobaldi c’era una chiesa ed un convento, con l’ingresso in Borgo San Jacopo. Il Campolmi decise di tentare quella strada. Si mise d’accordo con Luigi Marchi, parrucchiere, Ezio Guerrini, imbianchino, e un operaio meccanico, che era stato impiegato nei telefoni, di cui mi sfugge il nome (fu poi costretto dai fascisti a fuggire da Firenze e morì a Siena).


L’operaio si presentò ai frati con una borsa a tracolla piena di arnesi e il suo vecchio berretto di telefonista, e chiese di salire sul tetto per eseguire alcune riparazioni. Rassicurati da quella tenuta, i frati lo lasciarono passare; così il finto guardiafili poté portare sul palazzo Frescobaldi il ritratto di Matteotti e il resto del materiale necessario alla bisogna. Dopo due giorni di lavoro, la sera del 9 giugno, una cordicella scese lungo la grondaia del palazzo fino a un paio di metri dal pelo dell’acqua. Sul tetto del palazzo Frescobaldi un cerchio di giunchi abbracciava il fascio dei fili telefonici, quasi a ridosso alla “palina”. Appeso con una funicella al cerchio era il ritratto di Matteotti, nascosto fra i tegoli, in modo che dal basso non si vedeva.


La sera stessa del 9, dopo cena, Campolmi andò sul ponte di Santa Trinità a far da palo, mentre i suoi tre compagni noleggiavano una barca alla “Scaletta dei canottieri”. L’operazione doveva essere effettuata alle 10 precise, ultimo termine per il rientro delle barche.


L’orologio di Palazzo Vecchio scandì le ore. Il noleggiatore gettava grida di richiamo ai rematori ritardatari. Una barca si avvicinò alle case di Borgo San Jacopo, vi si fermò pochi minuti; e poi venne verso il centro del fiume. In piedi sulla barca, profittando dell’oscurità, Marchi tirava la corda e i due compagni remavano con prudenza per non fare rumore.


Campolmi, che seguiva l’operazione dal ponte, vide un oggetto scuro scorrere, a poco a poco, lungo i fili telefonici e fermarsi, in alto, quasi sulla sua testa. La barca scomparve sotto le arcate. Da lontano, il noleggiatore continuava a gettare i richiami (Solo il giorno dopo ritrovò la barca, abbandonata sull’argine erboso, vicino alla “Porticciola”).


Così l’alba del 10 giugno 1925 illuminò l’effigie di Matteotti in alto, a sinistra del ponte, in uno dei punti più animati della città. Si formarono subito capannelli di persone col naso per aria. Accorsero le guardie. Furono mobilitati i pompieri, la polizia, i fascisti. Barche, scale, aste con uncini, acrobazie di tutti i generi, dettero spettacolo per alcune ore alla gente, che ammassata alle spallette del fiume applaudiva ironicamente.


Non fu facile porre fine allo scandalo, perché il fascio dei fili era molto alto e non correva sulla perpendicolare del ponte. Soltanto verso mezzogiorno, dopo che i Lungarni erano stati la meta di un ininterrotto vasto pellegrinaggio, e tutta Firenze commentava l’episodio, i pompieri riuscirono ad impossessarsi del ritratto. Chi lo cercasse potrebbe, forse, ancora ritrovarlo in qualche archivio del Tribunale di Firenze, quale corpo del reato nel processo che senza dubbio fu aperto allora contro ignoti.


La funzione dell’ “Italia Libera” in Firenze fu quella di rompere l’isolamento, in cui si trovava ogni antifascista innanzi alla bestialità trionfante; dare agli antifascisti qualcosa da fare come antifascisti e quindi metterli a contatto fra loro e rincuorarli; distinguere i bagoloni, che si contentavano di “tenere accesa sotto il moggio la fiaccola dell’ideale”, da coloro che, anche nelle piccole prove, dimostravano di essere veramente disposti a fare dei sacrifici per riconquistare la perduta libertà.


(5. segue)



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