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IV Congresso di Radicali Italiani: la relazione del segretario Daniele Capezzone

Riccione, 29 ottobre 2005

  1. Premessa. In corso, in Italia, fatti culturali e politici profondi. Quasi strutturalmente preclusa “Piazza Navona”. Le opposte demagogie di Bertinotti e Tremonti.

  

Carissime compagne, carissimi compagni, cari amici,

 

pur sollevati per essere momentaneamente evasi dalla prigione-bunker dell’Ergife, non è a cuor leggero che iniziamo -credo- questo Congresso, e ci accostiamo alla fase politica che si apre, che appare come una equazione con un numero assai elevato di incognite. 

 

Lo stesso esito referendario, che oggi sembra lontanissimo ma è di appena venti settimane fa -praticamente ieri-, ci parla di molte cose. Certo, ne abbiamo discusso anche a caldo nell’assemblea postreferendaria di fine giugno, e abbiamo accumulato il tesoro di molte spiegazioni serie, di molte osservazioni esatte (la mancanza del “grande” dibattito nel paese e -invece- lo sminuzzarsi tecnico, tecnicistico della discussione; lo sfarinamento del tema in quattro quesiti, senza la semplicità evangelica del “sì sì, no no” su un solo, facile, comprensibile e perciò dirompente referendum, come era accaduto -ad esempio- per il divorzio). Tutto vero, io credo, ma è altrettanto vero che non possiamo accontentarci di spiegazioni congiunturali: a mio avviso, è il caso di esplorare qualche ragione strutturale, qualche evento di fondo che è in corso, e sulla cui reversibilità in tempi politici stretti ho forti dubbi. 

 

Sommate questi fattori:

-non la “litania” (o quella che ad alcuni appare la “litania”) sul “caso Italia”, ma la considerazione che trent’anni di illegalità continuata sono una cosa diversa da tre anni: se ci si abitua, ad ogni livello, a considerare inevitabile che la vita istituzionale si svolga al di fuori del perimetro della legalità scritta, poi diviene fatale che, alla lunga, il tessuto democratico risulti consumato, liso, e tenda a cedere;

-sommate, ancora, un livello di credibilità del ceto politico in quanto tale mai così in basso da tanto tempo: in fondo, nel ’92-’93, ci fu un’ondata di disprezzo, e talora di disprezzo “plebeo”; oggi, c’è qualcosa a mio avviso di più grave, e cioè una distanza che sembra sempre meno colmabile, una disillusione sempre meno guaribile…Tutto o buona parte di ciò che è percepito come “politico” rischia -per ciò stesso- di essere respinto, anzi forse neppure ascoltato da parte consistente della popolazione (e magari proprio da tanti che potrebbero essere interessati, se lo conoscessero, al nostro messaggio);

-sommate, ancora, una nonviolenza per tanti versi depotenziata, banalizzata, in qualche modo perfino “disinnescata” (apro una parentesi: mi complimento con Fausto Bertinotti che questa estate, conversando con Enrico Cisnetto, ha dichiarato che il suo è il primo partito ad aver assunto l’”habitus della nonviolenza”). Congratulazioni sincere per questo ennesimo primato: ebreo, omosessuale, nonviolento, adesso -apprendiamo- anche liberale. Speriamo che ci lasci qualcosa, diciamo…Ecco, non ancora “liberista”, pare…Anzi, dai compagni di Rifondazione ci si spiega che “liberale” sì, va bene, mentre “liberista” no, proprio no: insomma, il dibattito Croce-Einaudi diviene Croce-Einaudi-Bertinotti…E stiamo attenti a infilarci in questa discussione, se no arriva Marcello Pera, con giacchetta nera e piglio da arbitro Collina, mette mano al taschino, estrae il cartellino rosso ed espelle il povero Croce dal campo liberale…Succede anche questo nell’Italia del 2005…

-Ma non divaghiamo. Dicevo, sommate una prolungata e incontrastata illegalità istituzionale, la scarsissima credibilità di quasi tutto ciò che appaia come “politico”, il depotenziamento della nonviolenza, e aggiungete -ancora- un costo che può essere in buona misura imputato a Silvio Berlusconi. Un conto sono “le riforme non fatte”; altra cosa (ben più pesante, nel sentimento del paese) sono le “riforme attese, sperate, promesse e poi non fatte”. Oggi l’Italia fa i conti anche con questo meccanismo di illusione-disillusione.

-E infine, sommate -soprattutto- non solo un fatto mediatico, ma culturale e profondo, e quindi politico. Per tanti anni (su altro tema e altro scenario), abbiamo sentito parlare di “società duale”. Ecco, oggi, parlando il linguaggio di Edoardo Fleischner e prendendo a prestito la sua “dieta mediatica”, dobbiamo fare i conti con una nuova “dualità”, con un nuovo “divide”: da una parte, c’è un pezzo di società che vive con e di giornali, Internet, tv satellitari italiani e straniere, in presa diretta con il mondo e con le fonti dell’informazione; dall’altra, un grande pezzo della società italiana che non ha nulla di tutto questo, ed è chiusa nel ghetto della tv generalista. Scusate, ma significherà qualcosa che due programmi di punta della Rai 2005 siano stati affidati a Pupo e a Pippo Baudo? I politici, quasi tutti, sono concentrati sui pastoni di Pionati al Tg1 e sugli approfondimenti (e naturalmente, guai -come si dice in questi casi- ad abbassare la guardia), ma non ci si rende conto che, ad esempio, nella sfida tra Vespa e Mentana (non a caso raccontata dai media con le meno comprensibili percentuali dello share), gli ascolti assoluti sono crollati a un milione e mezzo, a un milione e ottocentomila ascoltatori (quando va molto, ma molto bene). E’ il caso di guardare a cosa c’è intorno ai pastoni di Pionati o a Vespa: vedrete, vedremo il fenomeno di una tv generalista ridotta a badante per anziani, per un pubblico seduto, passivo, non interattivo, inchiodato alle balere da anni ’50 del sabato sera di Raiuno, o al poveraccismo nostalgico delle catapecchie e del “qui-era-tutta-campagna”…

 

La somma di tutto questo, di tutti questi fattori, produce un effetto devastante, che non è “la”, ma certo una spiegazione, e una spiegazione importante, di ciò che è avvenuto con i referendum. Da una parte, un 25% di “politicizzati” (che però, quando si passa alle elezioni politiche, sono sì “raggiungibili”, ma non si “spostano” facilmente, sono già convinti); dall’altra, un 75% sempre meno “raggiungibile”, a cui è sempre più difficile parlare…

Ho detto molte volte che una caratteristica decisiva del radicalismo pannelliano (cioè dell’esperienza radicale -diciamo per semplificare- successiva all’era de “Il Mondo”) è stata quella di aver voluto e aver saputo transitare dalla dimensione della prestigiosa, prestigiosissima rivista, dai prestigiosi, prestigiosissimi convegni al Piccolo Eliseo, a “Piazza Navona” (e comprendete cosa intendo per Piazza Navona: la piazza fisica, e, insieme, la piazza televisiva: insomma, la “pretesa” di parlare al 100% dei cittadini). E in effetti è andata così: una volta con i referendum, una volta con la nonviolenza, una volta con un’”escogitazione” (“la fantasia come necessità”…), più spesso con la combinazione di questi strumenti, quando si “sfondava”, si “sfondava” per davvero, parlando per una-due-tre volte a 13-14-15-20 milioni di elettori, e cioè proprio ai non “politicizzati”, ai più “aperti”.

 

Oggi tutto questo è, a noi, strutturalmente precluso. Ed è invece consentito, direi scientificamente costruito, per poche altre cose:

-1. una sempre più aggressiva “rieducazione culturale” (scusate, ma le parole più adatte mi sembrano queste) attraverso le fiction. Sembrava che i radicali esagerassero quando citavano i preti detective, le Sante Marie Goretti, i Padre Pio/Rai contrapposti ai Padre Pio/Mediaset…Adesso siamo alla valanga: solo nelle ultime quattro-cinque settimane, abbiamo avuto, in sequenza: il Maresciallo Rocca che, tornato dalle meritate vacanze, arresta una farmacista pro-eutanasia che -guarda caso!- viene fuori come una spietata assassina (6 milioni e mezzo di spettatori); Lino Banfi frate (7 milioni e mezzo di spettatori) che è lo stesso Lino Banfi che poi, il giorno dopo, ricompare nei tg (fuori fiction, ma in qualche modo è un prolungamento semiologico del messaggio) in Piazza San Pietro con papa Ratzinger e i bimbi della Prima Comunione; e, da ultimo la fiction su San Pietro (8 milioni e mezzo di spettatori), con un po’ di cristiani perseguitati e trucidati in prima serata…

-2. Ancora. Oltre alle fiction, pochi altri casi in cui la costruzione dell’Evento è altrettanto meticolosa. Penso alla vicenda Celentano, che mi ha avvilito per la piccineria con cui il ceto politico ha plaudito o strepitato (più pelosi e penosi gli strepiti di destra, a dire il vero: perché vorrei capire con quali titoli, dopo questi quattro anni, si denuncia l’altrui faziosità) a seconda del calcolo di presunto vantaggio o svantaggio derivante da “Rockpolitik”. Lo premetto e lo sottolineo: il mio non è un attacco a Celentano, che -anzi- ha un che di "selvaggio", di vitalmente "anarcoide", che me lo rende simpatico. Il problema è uno scenario di nuovo peronismo (pur con gli stivaletti di Adriano), di demagogia post-politica e post-democratica. A nessun esponente (più o meno) democraticamente eletto dai cittadini, e perciò responsabile dinanzi a loro, viene concesso di potersi rivolgere (senza contraddittorio, senza repliche) a 12-15 milioni di spettatori in modo diretto (radunati con settimane intere di anticipazioni, di spot, di costruzione scientifica dell'audience, dell'"evento"), e con la forza -anche semiologica- di chi "lotta" (con tanto di "pugno", il “pugno” che è il logo di Rockpolitik: a proposito, ricordiamocene -ma ci verrò dopo- quando dovremo pensare al nostro simbolo…), di chi "fa giustizia", di chi va "contro". Insomma, mentre gli gnomi della politica si affannano per una comparsata -direi quasi per una "sveltina"- sulla poltrona bianca di Vespa (magari alle 23.50, visti -se va bene- da un milione di spettatori), c'è chi (senza rispondere a nessuno) può salire su un pulpito di potenza straordinaria. E’ tenero, si fa per dire, il direttore di Raiuno Del Noce, quando dice che non si aspettava che la trasmissione divenisse “politica”: scusi Del Noce, ma con quel titolo (“Rockpolitik”), di cosa si aspettava che parlasse, di formaggi tipici? Ne discuterà qualcuno? Ci si rende conto (lo “scherzo” è già stato fatto a noi, nel 2001, con Emma Bonino in sciopero della sete e Luca Coscioni in autoriduzione delle terapie: e con gli esiti elettorali che ben ricordiamo), ci si rende conto -dicevo- che basta dire, al culmine dell’audience, e del climax scenico ed emotivo, che “Il Papa è rock”, per smontare qualunque campagna laica che nel frattempo cerca o cercasse spazi negli anfratti più oscuri dei palinsesti televisivi? Tra parentesi, l’altra sera, nella seconda puntata, si è arrivati al surreale: il Papa che -sette giorni prima- era solo “rock”, è magicamente divenuto “hard rock”, perché -ha spiegato Adriano- “ha aperto ai divorziati”. Cosa che -com’è noto- Ratzinger non ha fatto, semmai il contrario. Ma è stato raccontato a 15 milioni di persone, e con quale suggestione, che Ratzinger “ha aperto”, e quindi è “hard rock”. Ci accorgiamo che il nostro mix libertà-responsabilità non ha nulla a che vedere con i violenti (e peggio che violenti: sciocchi) editti bulgari di Berlusconi (che ora se la prende, pensate un po’, con Bertolino e Vergassola: sai che pericolo per la democrazia…), ma neppure con quest’altro fenomeno (a prescindere da chi possa favorire questa volta, o la volta prossima)? Ci vorrebbe Pasolini, e -invece- avremo a mala pena un commento di Paolo Crepet...

Scusate se sono partito da qui (verrò tra poco a quelle che sembrano le nostre urgenze più immediate), ma il fatto politico mi pare questo. Cos’è “politico”, se non ciò che può davvero (e non per finta) parlare alla polis, cioè parlare a tutti?

 

Io credo che si debba provare a capire cosa “arriva” (e quindi cosa “accade”) nelle immense periferie urbane. Un uomo di studio della società, e non solo di talento televisivo, come Carlo Freccero, ha spiegato (e non era e non è affatto un fenomeno negativo, a suo avviso, a figurarsi se lo è dal mio punto di vista) che (banalizzo) l’americanizzazione (nei suoi aspetti positivi) prodotta dall’arrivo della tv commericiale, dalla rottura del monopolio Rai, ha portato il popolo delle periferie italiane, lungo tutti gli anni ’80, a elaborare domande di modernizzazione, a superare di slancio un certo bigottismo culturale dc-pci, a chiedere il “cambiamento” che poi Berlusconi non ha saputo dare…Ecco, oggi, nella situazione mutata che descrivevo, cosa “arriva” e cosa “cresce” (di “politico”) in quelle periferie? Forse solo un grande sentimento di smarrimento, paura, attesa.

 

Smarrimento, paura e attesa a cui -a mio avviso- dalla “politica ufficiale” sono arrivate solo due risposte che hanno intuito il problema, e -dal mio punto di vista- non solo non lo risolvono, ma lo aggravano. Direi, due opposte, simmetriche demagogie. Da una parte, la demagogia efficacissima di Fausto Bertinotti, il suo linguaggio “fagioliano” (nel senso del professor Massimo Fagioli): alle paure (sempre retoricamente accresciute: il “neoliberismo”, il “pensiero unico del mercato e della globalizzazione”), si oppone l’irresponsabilità del “voglio” (“Voglio il ritiro dall’Iraq” e “Voglio la vasca idromassaggio”; anzi: “Voglio il ritiro dall’Iraq mentre sto nella vasca idromassaggio…”). Scherzo, ma fino a un certo punto: la prospettazione delle paure, e -per converso- l’illusione massimalista del “tutto e subito” (senza costi; anzi, a carico di altri, e non si sa bene chi). Dall’altra parte, l’opposta, simmetrica demagogia che Giulio Tremonti cerca con grande maestria di costruire e regalare all’altro schieramento, pensando di “intercettare” qualcosa che promana ad esempio, dal “popolo di Pontida”, o, più genericamente, dai “popoli” (Toni Negri preferisce dire: le “moltitudini”): le stesse paure su cui fa leva Bertinotti (il “mercatismo”, dice Tremonti), e una risposta di chiusura protezionistica, di rifiuto delle “élites cosmopolite corrotte” (usuraie e immorali: e questo l’abbiamo già sentito nella storia, qualche decennio fa…), e un binomio “legge e ordine” declinato, in ultima analisi, solo contro poveracci, immigrati e “devianti”. Strada pericolosa: e mi permetto di dire all’apprendista stregone Tremonti di fare attenzione, perché una simile miscela può sfuggire di mano anche a chi è abile come lui…   

 

Questo è il contesto, il campo -come vedete, assai poco praticabile- in cui ci tocca giocare, ed è bene tenerlo presente, perché la partita è quasi impossibile.

 

 

  1. Tre “specificità” dell’Italia del 2005. Elites che non circolano. Riforme cancellate dall’agenda politica. “Opa” vaticana sulla società italiana: no al Concordato.

 

 

A tutto questo si aggiungono tre “specificità” -chiamiamole così…- dell’Italia del 2005.

 

A. Intanto, abbiamo a che fare con élites che non circolano, come non circolano le opinioni, del resto. L’antica ossessione di Pareto e Mosca -l’ho detto molte volte- è un rischio per tutte le società dell’Occidente avanzato, con la rivincita di Sparta su Atene e il progressivo restringersi del campo in cui le decisioni vengono prese. Ma qui da noi il tratto patologico è davvero impressionante. Pensate al “risiko” bancario e finanziario di questa estate. Quando (e non era certo un secolo fa) ad essere sotto scacco erano i risparmiatori, la gente comune (Cirio, Parmalat, i bond argentini), non è successo quasi nulla. Quando la partita è divenuta quella che poteva -che so- toccare il controllo del Corriere della Sera, è iniziata una vera e propria guerra nucleare, che per tanti versi prosegue. E prosegue con “poteri forti” italiani che qui giocano al gatto col topo, ma che sono debolissimi appena varcano i confini nazionali, dove -letteralmente, con l’unica recente eccezione di Profumo- non toccano palla. L’Italia è dominata in lungo e in largo da oligarchie potentissime e prepotentissime qui, ma debolissime su scala globale, in linea con lo “score”, il “record” complessivo di un paese che da una parte non produce quasi più Premi Nobel, o grandi romanzi o grande cinema, e dall’altra ha perso quasi tutto sul fronte della chimica, della meccanica, o della grande distribuzione (per non parlare del bel contributo -si fa per dire- che l’ultimo referendum ha dato sul fronte delle biotecnologie e della ricerca, con -e non se ne avvertiva l’esigenza- le parallele campagne di paura e chiusura guidate da Pecoraro e Alemanno anche sul fronte degli OGM. C’è da ridere amaramente, ma se si cerca uno dei pochi settori in cui l’Italia possa dire la sua, forse si trova a mala pena quello delle macchine agricole e dei veicoli da lavoro da vendere in India e in Cina (e sempre che i tedeschi non ci precedano…). C’è un filo tenace che lega tutto questo ad un capitalismo (se così possiamo chiamarlo, visto che i capitali spesso non si vedono) nel quale con l’1,33% si è potuto acquisire il controllo di una società come Telecom; in una situazione in cui si è parlato di Parmalat, ma non di altre 4-5 società in condizioni non troppo lontane (e tutti stanno zitti, mentre negli Usa, dopo la vicenda Enron, si sono stabiliti 25 anni di carcere per il falso in bilancio…scelta un po’ diversa da qui, mi pare…); in cui -sono dati dell’Università di Berkeley- l’Italia risulta 51ma per competitività e sugli stessi livelli di Guadalupe per diffusione di personal computer; in cui il debito pubblico è arrivato a quota 1.542 miliardi di euro (terzo debito pubblico del mondo, e non mi risulta che noi siamo la terza economia del mondo…); in cui ognuno di noi (neonati e…immigrati che sbarcano a Lampedusa compresi!) ha 26mila euro di debito; e in cui la Banca Mondiale ci ha collocato al 77mo posto nella classifica mondiale per capacità di attirare investimenti per nuove intraprese…

 

B. A questo si collega la seconda “specificità”, e cioè la sparizione delle riforme dai “radar” della politica. Tra tanti che si proclamano riformisti, non si vedono purtroppo “riformatori”, e meno che mai si vede (quanto ce ne sarebbe bisogno) chi non solo vuole riformare, ma addirittura “trasformare”, che è il compito più alto e umanistico e umano di una politica degna di questo nome. Pensate a un caso come quello di cui è stato protagonista un leader come Koizumi, in Giappone. Koizumi aveva cercato di liberalizzare e privatizzare quell’autentico mastodonte finanziario che è (tra poco potremo dire: era) il servizio postale giapponese. Morale: quando si è reso conto che non solo l’opposizione, ma anche i dinosauri della sua maggioranza lo ostacolavano, ha convocato immediate elezioni politiche, non ha ricandidato i vecchi tromboni conservatori, ha sfidato tutti davanti al paese in una gara in cui avrebbe chiaramente vinto o chiaramente perso. Il popolo lo ha premiato alla grande, ma starei per dire che Koizumi ha trionfato prim’ancora che si contassero i voti nelle urne: e ha trionfato per il solo fatto che la sua accelerazione ha costretto tutti a cambiare registro, e la discussione (già in campagna elettorale) non è stata più sul “se”, ma solo sul “come” fare una riforma a cui nessuno si è più potuto sottrarre. Vedete un Koizumi in giro nel Transatlantico di Montecitorio? Non mi pare, e dopo le occasioni perse prima da Berlusconi, poi da D’Alema e ora di nuovo da Berlusconi (e dopo la vanificazione dei nostri tentativi referendari degli anni ’90), l’orologio delle trasformazioni istituzionali, economiche e della giustizia così necessarie all’Italia è ancora malinconicamente fermo al 1993.

 

C. La terza specificità, su cui sarà bene fermarsi un poco, parte dal principio (al tempo stesso proprio della fisica e della politica) per cui il vuoto, prima o poi, è destinato ad essere occupato. In un paese in cui i partiti sono nelle condizioni descritte, in cui i poteri forti hanno la prepotenza ma anche le spaventose fragilità di cui parlavo, in cui non esistono “think-tank”, luoghi di pensiero e di elaborazione delle priorità politiche, chi volete che si ricavi un ruolo determinante se non un’entità, come lo Stato-Città del Vaticano, che dispone -simultaneamente- di incredibili risorse economiche (2mila miliardi l’anno di “otto per mille”: tradotte in oro, secondo un metodo che voglio mutuare da Antonio Martino, si tratta di 100mila chili, di 1000 quintali d’oro ogni anno) e di una esposizione mediatica superiore (dati alla mano, lo abbiamo dimostrato) a quella di tutte le forze politiche messe insieme? E peraltro, questo è a maggior ragione vero oggi, quando la Chiesa è guidata da una personalità (quella di Joseph Ratzinger, a cui dedicai un anno fa un paragrafo della mia relazione congressuale -e a qualcuno parve stravagante occuparsi di un cardinale…-) che non nasconde intenzioni che lui stesso ha “metodologicamente” accostato a Lenin: la capacità di azione e di avanzata di una minoranza consistente, determinata, compatta, che può smettere di stare in difesa e può andare all’offensiva. E i contenuti dell’offensiva stanno tutti nella lunga “enciclica” -chiamiamola così- che il cardinale Ratzinger ha nitidamente scritto per trent’anni: il “nemico” non è l’Islam, e anzi occorre l’unità delle religioni contro l’avversario comune, che è il “relativismo”, cioè -tradotto più chiaramente- il non assolutismo, il liberalismo, il pluralismo morale, la tolleranza, una umana e umanistica etica delle etiche, rispettosa delle scelte individuali. Questo è il nemico da abbattere per la Chiesa di questo inizio di terzo Millennio.

 

Come si fa a non vedere che questo è un tema centrale? In un recente convegno, una voce che sembrava ed era (sentivo per radio) quella dell’amico Carmelo Palma, ci invitava ad essere “laici ma non laicisti”. Mi verrebbe da dire che -simmetricamente- bisognerebbe sforzarsi, se questo è il piano di discussione che si preferisce, di essere “furbi ma non furbisti”, o almeno non troppo “furbisti”, quando si dicono queste cose. Ma resisto alla tentazione. E, invece, prendo in esame una cosa che sentivo da un’altra voce dello stesso convegno, che sembrava ed era quella dell’amico Marco Taradash, che invitava tutti (e in particolare i liberali italiani) a comportarsi “come se il Concordato non esistesse”…Io ci ho pensato, mi sono pure sforzato, ma poi -diciamo così, dopo un attento esame, dopo un’approfondita ricognizione…- mi sono reso conto che il Concordato c’è, e che non possiamo prenderci per i fondelli…Il punto è proprio questo, e come tale va posto. E io do una risposta tutta “americana”, anche su questo. Non mi risulta che esistano ordinamenti funzionanti in cui le gerarchie di una (sottolineo, di una) confessione religiosa, da una parte godano di privilegi particolari (Concordato, otto per mille, esenzioni Ici, insegnanti scelti da loro stesse e pagati dallo Stato, straordinaria presenza sugli organi informativi sul servizio pubblico, ecc.), e dall’altra pretendano di “entrare a gamba tesa” nell’agone politico di quel paese (addirittura, divenendo protagonisti di campagne elettorali -condotte anche grazie ai finanziamenti pubblici di cui sopra!-, disquisendo sulla costituzionalità di norme future, eccetera). Io vorrei, invece, la linearità e la chiarezza del modello americano: ognuno (a cominciare dal cardinale Ruini) dica e faccia quello che gli pare, ma senza Concordati, senza otto per mille, senza privilegi particolari. Non si può avere (insieme) la botte piena e la moglie ubriaca (e magari pure l’uva nella vigna...). E su questo tema, e in primo luogo sul superamento del regime concordatario, il nostro soggetto dovrà muoversi con chiarezza, con la semplicità evangelica del “sì sì, no no”. Se non si affronta questo nodo, se non si fa una lettura (lo sottolineava molto bene, a mio avviso, Angiolo Bandinelli in una nostra recente riunione) perfino socio-economica (oltre che politico-culturale) del ruolo della CEI, di questa CEI in Italia, non si capisce che è in corso una gigantesca “OPA vaticana” sulla società italiana, e che si sta -a velocità incredibile- ricompiendo tutto il percorso (che richiese secoli) dall’affermazione tutta spirituale, religiosa “Il mio regno non è di questo mondo”, al proclama mondano e guerresco “In hoc signo vinces”. Se non si vede o si fa finta di non vedere questo, è l’intera lettura dell’Italia del 2005 che salta, è tutta la fotografia che risulta sfocata, mossa, sbagliata.

 

 

3. “Alternanza per l’alternativa”. La prima scelta che invitiamo gli italiani a compiere: no ad altri cinque anni di Governo per Silvio Berlusconi. Non sarebbero “eco-sostenibili”…Le speranze e le riforme tradite.

 

 

E allora, siamo arrivati alla politica in senso stretto. Io credo che la prima cosa, in ordine di tempo, che ogni elettore italiano debba fare il prossimo 9 aprile sia esprimere un giudizio sui 12 anni (e 12 anni sono un tempo enorme, nella politica di oggi) della vicenda politica di Silvio Berlusconi. Sono convinto che tanti, la quasi totalità di coloro che gli hanno dato fiducia, lo abbiano fatto in nome di una grande, straordinaria speranza di cambiamento.

 

Qualcosa, in effetti, è cambiato, in questi anni. Io non ho mai fatto una polemica di questo tipo, ma credo che sia il caso di accendere qualche riflettore. Silvio Berlusconi è entrato in politica con 5mila miliardi di debiti (di lire, o del vecchio conio, come direbbe Bonolis), e con le banche che -indegnamente, lo sottolineo- tentavano di strozzarlo; oggi (essendosi misurato con…come si chiama? Ah sì, il perfido regime comunista…), vanta 29mila miliardi di attivo (sempre in lire), ed è entrato nel G7 dei sette uomini, appunto, più ricchi del pianeta. Ecco, questa è una cosa che è cambiata in questi 12 anni.

 

Il resto un po’ meno. Doveva esserci la grande speranza della riforma maggioritaria, presidenzialista e americana, e ci ritroviamo nella palude proporzionalista, e con la devolution di Calderoli, che condurrà alla paralisi istituzionale: far approvare un disegno di legge da Camera e Senato sarà un autentico safari…Passiamo all’economia. Lascio da parte un’altra tentazione, quella di dire che Tremonti è stato cacciato (parole di Gianfranco Fini) perché truccava i conti, ed è stato richiamato -a me pare- per la medesima ragione, perché non c’erano altri che sapessero truccare i conti come lui in vista della Finanziaria…Ma insomma: doveva esserci la grande liberalizzazione, e ci siamo ritrovati con la difesa corporativa dei forestali calabresi, con le compagnie aeree a basso costo accusate -nientemeno- della crisi dell’Alitalia, e con i libri da no global dello stesso Tremonti…Sulla giustizia, diciamoci la verità: noi non abbiamo usato questi argomenti, anche perché spesso c’era una polemica faziosa da parte di settori del centrosinistra…Però, insomma: quando si è trattato di farsi gli affari suoi (sul falso in bilancio, sulle rogatorie, sulla Cirami), i voti compatti, da falange macedone, arrivavano in una notte (non c’erano scuse o…Follini che tenessero!); quando invece si è trattato di votare la separazione delle carriere (dove avrebbe trovato, ad esempio, l’attenzione di Enrico Buemi e dei compagni dello Sdi), niente. Nessuna riforma. E lascio da parte solo per carità di patria (e per ragioni di tempo) il capitolo delle libertà civili, che hanno visto in questa legislatura (dal no al divorzio breve, al no a fecondazione e ricerca, al no ai pacs, alle aggressioni su aborto, RU 486, fino alle offensive che si ripreparano su droga e perfino sul reato di plagio, su cui anche i “laici devoti” tacciono, e non a caso!), che hanno visto, dicevo, un’escalation da “Casa della libertà provvisoria e vigilata”, come Marco ha sovente fatto osservare.

 

Per questo, io dico subito che non condivido i toni di critica, a volte spiacevole, che ho visto su qualche nostro forum, nei confronti di Benedetto Della Vedova o di chi -da sponde radicali o liberali- volesse tentare un’avventura personale e politica con Silvio Berlusconi. Una delle prime lezioni (anche solo da elettore radicale) che ricevetti nel 1992 fu che Marco ed Emma decisero, allora, di prestare perfino il simbolo ad alcuni compagni che sceglievano un altro percorso, per risparmiar loro la fatica e i rischi di dover raccogliere le firme. E quindi, da parte mia, auguri sinceri e di cuore a chi cerca di seminare il seme liberale, ovunque, e in particolare a questi nostri amici. Detto questo, però, non solo (anzi: non a loro), ma a quanti si definiscono liberali di Centrodestra, chiedo di dire una parola sul ritorno al proporzionale, una parola sul Tremonti noglobal, una parola sul garantismo a targhe alterne (come lo chiama giustamente Enrico Boselli!), cioè solo per gli amici e i sodali, una parola sulla ventata vandeana, reazionaria che si abbatte contro le libertà civili. Rispetto a tutto questo, Silvio Berlusconi non è -diciamo così- un passante privo di responsabilità: di questo film, lui è soggettista, sceneggiatore, regista e interprete. Oggi chi sceglie di essere “berlusconiano” deve fare i conti con questa realtà. E anche sulla politica estera, parliamoci chiaro. Io credo che a Berlusconi vada il grande merito (nessuno potrà toglierglielo) di avere spostato l’asse della politica italiana dal tradizionale (e subalterno) ancoraggio a Parigi e Berlino ad un legame con Londra e Washington. Ma a parte il fatto (e ci verrò tra poco) che nella politica, e a maggior ragione in politica internazionale, non basta “scegliere il campo”, ma bisogna anche saperci giocare in modo creativo, a parte questo, come si fa a conciliare e declinare tutto questo con la difesa strenua e perfino grossolana di Vladimir Putin? Applichiamo anche a lui il “Ghe pensi mi”? Della serie: “Ci siamo guardati negli occhi, per una notte intera -sai che spettacolo- e vi garantisco che lui è un sincero democratico?”…Ora, a parte la stranezza un po’ psicanalitica di uno come Berlusconi che vede comunisti dappertutto, e poi, quando gli arriva un comunista vero, uno del KGB più duro, lo abbraccia e lo bacia; a parte questo, dicevo (e non mi rivolgo a Benedetto, a cui faccio i miei auguri, come dicevo, ma a chiunque si definisca o voglia essere liberale nel centrodestra), ci sarà qualcuno che gli porrà una domanda semplice semplice? E la Cecenia?  E magari, se capita -tra una visita in Sardegna e una controvisita nell’una o nell’altra dacia-, e Antonio Russo? Signor Presidente Putin, ha qualcosa da dirci su questo?

 

E non ci si dica che con questo centrodestra non abbiamo cercato di costruire qualcosa. Ci abbiamo provato, fino all’estrema vicenda dell’ospitalità. E lascio da parte tutti i precedenti: pensate solo ai famigerati “referendum comunisti”, pensate alle trattative fatte con Tremonti (mentre aveva in tasca l’accordo segreto con la Lega), pensate a quelle regionali del 2000 in cui (lettera di Emma sul Corriere, del 10 gennaio) chiedevamo solo la ripresentazione del ddl governativo Berlusconi-Speroni (figuratevi!) per il maggioritario nelle regioni…Niente. E niente perfino in questa legislatura, in cui avevamo almeno offerto (perché è il nostro paese, e non abbiamo mai giocato al “tanto peggio tanto meglio”) collaborazione strutturale sulla politica estera (e c’è stata, a volte, attenzione personale di Gianfranco Fini: praticamente nulla, invece, da parte del Presidente del Consiglio, se non l’appropriazione verbale distorta -e quindi controproducente- della grande battaglia per la Comunità delle Democrazie). Il fondo si è toccato -un episodio per tutti- all’apertura del semestre italiano di presidenza dell’UE, con Nessuno tocchi Caino, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti -e con Marco ed Emma, naturalmente- che preparano (per un Berlusconi linciato dalle cancellerie europee) una grande e lusinghiera carta, sulla pena di morte, con tanto di conti attendibili sulla possibilità di ottenere una straordinaria maggioranza alle Nazioni Unite. Abolizione della pena di morte, quindi una richiesta massimalista? No, la carta ragionevole della moratoria. E con un testimonial americano. Non bastava americano? Repubblicano. Non bastava repubblicano? Cristiano. Non bastava cristiano? Favorevole, in teoria, alla pena di morte, ma decisamente schierato per la moratoria: era l’ex governatore dell’Illinois. Bene, si è scartato anche questo, e si è preferito andare a dare del kapò, all’Europarlamento, al primo tedesco di passaggio: mossa astuta e lungimirante, come si sa…

 

Per tutte queste ragioni, io credo che si debba dire no alla prospettiva di altri cinque anni di questo Governo e di questa maggioranza. Molto semplicemente, non sarebbe una prospettiva -consentitemi il termine, ma mi pare il più appropriato- “ecosostenibile”…

 

 

4. Ancora “alternanza per l’alternativa”. E la sinistra? Noi ci siamo, e chiediamo che l’Unione ci accolga nella conoscenza, nel riconoscimento e nella dignità della tradizione radicale. Quanto servirebbe un’iniezione blairiana…E quanto servirebbe, almeno, ripartire dai “meriti e bisogni”…

 

 

Di qui, il titolo e la proposta politica a questo Congresso, quell’”alternanza per l’alternativa” su cui Pannella e Bonino, l’Associazione Luca Coscioni e Radicali italiani hanno così insistito in queste settimane. La scelta (lo dico, da qui, ai dirigenti e ai militanti del centrosinistra, agli elettori e ai cittadini che potranno essere raggiunti da questo nostro messaggio) è inequivoca.

 

Ma (detto e chiarito questo) con la stessa franchezza con cui abbiamo detto prima che, nel centrodestra, si rischia di gettare il seme liberale sulla pietra, dobbiamo dire che di qua non c’è una proprio una valle ubertosa, insomma non c’è Tony Blair.

 

Mi spiego con un esempio e -insieme- con un sorriso. Dieci giorni fa. Puntata di “Porta a porta” dedicata al tema “prostituzione”. Si confrontano l’onorevole Gaetano Pecorella per la maggioranza, e l’onorevole Livia Turco per l’opposizione. Attacca Pecorella, presentando un suo curioso progetto di legge (il garantismo a targhe alterne di cui si diceva prima): insomma, bisogna mandare in galera le prostitute. Guardo la tv, e mi cascano le braccia. La parola passa a Livia Turco, che sembra avere un piglio promettente: “Ma come può pensare l’onorevole Pecorella di risolvere il problema di cui parliamo arrestando le prostitute?”. E io, da casa mia, tutto contento, dico: “Forza Livia, sei tutti noi, diglielo…”. Ma lei, ahimé, riprende: “Non si può pensare di risolvere il problema arrestando le prostitute. Semmai bisogna arrestare il cliente!”. Confesso che, a questo “bipolarismo dell’arresto”, mi sono accasciato. Ecco, lo dico scherzando e con un sorriso, ma vorrei che fosse chiaro il punto: non si tratta solo di “battere Berlusconi”, di esorcizzare il demone, di abbattere il totem, di violare il tabù e di strappare il feticcio. Si tratta, magari, di costruire risposte radicalmente diverse.

 

Ora, da settimane ci si dice (anche assai autorevolmente) che con i radicali bisogna discutere sul “programma”. Benissimo, non chiediamo di meglio, e ci verrò. Ma si può far rispettosamente notare che l’Unione un programma (quello su cui ci richiama a discutere seriamente) ancora non ce l’ha? Si può far rispettosamente notare che è attiva da luglio la nota Fabbrica (sempre del famoso “programma”), con 12 commissioni al lavoro, senza che mai uno di noi sia stato invitato neanche come osservatore, magari con barba e baffi finti?  E si può far rispettosamente notare che (a parte l’importante, bello, popolare, arioso successo delle primarie, per ciò che riguarda l’intera Unione; e a parte, per ciò che riguarda i Ds, le coraggiose, forti, importanti scelte -dal loro Congresso, e fino ai referendum e fino a Fiuggi- di Piero Fassino e Vannino Chiti: e sono particolarmente felice di dirlo qui, insieme ai loro amici, davanti a Barbara Pollastrini, Lanfranco Turci e Katia Zanotti, compagni indimenticabili di una battaglia indimenticabile, che ancora ringrazio), si può far rispettosamente notare -dicevo- che gli italiani, del futuro governo di centrosinistra, hanno capito solo due cose, e cioè che ci sarà il ritiro dall’Iraq e l’abolizione della Legge Biagi? Si può dire che noi vogliamo l’alternanza, vogliamo stare con voi, vogliamo discutere sul programma, ma che questi ci sembrano due errori? Si può dire che, se il centrosinistra vincerà le elezioni, avrà subito due sfide titaniche, e cioè il rinnovo delle missioni italiane all’estero e (grazie al rapporto deficit/pil lasciato dal centrodestra, che non sarà del 3%, e neanche del 4, e forse neppure del 5, ma -chissà- forse addirittura vicino al 6%, cioè -per capirci- il doppio di quel che si richiede a chi vuole entrare nell’UE…) una finanziaria-monstre da varare, e che -per affrontare queste due sfide- una iniezione blairiana, riformatrice, e -consentitemi- radicale è necessaria? Si può rispettosamente dire che è frequente che in Europa ci sia un’alleanza tra le sinistre riformatrici e quelle estremiste, massimaliste e comuniste, ma praticamente mai (non solo Blair, ma neanche in Francia, con il prossimo congresso socialista; e meno che mai in Germania, dove la divisione è stata nettissima) si lascia il volante, o comunque una sorta di “golden share”, alla sinistra massimalista, estremista e comunista? Questo è il punto, e lo diciamo con passione fraterna proprio a chi questo ha inteso e può intendere meglio di altri, e cioè i Ds, che hanno compiuto passi importanti, costosi e quindi a maggior ragione apprezzabili.

 

Occorre una svolta culturale. Intanto, nei toni (ed è il tono che fa la musica, come si dice). Nel suo bel libro (assai citato e poco letto, come spesso capita), Luca Ricolfi, mettendo la sinistra in guardia da se stessa e dal suo “complesso dei migliori”, cita un dato impressionante. Il 34% degli elettori di sinistra, contro il solo l’8,9% di quelli di destra (e la percentuale sale vertiginosamente al 55,9% degli elettori di sinistra politicamente impegnati, contro solo il 13,8 di quelli impegnati a destra) ritiene che la propria parte politica difenda solo valori e la parte avversa solo interessi. Occorre scrollarsi di dosso questa pericolosissima e giacobina pretesa di superiorità morale. E occorre semmai concentrarsi sul tema coraggiosamente aperto (vorrei dirlo: con il suo consueto spirito di riflessione aperta, intelligente, non faziosa) da un dirigente diessino come Gianni Cuperlo presentando sul Riformista, qualche mese fa, una ricerca della SWG, nella quale si chiedeva agli elettori di centrosinistra in quali parole “si riconoscessero” e quali invece “attribuissero” all’identità di centrodestra. Il risultato è impressionante. “Riformista” viene associato alla sinistra dal 70% del campione; “progresso” dall’85, “socialdemocrazia” dall’80, “uguaglianza” dal 90, come “gestione pubblica” e “lavoratori”. E fin qui, direte voi, non c’è gran sorpresa. Ma la sorpresa non positiva viene quando emerge che meno di un quarto degli interpellati si identifica con il valore del “merito individuale”; che lo stesso quarto si riconosce nel “talento”; che la “gestione privata” arriva a mala pena al 33%; che l’”ambizione individuale” si ferma al 10% e il “rischio” (anche nell’attività economica) si attesta su uno striminzito 12%.

 

Ecco perché ci vuole una svolta. Ecco perché ci vuole più Blair. Ed ecco perché (permettetemelo) ci vogliono più radicali. Noi vogliamo (in nome dell’alternanza -subito-, e per non rendere definitivamente impossibile -poi- quell’alternativa di Rivoluzione liberale a cui non smettiamo di puntare) un’alleanza con il centrosinistra. Ma (anzi, via il “ma”: meglio “e quindi”), e quindi -dicevo- proprio perché vogliamo l’alleanza con l’Unione, riteniamo giusto che la tradizione, la storia e l’attualità radicale siano accolte dall’Unione come meritano, cioè semplicemente con rispetto, con riconoscimento pieno di diritto di cittadinanza, senza esami del sangue, e senza improvvisati doganieri che pretendano di stabilire chi passa e chi non passa. Sarebbe umiliante: e non certo per noi.   

 

Ed è su questa strada che si trova e si incrocia con il cammino dei radicali anche la migliore ricerca socialista (anche teorica). L’attuale centrosinistra ha bisogno di Blair, come avrebbe bisogno di recuperare quella Conferenza programmatica di Rimini dell’82, in cui Claudio Martelli (e Craxi ed il Psi con lui) lanciarono la sfida dei “meriti e dei bisogni”, tagliando -lo ricordava in una nostra recente assemblea Salvatore Abruzzese- la “sociologia pietrificata delle classi”, e ridando diritto di cittadinanza a sinistra (e non solo, ovviamente, come accadeva in casa radicale) ad una parola vietata e maledetta: la parola “individuo”. 

 

 

5. L’incontro con i compagni dello Sdi e la nascita del progetto comune. La proposta al Congresso: approvare il progetto “Blair, Fortuna, Zapatero. Socialisti,  laici, liberali, radicali”. Uscire dal “tunnel” dell’”unità socialista”. Parlare (o almeno provarci) al 100% del paese. Guardare avanti.

 

 

Dunque, direi che è stato naturale l’incontro con i compagni dello Sdi. Era dettato dalla storia, e -insieme- dai fatti di questi anni: per fare due esempi, la comune battaglia (saluto e cito ancora, uno per tutti, Enrico Buemi) su giustizia e carcere, e poi l’avventura referendaria, che ha visto la Federazione dei giovani socialisti guidata da Gianluca Quadrana e lo Sdi in quanto tale protagonisti, e non dalla fine, ma dall’inizio.

 

Io credo che sia un esempio di forza, di tenacia personale e politica quel che Enrico Boselli, Roberto Villetti e i loro (e mi permetto: i nostri) compagni hanno fatto, anche in queste settimane, resistendo a blandizie, avvertenze (e anche qualche avvertimento…) che giungeva a loro da molte parti. Non deve essere stato facile: e in politica le cose non facili e non scontate hanno un valore speciale, che questo nostro Congresso farà bene a salutare ed apprezzare. E a valorizzare il fatto che, per loro come per noi, questo percorso abbia un carattere non congiunturale, ma strategico, sia e voglia essere un “pensiero lungo”, e non un “accrocco” elettorale destinato a nascere dieci giorni prima e a morire dieci giorni dopo le elezioni.

 

Per questo, mi auguro che questo nostro Congresso voglia approvare con slancio la linea e la proposta che Radicali italiani, ma anche l’Associazione Coscioni, Marco, Emma, presentiamo: di dire il nostro sì, anche formale, alla nascita di un nuovo soggetto politico, ispirato a Blair, a Zapatero, a Fortuna, insomma, a questo nuovo progetto socialista, liberale, laico e radicale. E chiarisco subito in che termini.

 

Proprio per le ragioni che dicevo all’inizio (perché -cioè- abbiamo maledettamente bisogno di un “logo” che sia anche “logos”, cioè “parola”); proprio perché c’è (speriamo che sia invertita, magari proprio in occasione di questo congresso) la tendenza della grande stampa a soffocare questo nostro tentativo (la storia la conosciamo: per tutti gli anni  ’90, leggevamo splendidi editoriali sulle liberalizzazioni economiche, mentre si censuravano i nostri referendum; proprio come oggi -e in genere, sono le stesse firme e le stesse testate- leggiamo splendidi editoriali sulla sinistra che deve divenire più blairiana, mentre si nasconde questo nostro progetto); ecco, per tutto questo, non possiamo restare intrappolati nella palude passatista e politicista. Con lo Sdi, non vogliamo (e non vogliono loro) fare amarcord, foto di famiglia o restauri delle vecchie case. Non vogliamo parlare alla somma degli elettorati di riferimento, al 4 o al 5% del paese: vorremmo parlare (o almeno provarci) a tutti, aggregare opinione, creare consensi e dissensi, sapendo che solo se qualcuno si “arrabbia” c’è qualcun altro che potrà appassionarsi. Ma guai alle assemblee politiche che parlano solo alle persone che si trovano in quel momento in sala, e che -peggio ancora- parlano solo delle cose che interessano solo a coloro che si trovano in sala.

 

Per questo, con amicizia e quindi con doverosa franchezza, voglio anche esprimermi sul Congresso del Nuovo Psi della scorsa settimana. Abbiamo difeso quel Congresso, e voglio farlo anche da qui, da un tono sprezzante, superiore, insopportabile, che tanti osservatori hanno avuto e -peggio- ostentato. E’ evidente che vi siano state (come si direbbe al Processo del lunedì) scene che non avremmo voluto vedere, ma è altrettanto evidente -almeno dal mio punto di vista- che siano preferibili luoghi in cui si discute con molta (magari troppa) passione rispetto alle convention con gli applausi preregistrati, o le caffetterie dove colonnelli si incontrano di soppiatto per dire peste e corna del loro leader, o congressi che -molto semplicemente- non vengono neppure convocati. Detto e ribadito questo, però, voglio dire a Bobo Craxi (che è sembrato ed è, con Saverio Zavettieri e gli altri amici che sono qui, assai più deciso nella prospettiva del nuovo soggetto politico socialista, liberale, laico e radicale) e a Gianni De Michelis (che ha invece scelto una linea di attesa: e -mi permetterà Gianni il sorriso amichevole- quando ho sentito Gianni parlare di “esplorazione”, è stata irresistibile la tentazione di immaginarlo con la camicia kaki di Indiana Jones e il cappello da esploratore per andare ad “esplorare”, appunto, i radicali e lo Sdi…), ma insomma, voglio dire in primo luogo a Bobo, e poi (come ho detto, su un piano diverso) a Gianni e a tanti altri, che questo progetto dei radicali e dello Sdi (che intanto è partito) spera naturalmente di vedervi partecipi, e però…mi si consenta un però…Io ho detto e ripetuto molte volte che, contro il Psi e contro i socialisti, si è realizzata un’operazione violenta, da carri armati. Claudio Martelli, citando Clausewitz, ha recentemente ricordato che un nemico lo si può annientare uccidendo i capi o invadendone il territorio, e ha aggiunto che con i socialisti italiani si sono fatte entrambe le cose. Io credo che abbia ragione. Ma credo che ora, pur forti di tutta questa consapevolezza e senza voler rinunciare neppure a un millimetro delle nostre tradizioni, identità e obiettivi, bisogna guardare avanti. Consentitemelo, anche fraternamente: smettiamola di parlare di ”diaspora” socialista: io non vedo un popolo d’Israele e soprattutto non vedo -ora- alcun Mosè. Come diceva quella canzone, usciamo dal “tunnel” dell’”unità socialista”. Ha ragione Emma: è stata usata questa chiave per nevrotizzare e psicotizzare un Congresso, per occultare e soffocare un progetto politico, per neutralizzare la carica di novità che una cosa nuova -appunto, per definizione- deve avere. Se no, è un “accrocco”, è una rimasticatura: e sarà gioco facile per tutti (e c’è chi non chiede di meglio) presentare tutto in modo respingente e perfino repellente. Lo diciamo subito: noi una campagna elettorale così (al grido di: “Il segretario sono io!”, “No, impostore, il segretario sono io!”), una campagna così non la vogliamo fare.

 

Morale. Lo Sdi e i radicali partono (e questo è il mio auspicio sulla decisione congressuale che prenderemo). Sono certo che anche voi ci sarete, che altri ci saranno. Ma ora basta con la testa voltata all’indietro, perché se si pensa di camminare o di correre così -con la testa voltata all’indietro, appunto- si cade e ci si fa male. Ci si fa molto male. E a farci male saranno gli elettori, che -come sarebbe giusto, a quel punto- ci punirebbero severamente.

 

 

6. Il percorso di Fiuggi: la necessaria accelerazione. Simbolo e partecipazione popolare diretta. La Rosa nel pugno. Tre “proposte-manifesto” di iniziativa immediata e di impegno concreto, per prima e per dopo le elezioni: PACS, droga, ordini professionali (liberare il paese dalle catene corporative).  

 

 

E’ per questo che Sdi, Radicali italiani, Associazione Coscioni e Federazione dei giovani socialisti stanno procedendo sulla linea di Fiuggi. Ed è per questo che ora occorre una decisa accelerazione.

Nella dichiarazione finale di Fiuggi si legge, tra l’altro, che i soggetti promotori “decidono di trasformare il patto di consultazione già siglato ad agosto in un Coordinamento politico ed elettorale. A questo scopo, gli organi dirigenti delle quattro organizzazioni sono costituiti in un Comitato di coordinamento, con gli obiettivi, entro il 15 novembre: di definire le altre, prossime tappe -anche formali- della costituzione del nuovo soggetto politico socialista, liberale, laico, radicale; di individuare nome e simbolo del nuovo soggetto politico; di definirne programmi e obiettivi di iniziativa in Parlamento e nel paese, a partire dal documento di ingresso alla Convenzione di Fiuggi”.

Su tutto questo, il lavoro è speditamente in corso, e il calendario sarà rispettato (semmai, è auspicabile che la scadenza del 15 novembre sia addirittura anticipata). Mi assumo qui la responsabilità di alcune valutazioni e proposte, su ciascuno dei punti nodali.

Quanto al rapporto formale tra i soggetti promotori, forse la soluzione più saggia (ne ha fatto cenno, anche in queste settimane, proprio Marco) può essere quella federativa, con l’individuazione delle “quote di sovranità”, delle competenze, delle attribuzioni da devolvere (questa è una “devolution” che ci piace…) all’entità federale.

Quanto al simbolo, la discussione è aperta con i compagni dello Sdi. A me, e credo non solo a me ma a tanti di noi, piacerebbe che il simbolo del nuovo soggetto fosse quello che è un simbolo socialista per antonomasia (come socialisti sono Blair e Zapatero, e come lo era Loris Fortuna), quello che è il simbolo dell’Internazionale socialista, e dei Partiti socialisti spagnolo, tedesco, francese: la gloriosa “rosa nel pugno”, inutilizzata in Italia da ben 19 anni (dal 1987), e che -vorrei dire- è stata custodita per questo appuntamento. La rosa riformatrice e il pugno che non colpisce, ma la offre, e lotta, rinnova la sua lotta antica offrendo -appunto- un fiore. E per queste stesse ragioni, mi piacerebbe che “Rosa nel pugno” fosse anche il nome, oltre che il simbolo, di questo nostro nuovo soggetto. E’ cosa forte, che non dà il senso della bicicletta, della piccola avventura elettoralistica; ed è cosa che appartiene al vissuto di tanti, e che richiama immagini, ragioni e sentimenti pienamente socialisti, pienamente liberali, pienamente laici, pienamente radicali. Vedremo, discuteremo.

Quanto alle prossime scadenze, mi piacerebbe che subito dopo il prossimo Consiglio nazionale dello Sdi, a decisioni prese, ci fosse un cambio di passo e -vorrei dire- un cambiamento di scenario anche fisico. Dalle sale dei nostri bei Consigli, Convenzioni e Congressi, alle piazze, alle strade: dall’8-9 novembre, da quando sarà immediatamente possibile, tavoli e gazebo in tutta Italia per far fisicamente vedere e far politicamente fiorire la rosa nel pugno (io spero) in tutte le piazze e le strade che potremo raggiungere. Per far firmare un ideale “io ci sto” a chi vorrà, su alcuni punti; per aprire subito (Marco Cappato ci ha già lavorato, con altri compagni) forme di registrazione (per chi vorrà, 1 euro; per chi potrà, 100 euro, o chissà) e di adesione diretta al progetto che parte; per costituire nuovi indirizzari e nuova militanza; per favorire forme di partecipazione fisica e telematica.

Sono anche convinto che in questa occasione i radicali possano decidere un impegno elettorale non solo per le elezioni politiche, ma anche per le immediatamente successive elezioni amministrative: tutti, ma proprio tutti i compagni, i militanti socialisti, liberali, laici e radicali possono sentire quella rosa nel pugno (io spero) come il simbolo sia della battaglia politica nazionale sia di quella nella loro città, nel loro Comune, per fare di quella scadenza non la consueta tornata locale e localistica, ma l’occasione per portare anche in quella competizione il respiro e gli obiettivi del progetto nuovo che nasce.

E quanto ai programmi e agli obiettivi, appunto, siamo molto aiutati dai 31 punti di Fiuggi, che rappresentano una base di partenza importante. La politica italiana ha il vizio del vecchio avanspettacolo, con il militare in libera uscita sudato e su di giri che dalla prima fila grida alla ballerina sul palco:“’A mossa, facite ‘a mossa…”. Ecco, noi non vogliamo “fare mosse”, vogliamo fare riforme. Meno politics, cioè meno tatticismo e chiacchiericcio politicista, e più policy o più policies, più concrete proposte di cambiamento. Ripeto: nel documento di Fiuggi c’è tanto, dalla giustizia (con carcere e amnistia: e -non c’è bisogno di ripeterlo- il lavoro radicale e del “Il detenuto ignoto” è proceduto fianco a fianco con quello dei compagni socialisti) all’economia (Michele De Lucia, a cui facciamo i complimenti per il suo importante libro in uscita, animerà con autorevoli personalità una commissione economica che avrà anche al centro il tema della riscrittura di un sistema di welfare che non tiene più, a forza di casse integrazioni e -vorrei dire- di “cassintegrazionismo”, di una tutela ormai ideologica dei settori meno trainanti e strategici). Non c’è neanche bisogno di aprire il capitolo delle simultanee lotte in materia di libertà civili (del Concordato -questione cruciale, e non c’è certo bisogno di spiegare perché- ho già detto; poi c’è tutto l’essenziale dell’attività dell’associazione Coscioni; e poi la RU486 di Silvio Viale e degli altri compagni, che in modo splendido vedono una battaglia “clonarsi” -qui ci vuole- regione per regione; e poi l’eutanasia, che è questione sociale, con persone ed intere famiglie che -alla lettera- a questo vedono sospesa la loro vita, o, più spesso, la loro morte, una morte nel dolore, senza pietà e senza dignità); e ancora, su un altro piano, la ripresa di respiro e vorrei dire di “vision” ambientalista, grazie ad Aldo Loris Rossi e agli Amici della Terra; tutto il pacchetto (direi “boniniano”) di politica estera deciso insieme a Fiuggi; e non mancherà (qui, come radicali, senza impegno per altri) anche una riflessione sulla parte istituzionale ed elettorale, perché non abbiamo nessuna intenzione di ammainare la bandiera presidenzialista, federalista, maggioritaria (ne discuterà una commissione animata da Marco Beltrandi).  

Fermi restando quei punti, io, per parte mia, mi assumo la responsabilità di suggerire tre priorità, tre “proposte-manifesto” di iniziativa immediata e di impegno concreto, per prima e per dopo le elezioni. E confesso che mi piacerebbe che decidessimo di ripetere queste tre cose come un “mantra”, facendone da subito oggetto di iniziativa (se possibile, pure legislativa, anche in questo finale di legislatura), oltre che di attività nel paese (nelle piazze e nelle strade, come dicevo prima, come nostro biglietto da visita). E sono tre cose che -ciascuna- riguardano la vita, il vissuto e le attese di alcuni milioni di persone.

Primo. Se questo soggetto politico sarà in Parlamento, farà il possibile e l’impossibile per trasformare in legge dello stato i Pacs. Cancellando discriminazioni odiose, e assicurando pari dignità e protezione alle scelte di milioni di donne e di uomini, omosessuali come eterosessuali. Chi conosce questi temi e li affronta senza il velo del pregiudizio, sa che negli Stati Uniti il nostro dibattito apparirebbe jurassico: piaccia o no, lì è ormai un elemento acquisito dell’attuale complessità sociale (è un fatto con cui ciascuno ha intellettualmente fatto i conti) che vi siano -ad esempio- coppie omosessuali che accedono all’istituto del matrimonio, o che ricorrono alla fecondazione eterologa, o che adottano. La mia personale opinione è che, anche in questo campo, il proibizionismo marchi la sua sconfitta. Ma noi non chiediamo tanto, non vogliamo quello, ora. Noi vogliamo e ci batteremo per l’approvazione dei Pacs. Ma insomma, mi chiedo: ci sarà qualcosa di strano in un centrodestra che rifiuta la proposta non di Zapatero, ma di Aznar, su questo? Ci sarà qualcosa di strano in una situazione per cui leggi sulle unioni civili, in Europa, esistono già in Francia, Germania, Olanda, Belgio, Portogallo, Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda, Lussemburgo, Croazia, Gran Bretagna e Svizzera, e in cui mancano all’appello solo Grecia, Irlanda e Italia? E ci sarà qualcosa di strano in una situazione in cui, nel centrosinistra, se Romano Prodi parla di pacs, succede -letteralmente- un’”iradiddiio”, e, alla fine della fiera, il cardinale Pompedda sembra avere una posizione più avanzata di quella di Francesco Rutelli? A proposito: il listone, la lista unica, che posizione avrà sui pacs o sulla fecondazione assistita? Quella di Fassino o quella di Rutelli? Domanda interessante. Intanto, occorrerà far sapere agli elettori che la nostra risposta è chiara.

Secondo. Se questo soggetto politico sarà in Parlamento, farà il possibile e l’impossibile per un cambiamento di rotta a centottanta gradi sulle politiche in materia di droghe. E, anzi, si batterà da subito per evitare il colpo di mano che -in questo finale di legislatura, attraverso un piccolo stralcio- vorrebbe portare la maggioranza ad approvare la norma che prevede il carcere (ripeto: il carcere) per chi sia trovato con sette-otto spinelli (cioè, potenzialmente, il carcere per centinaia di migliaia, o forse per qualche milione di persone). Lo dico con molta franchezza, anche rispetto alla triste cronaca di queste settimane: ma come si fa a parlare di Calabria e malavita senza mai nominare la parola “droga”? E’ come parlare di Al Capone senza citare l’alcool. Perché le nostre destre e le nostre sinistre fanno finta di non sapere che la ‘ndrangheta calabrese è ormai al quasi-monopolio sulla cocaina, avendo soppiantato la mafia siciliana? Stime attendibili parlano di un fatturato (per la sola ‘ndrangheta calabrese, e per la sola cocaina) di 50mila milioni di euro l’anno: ne vogliamo parlare, o continuiamo a far finta di affrontare i temi della sicurezza e dell’ordine pubblico? Lo dico con grande rispetto (e anche con ammirazione) ad un uomo politico come Gianfranco Fini, che quest’anno su tante cose ha dato lezioni di laicità e ha tenuto accesa la speranza di una destra italiana alla Aznar. Ma perché -ora, e proprio ora- questo rigurgito proibizionista? Perché ora -proprio ora- Francesco Storace (che sulla RU486 i compagni torinesi e tutti gli italiani hanno avuto modo di “apprezzare” -diciamo così- nella sua veste di guardia svizzera, più che di Ministro della Repubblica) ipotizza lo scambio “par condicio” versus “legge sulla droga”? Davvero AN ha bisogno (come la Lega con la devolution) di una bandierina da sventolare? E davvero ha scelto di sventolare proprio questa? Io sono certo che, con l’onesta intellettuale e il coraggio personale che lo ha contraddistinto su fecondazione e pacs, Gianfranco Fini, tra qualche anno, ci dirà di avere mutato posizione, e noi lo applaudiremo, come sarà giusto. Ma nel frattempo -se è lecito chiederlo- quanti altri arrestati da marijuana, e -soprattutto- quanti altri morti da eroina di strada o da coca tagliata come viene tagliata ci saranno stati? A proposito: il listone, la lista unica, che posizione avrà su questo? Quella di Fassino o quella di Rutelli? Domanda interessante. Intanto, occorrerà far sapere agli elettori che la nostra risposta è chiara.

Terzo. Se questo soggetto politico sarà in Parlamento, farà il possibile e l’impossibile non per la “riforma” (come vagamente e qualche volta ipocritamente si sente dire), ma -come principio e come direzione di marcia- per l’abolizione degli ordini professionali o almeno di larga parte di essi, e di tutti quei ceppi corporativi, protezionistici, illiberali che impediscono al paese di camminare. Noi vogliamo spazzare via i privilegi di pochi che -invece- tutti sono chiamati a pagare. Lo diciamo con chiarezza: la medicina e la salute non appartengono né ai medici, né agli infermieri, né ai farmacisti; l’università non appartiene ai professori (e neanche agli studenti occupanti); l’informazione non appartiene né all’ordine dei giornalisti né alla lobby degli edicolanti; il trasposto e la mobilità non appartengono ai tassisti; il mercato degli scambi e delle compravendite non appartiene ai notai. Guardate che non sono cose astratte, ma riguardano la vita concreta di milioni di donne e di uomini. Io sogno di vivere in un paese in cui, se un anziano ha bisogno di un’aspirina in un giorno di festa, non debba spendere 20 euro di taxi per farsi il giro delle farmacie chiuse, ma possa spendere solo 5 o 6 euro di taxi (come in tante altre capitali occidentali) e arrivare al supermercato più vicino, dove ci sarà anche il banco dei medicinali. Io sogno di vivere in un paese in cui, per trasferire la proprietà di un’auto usata, non sia necessario pagare il dazio al notaio. Io sogno di vivere in un paese in cui, avendo eliminato il valore legale della laurea, studenti e famiglie possano cominciare per davvero a domandarsi se il professore dell’università locale sia bravo. Guardate, ci sono, in questo momento, due libri da leggere: uno è quello di Tremonti, per dissentire; l’altro è quello del professor Francesco Giavazzi, per farne il nostro programma, il nostro manifesto. E per capire che è ben strano un paese in cui, a “Porta a porta”, il segretario della UIL Angeletti pone ottimamente questa questione, e il Ministro Tremonti cerca -invece- di svicolare e di sottrarsi. Vedete, io che pure difendo la legge Biagi, comprendo una critica che viene fatta: ma perché gli unici a rischiare, a stare davvero sul mercato, debbono essere i lavoratori? Domanda giusta, e la risposta giusta non è quella di sottrarre loro al mercato, ma quella di portare sul mercato anche tutti gli altri, anche tutte le lobby e corporazioni che vivono su rendite comode, parassitarie, finora inattaccabili. Fa benissimo, da questo punto di vista, il professor Giavazzi a chiedersi, mentre i tassisti di New York sono afghani, curdi, vietnamiti, perché i tassisti di Castelfranco Veneto siano -invece- tutti di Castelfranco Veneto, mentre contemporaneamente nelle imprese della stessa Castelfranco Veneto i lavoratori italiani sono una minoranza. La risposta -lo ripeto- deve essere: non solo alcuni, ma tutti sul mercato, con i rischi e le opportunità che questo comporta. Su tutto questo è istruttivo rileggere cosa ha detto il ministro Castelli: “La Commissione europea e l’Antitrust vorrebbero abolire gli ordini; noi invece siamo impegnati a difenderli perché pensiamo che gli ordini e tutto il ricco mondo delle professioni siano un patrimonio fondamentale della nostra società”. Ed ecco cosa ha scritto lo stesso Berlusconi al Presidente del Comitato unitario delle professioni: “Noi pensiamo che il sistema degli albi professionali regolato per legge sia molto meglio del sistema delle libere associazioni di professionisti presenti nei paesi anglosassoni”. Così, l’uomo del -come si chiamava? ah, sì…- “partito liberale di massa”…Ecco, noi invece, con il professor Giavazzi, siamo convinti del contrario: che queste associazioni all’inglese, diversamente dai nostri ordini (che, a parte radiare Enzo Tortora, non cacciano mai nessuno…), che le associazioni all’inglese -dicevo- abbiano tutto l’interesse a comportarsi bene, perché la loro sorte non è garantita una volta per tutte, ma vive sul mercato, e vive della loro buona reputazione. Ma chi le può fare queste riforme, se non noi? Lo sapete che un parlamentare su tre in questa legislatura è iscritto a un ordine professionale? Insomma, abbiamo capito che il centrodestra non è stato liberale neanche su questo. Resta da capire se vorrà esserlo la sinistra. A proposito: il listone, la lista unica, che posizione avrà su questo? Domanda interessante. Intanto, occorrerà far sapere agli elettori che la nostra risposta è chiara.

Quindi, lo ripeto. Primo: i pacs, per la fine di discriminazioni insopportabili e per una conquista di civiltà e di dignità per milioni di donne e di uomini, omosessuali e non. Secondo: antiproibizionismo sulle droghe, per contrastare le mafie sul serio, e -insieme- per evitare la violenza, la pericolosità  e perfino la stupidità del carcere per un ragazzo preso con sette spinelli. Terzo: abolizione degli ordini professionali, per riaprire un paese chiuso, per sbloccare un paese bloccato, per sconfiggere l’Italia dei monopoli, delle corporazioni, dei privilegi.  

Scusate se mi fermo ancora su quest’ultimo punto, che a me pare decisivo perché può davvero darci un tono, una chiave, e aiutarci a recuperare anche la questione “generazionale” posta a suo tempo da Mario Monti. Io sono convinto che una battaglia di questo genere sia davvero “di sinistra”, se “sinistra” è per definizione difesa del più debole. Ed è qui che incontriamo Blair: sia il Blair che denuncia l’iniquità (oltre che l’inefficienza) dell’attuale modello sociale europeo (con 20 milioni di disoccupati; con l’India che ha più laureati dell’Europa e che espanderà di cinque volte il suo settore biotecnologico; mentre in Italia, tanto per capirci, l’età media dei nostri professori universitari è 57, e quella dei ricercatori è 47…e avete capito bene…)…ecco, incontriamo sia questo Blair, sia il Blair che, oltre a individuare il male, cerca e trova una possibile terapia, e spiega che, come gli anni ’80 sono stati quelli dei sindacati, e gli anni ’90 quelli dell’economia, gli anni Duemila devono essere centrati sulla scelta, sulle possibilità di scelta e di scelta differenziata del consumatore di servizi. I politici italiani dovrebbero imparare a memoria queste parole, e magari anche le altre che Blair ha recentemente aggiunto: “Ogni volta che ho introdotto una riforma, in seguito mi sono pentito solo di non essermi spinto ancora più avanti”.

 

7. Conclusioni. Un Congresso straordinario dopo le elezioni. La centralità del Partito Radicale Transnazionale, che diverrà Nonviolent Radical Party. Il “caso Coscioni”, il “caso Bonino”, il “caso Pannella”. Un invito per tutti: una incessante, inesausta ricerca. A volte il frutto cade lontano dall’albero…

        

E -consentitemelo- proprio nell’espansione della libertà che crea opportunità per tutti, c’è il crocevia in cui l’alternativa liberale incontra l’attualità dell’ideale socialista, e cioè la costruzione di una maggiore giustizia sociale. Se ci pensate, nell’Italia di oggi, è proprio il mix radicale “libertà-legalità” che può consentire al più debole di difendersi: altrimenti, nella giungla della non libertà, del non mercato, e -insieme- dell’assoluta incertezza del diritto, il debole è fatalmente destinato a soccombere, mentre il più forte un modo di difendersi lo troverà sempre prima o poi, così come chi sta al caldo in una corporazione sarà protetto da questa, o comunque troverà un’intesa con le altre corporazioni. E allora, occorrono più libertà, più legalità, e -anche- più conoscenza, che è l’altro straordinario strumento di difesa dei “meno armati socialmente”. E qui, consentitemi di dire che leggendo la bella pagina che l’ultimo libro di Ugo Intini dedica alle origini de “L’Avanti”, la gloriosa testata -scrive Ugo- che “aveva alfabetizzato, all’inizio del secolo, generazioni di proletari che, aiutati dai maestri di scuola socialisti, nelle sezioni, nelle trattorie, nei dopolavoro, compitavano, alla luce della candela, il fondo di Bissolati o il racconto di De Amicis, il saggio di Salvemini e di Anna Kuliscioff, oppure gli articoli che oggi sarebbero definiti di education (contro l’alcolismo e la violenza sulla donna, per l’igiene, il controllo delle nascite e il rispetto degli animali)”, ecco, consentitemi di dirvi che leggendo queste parole di Intini che ho voluto citare, e pensando a cosa in fondo svolga, nell’Italia di oggi, cento anni dopo, questa funzione, non posso pensare ad altro che a Radio Radicale. Ma non voglio divagare e, anzi, debbo concludere.

Quanto al nostro soggetto politico, Radicali italiani (che, fatemelo dire: vive grazie all’opera miracolosa di Rita Bernardini e di pochissimi altri compagni a Roma, e di tanti -per fortuna- in giro per l’Italia), io riterrei molto salutare, dopo le decisioni che saranno prese qui a Riccione (sulla linea politica, sugli organi, su tutto: e in attesa di quelle dello Sdi, della Fgs e dell’Associazione Coscioni -tra l’altro impegnata su ulteriori tre fronti di cui ci parleranno, immagino, gli stessi Cappato e Turco), io riterrei salutare -dicevo- che non si attendesse per un anno intero, fino al prossimo ottobre, per il successivo Congresso. Ora, dal 1° novembre in poi, abbiamo cinque mesi densissimi: ma, subito dopo, mi parrebbe utile la convocazione di un appuntamento congressuale straordinario dopo le elezioni, per capire insieme cosa sarà accaduto, e fare tutte le valutazioni del caso, senza dover attendere altri sette mesi per rivederci a Congresso. E dico questo perché allora (speriamo in positivo ma non possiamo escludere anche l’ipotesi opposta, quella negativa) una fase si sarà chiusa ed altre dovremo immaginarne, a cominciare dal se e come (ripeto: se e come) questo soggetto politico possa e debba vivere. La biodegradabilità è questo, o non è.

E in questo senso, voglio dire qui alcune parole chiare (sarò breve, ma credo nettissimo) sul soggetto politico di cui Radicali italiani è, con altri, soggetto costituente: il Partito Radicale Transnazionale. Io non riesco ad immaginare alcun senso politico della vita e dell’opera di Radicali italiani, come degli altri soggetti radicali, se non siamo in grado di far vivere le ragioni e le speranze del Partito Radicale, che, su proposta di Pannella, diverrà probabilmente Nonviolent Radical Party, e cerca in queste settimane (in particolare con il lavoro, insieme a Pannella, di Maurizio Turco, Marco Beltrandi, Marco Cappato) di costituire per la prima volta il suo Consiglio generale. E’ importante che decine di parlamentari italiani abbiano scelto di iscriversi, con in testa i compagni dello Sdi; e voglio salutare qui la positiva scelta di Benedetto Della Vedova e dei suoi amici, di fare anch’essi la propria parte per questo grande obiettivo. Ho detto molte volte che nel progetto del Partito Radicale, in quella mozione di Tirana sulla promozione globale della libertà e della democrazia, c’è perfino una sintesi della cinquantennale vicenda radicale. E’ un patrimonio che sarebbe delittuoso dilapidare.

Ma -intanto- dobbiamo anche affrontare e guardare negli occhi quelli che io considero tre veri e propri “casi”. Il primo è il “caso Luca Coscioni”, che ha -fatemelo dire- svelato la politica italiana a se stessa. Ma che politica è quella che lo ha escluso dal Comitato Nazionale di Bioetica? E che politica è quella, che, alle ultime regionali, è giunta perfino ad opporre un veto sul suo nome e sulla sua persona? Io dico qui che occorre che nel prossimo Parlamento italiano la voce di Luca Coscioni ci sia. Sarà un problema del Parlamento italiano, ma quella voce ci deve essere… Occorre che l’incredibile, odiosa ferita della scorsa primavera sia sanata. E la ferita che va sanata -badate bene- non è quella inflitta a Coscioni o ai radicali; è quella che, attraverso il no a Coscioni e ai radicali, la politica ufficiale italiana ha inferto a se stessa. Sia chiaro. 

E poi c’è il “caso Bonino”, non meno grave e insopportabile. Dai, spogliamoci per un momento della nostra casacca radicale, e consideriamo la questione. E’ semplicemente lunare, oltre che inspiegabile per qualunque osservatore internazionale, che la politica italiana, le istituzioni italiane dispongano (e lo sanno) di una simile opportunità, di una simile risorsa, e non sappiano far di meglio che candidarla a tutto, per poi dire che “purtroppo, stavolta, non è stato possibile farcela...”. Questa storia di sciatteria, di leggerezza e -insieme- di furbo e ostinatissimo ostracismo deve finire, e ne deve cominciare un’altra. Occorre voltare pagina.

Come pure occorre guardare negli occhi il “caso Pannella”, che forse -mi è già capitato di dirlo- esiste anche tra gli stessi radicali. Marco ci fa dannare tutti, prima o poi, e vale per lui quel che è stato detto …della provvidenza: magari affligge, ma non abbandona. E però, battute a parte (fatemene fare qualcuna: sono pur sempre un’opinionista di Markette e un collaboratore di Piero Chiambretti fiero di esserlo…), battute a parte -dicevo- dobbiamo non solo augurarci, ma lavorare perché Marco ritenga possibile esprimersi e vivere questa sua stagione politica e civile sentendosi forte e non “zavorrato” dal movimento radicale organizzato. Io credo che abbiamo tutti tre modi di essere riconoscenti a Marco. Il primo è studiare studiare studiare la storia radicale, che è un’autentica miniera per l’oggi: con Carmelo Bene, si potrebbe dire che noi non parliamo, ma per tanti versi “siamo parlati” dalla storia radicale e da quella di Marco. Il secondo vale per ora e per il futuro: l’impegno a far conoscere questa storia, a farla vivere, a conservarne memoria e attualità (fatemelo dire, con rispetto, a Paolo Mieli: che dolore vedere le ricostruzioni notturne della Storia della Repubblica su Raitre, in cui le stesse parole “radicale”, “radicali”, “Pannella” sembrano impronunciabili…): ma noi (e qui mi permetto di dire: io, anch’io) prendiamo, prendo l’impegno, ed è un impegno di lustri, a far sì che queste pagine di storia e di memoria non siano strappate e divelte con tanta violenza. Il terzo non è contraddittorio con i primi due, ma ne è un naturale sviluppo: studiare e difendere la memoria possibile della storia radicale vuol dire anche (ripeto, anche, e -se volete- su un piano diverso: cioè distinguendo le cose, ma facendole entrambe, e può essere una straordinaria avventura intellettuale, politica e civile) cercare anche una crescita possibile, uno sviluppo possibile, senza essere beghine di quella storia che recitano le giaculatorie. Io credo che (insieme -per carità- a mille altre cose, a mille altri stimoli che vengono da altri compagni impegnati su fronti -diciamo così- più tradizionali) tante ricerche apparentemente un po’ più eterodosse, o meno “facili”, o più di confine, o di meno immediata coniugabilità con il “mainstream” storico radicale siano ciò di cui abbiamo più bisogno…Cito in ordine sparso, disordinatissimamente, e forse facendo torto a tutti: le ricerche “ultrablairiane” di Antonio Tombolini, i percorsi camusiani (ma ora anche leopardiani e …pannelliani: qualcuno sa a cosa mi riferisco) di Enrico Rufi, lo strepitoso blog di Federico Punzi, l’opera “americana” di Matteo Mecacci, e perfino -se posso- l’aver raccontato io stesso che Pim Fortuyn non era un pericoloso fascista e che i neocon non mangiano i bambini…, ecco tutto questo va vissuto come qualcosa di cui abbiamo una maledetta necessità…Noi viviamo se siamo e sappiamo essere “meticci”, se siamo e sappiamo essere “ogm”, se sappiamo che a volte le nostre radici stanno sui rami, che il frutto può cadere lontano dall’albero, e che noi siamo felicemente condannati ad essere -insieme- radici, albero, ramo e frutto.  

 “Rinnovarsi o perire”, diceva un grande socialista italiano. Senza ricerche frettolose di nuovismi, per carità, ma -anche- senza feticismi e passatismi: anzi, i due vizi mi appaiono come le due facce di una stessa medaglia.

Ma insomma, quel che conta è il coraggio di una incessante, inesausta ricerca, senza calcoli micragnosi o tatticismi sparagnini, provando -invece- ad offrire al nostro partito il meglio di noi stessi e di questa nostra ricerca. Dicono perfidamente (ma quanto giustamente!) gli inglesi che quando si sta in politica, si è troppo impegnati a restarci, e si rischia di avere tempo solo per quello, cioè solo per restarci. Non è per questo che ciascuno di noi ha deciso di essere qui; e non è per questo che abbiamo tutti deciso di esserlo ancora. Care e cari compagni, auguri per le decisioni che dobbiamo prendere, e -di cuore- buon Congresso. Grazie.



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