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Cavar soldi dal "matto": in Vaticano ci si fa un pensierino

16 febbraio 2006

di Luigi Castaldi

Quanto scommettiamo che entro la fine del 2006 – non ha importanza se al governo ci sarà una maggioranza di centrodestra o di centrosinistra – si aprirà un dibattito sulla legge 180 del 13 maggio 1978? Sì, quella meglio nota come “legge Basaglia”, dico proprio quella. E quanto scommettiamo che questo dibattito sarà sollecitato da una o due sortite delle gerarchie vaticane, che subito saranno raccolte e rilanciate dai politici che trasversalmente ai due schieramenti le hanno a referenti? Qualche segnale già c’è, anche se della mano vaticana c’è solo la maniera, saggiata con la legge 194: “(ANSA) - ROMA, 28.12.2005. Il Governo ‘metterà mano alla legge 180, perché si tratta di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie’. Lo ha detto il ministro per la Salute, Francesco Storace, a margine della cerimonia di insediamento del nuovo presidente della Croce Rossa Italiana. Storace, riferendosi alla legge Basaglia sulle malattie mentali, ha precisato che non vuole ‘mettere in discussione l’‘impalcatura della legge’, ma, ha aggiunto, ‘ci sono cose che 30 anni dopo vanno ridiscusse’”.

Vietando la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici e il ricovero di pazienti affetti da disturbi mentali in quelli già esistenti, la legge 180 ha, de facto, svuotato i tradizionali megamanicomi presenti in Italia, alcuni dei quali erano sostanza di antonomasia, cifra di legenda e topos lessicale, fino a portarli alla chiusura. Ne è venuto il proliferare di minimanicomi, “case famiglia”, comunità e consimili cronicari. In realtà, la “legge Basaglia” aveva un fine assai più nobile: stabilire dei limiti all’istituto del ricovero coatto in psichiatria, definendo i diritti di autodifesa e di autotutela dei cittadini a fronte dell’arbitrio della diagnosi psichiatrica, spesso usata in modo strumentale, se non doloso. Verso la fine dello stesso anno nella quale fu varata la “legge Basaglia” venne inglobata nella legge 833 del dicembre 1978 (artt. 33, 34, 35 e 64).

La sanità privata alla diretta e indiretta disponibilità del Vaticano è sempre stata dinamica e intraprendente, volendo concedere eufemismi; queste virtù sono sempre state esaltate da una rete capillarmente distribuita sul territorio italiano, che ha sempre goduto di agevolazioni amministrative e fiscali (ultimi “regali” da parte della Repubblica italiana i provvedimenti di esenzione dall’imposta Ici) e che ha sempre potuto contare su una massa attiva di dipendenti e volontari, chierici e laici, sulla quale il controllo diretto delle gerarchie ecclesiastiche è sempre stato attentissimo. Il sistema è analogo a quello delle Coop nelle “regioni rosse” e ha fin qui realizzato un potentato economico, e non solo, fatto di clientele, favori e ricatti che sarebbe difficile sradicare, se pure si volesse. E’ in questo modo che Pci e Vaticano sono entrati “nel cuore” di una parte del Paese, mischiando interesse e fede, pagnotta e ideale, obbedienza offerta e utile personale di ritorno. Il problema, per entrambi, è sempre stato il sistema di finanziamento di macchine costosissime che venivano subendo l’insidia di soggetti concorrenziali “laici”, a-confessionali. Fin quando la Prima Repubblica riuscì a mediare le emergenti pulsioni concorrenziali nei relativi ambiti, il monopolio, per esempio, delle Coop nel settore alimentare in certe regioni, o quello della rete nazionale delle pie “comunità-alllogio” per anziani in mano al Vaticano, resse: la società italiana era – e, per certi versi, è ancora – profondamente intrisa di acquiescenza alla prepotenza di privilegi che fondano un’istituzione paternalistica. Ma ovviamente hanno buon gioco i “sistemi” politico-culturali che sul paternalismo, d’un lato, e sul concetto di appartenenza, dall’altro, basano il loro appeal.

Dalla Scheda di preparazione alla Giornata Giubilare del 3 dicembre 2000 (“La persona con disabilità: soggetto-protagonista di pastorale”): “La Chiesa, Sposa di Cristo, sollecita e sensibile a tutti i suoi figli/e, […] ricerca le persone con disabilità per comunicare a loro ‘la molteplice grazia di Dio’ e per metterle al posto che loro compete quali persone battezzate […] Le persone con disabilità danno le spinte più forti ed offrono grandi risorse morali e spirituali per un mondo secondo il piano di Dio”. Poi, citando Giovanni Paolo II:Non consideriamo l’handicap come fatto drammatico ed innaturale, ma piuttosto come una condizione di debolezza che si traduce per la società cristiana e civile in una prova del suo livello di fede e di umanità” (Insegnamenti, 31-3- 1984). Infine, sbrigate le chiacchiere, si passa ai fatti: “La Chiesa […] offre loro e alle loro famiglie solidarietà, partecipazione, prossimità e compassione autentica […]; collabora con le strutture e organizzazioni socio-politiche e culturali per la promozione delle persone con disabilità ed offrire proposte alternative…”. Ma questo aiuto, ovviamente, non può essere gratis.

D’altronde, “la società spesso tende a risolvere questo problema sia con l’indifferenza e sia reagendo contro la disabilità con violenza annientando la persona con disabilità perchè essa scardina i suoi parametri di egoismo, di edonismo e di paura, ma che essa, società, basa sul profitto e il dominio degli altri e non guarda a come migliorare la vita delle persone con disabilità”. Insomma, chi meglio della Chiesa può interessarsi dei portatori d’handicap, e in particolar modo dei portatori d’handicap mentale? “Esistono nel mondo comunità di vita che accolgono persone con disabilità a parità di vita con persone sane” recita la Scheda, ed è superfluo dire che queste comunità sono rette da suore e preti. Si realizza il solito paradigma: quando c’è un vuoto di elaborazione e di attività nella vita sociale, culturale e politica italiana, la Chiesa lo occupa e cerca di farsene, da vicaria, monopolista, meglio se con il rimborso del contribuente. Ma vediamo come si articola, in questo specifico caso dell’handicap mentale: veniamo a oggi.

L’8 gennaio del 2004 Giovanni Paolo II invia un messaggio ai partecipanti al Simposio internazionale su “Dignità e diritti della persona con handicap mentale”. Vi si legge: “La qualità di vita all’interno di una comunità si misura in buona parte dall’impegno nell’assistenza ai più deboli e ai più bisognosi e nel rispetto della loro dignità di uomini e di donne. […] La diversità dovuta all’handicap può essere integrata nella rispettiva, irripetibile individualità e a ciò devono contribuire i familiari, gli insegnanti, gli amici, la società intera”. Parole sante. Ma ecco il punto interessante: “Le esperienze compiute in alcune comunità cristiane hanno dimostrato che una vita comunitaria intensa e stimolante, un sostegno educativo continuo e discreto, la promozione di contatti amichevoli con persone adeguatamente preparate, l’abitudine a incanalare le pulsioni e a sviluppare un sano senso del pudore come rispetto della propria intimità personale, riescono spesso a riequilibrare affettivamente il soggetto con handicap mentale e a condurlo a vivere relazioni interpersonali ricche, feconde e appaganti”. La Chiesa, grande psichiatra!

E’ il segnale, il “via!”. Il 10 ottobre 2005 il Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute spicca una Nota sulla Giornata mondiale della salute mentale: “L’Organizzazione Mondiale della Salute riporta che 450 milioni di persone nel mondo sono affette da problemi mentali, neurologici o comportamentali e che 873 mila persone si suicidano ogni anno. Il disagio mentale costituisce una vera e propria emergenza socio-sanitaria: il 25% dei Paesi non ha una legislazione in materia; il 41% non ha una politica definita per la salute mentale; in più del 25% dei centri sanitari, i malati non hanno accesso ai farmaci psichiatrici essenziali; il 70% della popolazione dispone di meno di un psichiatra per 100.000 persone”. Chi pone bene un problema ha tutto il diritto a candidarsi come solutore. Ma, prima, è meglio desanitarizzare il problema: “La stessa scienza medica riconosce uno strettissimo rapporto tra il manifestarsi o l’aggravarsi di alcune patologie e turbe mentali e la odierna crisi di valori. Ne è conferma l’interdipendenza tra l’Aids, la tossicodipendenza e l’uso disordinato della sessualità. Non è possibile tacere di fronte alla continua aggressione alla serenità e all’equilibrio mentale, costituita da modelli sociali che portano alla strumentalizzazione dell’uomo e a pericolosi condizionamenti della sua libertà. La crisi di valori e l’affermazione di disvalori che accrescono la solitudine, fanno cadere le tradizionali forme di coesione sociale, sfaldano i gruppi di aggregazione, in particolare sul piano culturale e screditano il benemerito istituto della famiglia. Anche la mentalità dominante delle nostre società, sempre più chiuse ed egoistiche, porta a rimuovere la sofferenza e ad emarginarla, con gravi conseguenze sulla salute mentale dei cittadini”.

Viene un dubbio: ma non c’era la malattia mentale ai tempi in cui “l’Europa era terra cristiana, quando un’unica cristianità abitava questa parte del mondo plasmata a misura d’uomo […] quando gli istinti più selvaggi, più voraci, dovevano cedere al timore e all’obbedienza […] quando il saggio Capo Supremo della Chiesa si opponeva agli audaci sviluppi delle istintualità umane” (Novalis)? Ma poi, fuori dai denti: in quante vite di santi e, a scendere, di pontefici, di chierici e di devotissimi laici le testimonianze scritte su loro vite, opere e detti sono la cruda diagnosi di costruzione psicotica, qui tranquilla e lì forsennata? Sarà questo che faceva dire a Giovanni Paolo II: “Le persone handicappate sono testimoni privilegiate di umanità. Possono insegnare a tutti che cosa è l’amore che salva e possono diventare annunciatrici di un mondo nuovo”, addirittura di “un mondo nuovo trasfigurato dalla luce di Cristo”? A questo punto: perché curarle? Tenersele piuttosto, come eloquenti “icone viventi del Crocifisso”, in istituti retti da religiosi e finanziati coi soldi dello Stato. Splendida soluzione.

La si fa appena un po’ più esplicita nel Decreto della Penitenzieria Apostolica del 18 gennaio 2006: “Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, spinto da vivo desiderio che dalle infermità e dolori degli uomini […] provengano abbondanti frutti spirituali, e soprattutto sostenuto dalla speranza che siano promosse opere ed iniziative di cristiana pietà e di sociale solidarietà in favore degli infermi, in modo particolare verso quelli che, essendo affetti da qualche menomazione mentale, più facilmente sono emarginati dalla società e dalla propria famiglia, …” – una premessa che rende superflua la proposta di Sua Santità allo Stato italiano: a buon intenditor… “I fedeli che negli ospedali pubblici o in qualsivoglia casa privata assistono caritatevolmente come «buoni Samaritani» gli ammalati, specialmente quelli che a causa di qualche menomazione mentale richiedono maggiore pazienza, diligenza e attenzione…” – e anche qui, come al periodo precedente, la frase svicola nella concessione di un’indulgenza. Avete mai visto la Chiesa di Roma dare un’indulgenza a gratis? La proposta agli “uomini di buona volontà” della politica italiana è fatta, Storace in questo senso ha fatto da apripista come un Giovanni Battista. Il documento chiude con la solita formula: “Nonostante qualunque contraria disposizione”. In Vaticano s’è deciso: cavar soldi dal “matto”. In un certo senso, l’hanno sempre fatto.



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