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Esposto presentato dalla Rosa nel Pugno: intervista al Prof. Patrono

MondOperaio – Rivista socialista fondata da Pietro Nenni

N. 4-5 * Luglio – Ottobre 2006

 

SUI SEGGI CONTESTATI HA RAGIONE LA ROSA NEL PUGNO

Intervista a Mario Patrono di Anna Rita Ranetta

 

Gli interessati possono seguire dinanzi alla Corte costituzionale, in sede di conflitto fra poteri, diverse strategie corrispondenti a una serie di ricorsi che è possibile proporre. Il primo come azione di accertamento per la mancata proclamazione nei confronti delle Corti di appello che verificano i risultati elettorali e proclamano gli eletti. Il secondo contro la Giunta per le elezioni e il Senato nel caso in cui la Giunta non ritenga di dover ascoltare gli interessati. Il terso contro il Senato che si trova a dover convalidare l’elezione dei propri membri sulla base di una proclamazione del tutto aberrante.

 

Adesso che ha incassato la fiducia delle Camere, il Governo Prodi può muovere finalmente i primi passi sulla strada che dovrebbe condurre il programma dell’Unione a tradursi, almeno in parte, in una realtĂ  del Paese. Una strada non facile per un Governo che è un cocktail di appartenenze e identitĂ  divaricate sia dal punto di vista ideale che degli obiettivi politici, con una maggioranza sul filo del rasoio e destinato a fronteggiare una situazione di crescente disagio economico e sociale. Quasi scompare, di fronte alla gravitĂ  dei problemi da risolvere, una grana che ha fatto capolino giĂ  nella fase delle trattative per la formazione del nuovo governo. Si tratta della questione relativa al riparto dei seggi al Senato.

La Rosa nel pugno si è vista attribuire zero seggi, invece dei quattro rivendicati, in base ad una interpretazione  della normativa elettorale che considera sbagliata. Non nasconde, la Rnp, la volontĂ  di portare avanti una vera e propria “battaglia di legalitĂ ”, come l’ha definita Emma Bonino; una battaglia che rischia di porre nuovi ostacoli sul cammino del Governo. Ma non è solo la Rnp che si lamenta e minaccia azioni politiche e giudiziarie. All’appello dei seggi, infatti, uno ne manca anche all’Italia dei valori, uno alla Democrazia cristiana-Nuovo Psi, uno all’Udc e uno a Insieme con l’Unione. In totale, sono otto i seggi sub iudice, due dei quali assegnati a Rifondazione comunista, due alla Margherita e uno ciascuno a Forza Italia, Alleanza nazionale, Ds, e a Insieme con l?unione che pertanto ne guadagna uno in Puglia ma ne perde uno in Piemonte.

Abbiamo rivolto alcune domande a Mario Patrono, ordinario di Diritto costituzionale alla “Sapienza” di Roma.

 

Ha un fondamento di vero, a tuo giudizio, la pretesa accampata da varie formazioni politiche – la Rosa nel Pugno, Italia dei Valori e altre – secondo cui la normativa elettorale riconoscerebbe ad esse alcuni seggi al Senato, attribuiti invece dagli uffici elettorali regionali ad altri partiti?

La questione va affrontata avendo davanti, sulla scrivania, il testo legislativo di riferimento, che è la legge n. 270 del 2005, la quale è andata a modificare il decreto legislativo n. 533 del 1993. Il sistema elettorale che ne risulta accosta a una regola generale un’eccezione. La regola generale, dettata dall’art. 16, comma 1, lettera b, prescrive che il riparto dei seggi fra le liste collegate debba effettuarsi in ragione proporzionale all’interno di qualsiasi coalizione, maggioritaria e non, che abbia conseguito sul piano regionale almeno il 20% dei voti e che contenga almeno una lista che abbia conseguito, sempre sul piano regionale, almeno il 3% dei voti. A questa regola generale, che non contempla alcuna soglia di sbarramento per l’ammissione di una lista collegata al riparto dei seggi assegnati alla coalizione, fa eccezione il solo caso previsto al comma 3 dell’art. 17, il quale non ammette al riparto dei seggi le liste che, all’interno di una coalizione che abbia conseguito almeno il 55% dei voti, non abbiano individualmente raggiunto almeno il 3%. Le discipline, come si vede, sono due e si riferiscono, una, a un caso particolare, e un’altra alla generalitĂ  dei casi.

 

Il professor Stefano Ceccanti, anch’egli costituzionalista, sostiene però una tesi diametralmente opposta, e cioè che lo sbarramento del 3% vale riguardo a tutte le coalizioni, maggioritarie e non. PerchĂ©, ragiona Ceccanti, “quando il testo, al comma 6 dell’art. 17, discorre di liste “ammesse al riparto”, fa riferimento alle sole liste che hanno raggiunto almeno il 3% dei voti validi”. Sembrerebbe un argomento solido, o no?

Sì, lo è; ma solo all’apparenza. Le parole “liste ammesse al riparto”, che compaiono al comma 6 dell’art. 17, sono accompagnate da altre parole, sicchĂ© la frase nella sua interezza sona così: “Liste ammesse al riparto ai sensi dell’art. 16, comma 1, lettera b, n. 1”. Il quale art. 16, definendo la consistenza minima che una coalizione deve avere per ottenere seggi, stabilisce due requisiti: almeno il 20% dei voti, e al suo interno almeno una lista che abbia conseguito il 3% dei voti su base regionale. Questo significa che le altre liste della coalizione possono avere seggi anche se hanno conseguito meno del 3%.

Diversamente si deve ammettere che nel caso in cui all’interno di una coalizione che abbia conseguito, poniamo, il 21 o il 23% dei voti, una sola lista raggiunge il 3%, quella sola lista si accaparra il totale dei seggi attribuiti alla coalizione di cui fa parte. Questa evenienza è di fatto impossibile nel caso di una coalizione che consegua almeno il 55% dei voti. Per le altre coalizioni, invece, la probabilitĂ  che ciò si verifichi cresce a mano a mano che diminuisce la consistenza della coalizione, e diventa apprezzabile con riferimento alle coalizioni minori. E’ questa la ragione, o una delle ragioni, per cui il legislatore detta una disciplina per l’ipotesi che una coalizione raggiunga il 55% dei voti, e una diversa disciplina riguardo alle altre coalizioni, non importa se grandi o piccole, se maggioritarie o no. Nel primo caso opera la soglia di sbarramento, nel secondo non opera.

 

Qui mi viene da fare una domanda "impertinente". Se, in un gioco delle parti, ti fosse affidato il compito di difendere la tesi secondo cui la soglia di rappresentanza del 3% vale con riferimento alla generalità delle coalizioni, e non invece a una sola di esse e cioè a quella che raggiunge il 55% dei voti, quale argomento metteresti in campo per vincere la partita?

 

Un'unica obiezione può far riflettere, nel quadro del complessivo sistema delineato dalla legge 270/2005, che la previsione di una soglia di sbarramento al 3%, stabilita testualmente nella sola ipotesi qui dibattuta, può non essere derogatoria, allo stesso modo che il criterio della proporzionalità/nessuna soglia di sbarramento per l'ammissione al riparto dei seggi di una lista collegata, può non essere la regola generale per il sistema di elezione al Senato. Questa obiezione può nascere dal rilievo che l'art. 83 del D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, che detta la normativa per l'elezione della Camera dei deputati, per come novellato dall'art. 12 della legge 270/2005, prevede una soglia di sbarramento, fermata al 2%, sia nel caso in cui la coalizione di liste ha conseguito ex se almeno 340 seggi, sia indipendentemente dal premio di maggioranza. Poiché queste due ipotesi, previste per l'elezione della Camera dei deputati, sembrano corrispondere, o meglio, corrispondono esattamente, quanto alla loro funzione, alle due ipotesi che la stessa legge 270/2005 configura per l'elezione del Senato, potrebbe sorgere il dubbio se la previsione testuale di una soglia di sbarramento nella sola ipotesi qui dibattuta (e cioè quando una coalizione sia venuta a conseguire ex se il 55% dei seggi) sia davvero derogatoria rispetto ad un criterio generale, o non piuttosto che sia vero il contrario, e cioè che la cosiddetta eccezione in realtà sia la regola, e la cosiddetta regola l'eccezione.

Sta però il fatto che non può assumersi a termine di confronto una norma irrazionale, la quale può essere razionalizzata solo a condizione di capovolgerne la struttura sintattica. II citato art. 83, comma 7, stabilisce infatti che, quando la coalizione ha raggiunto di per sé i 340 seggi, si debba procedere all'attribuzione di essi nel modo seguente: in un primo momento, dal totale dei voti conseguiti dalla coalizione (poniamo 20.000.000) si sottrae la somma dei voti ottenuti dalle liste inferiori al 2% (poniamo 2.000.000); quindi si divide la differenza (poniamo 18.000.000) per il numero dei seggi ottenuti dalla coalizione (poniamo 342), e si ottiene in tal modo il quoziente elettorale (52.631); infine, si attribuisce a ciascuna lista (poniamo A, B, C) il numero dei seggi (A = 190 seggi; B = 95 seggi; C = 57 seggi, per un totale complessivo di 342 seggi) che risulta dalla divisione dei voti conseguiti a livello nazionale dalla lista stessa (poniamo: A = 10.000.000; B = 5.000.000; C = 3.000.000) per il quoziente elettorale. Invece, quando la coalizione maggioritaria non ha conseguito ex se almeno 342 seggi, l'attribuzione dei seggi avviene, secondo il disposto dell'art. 83, comma 9, punti 2 e 4, in modo diverso. Si divide il totale delle cifre elettorali nazionali di tutte le liste della coalizione (poniamo 18.000.000) per 340 (dove nel 340 è compreso il premio di coalizione), ottenendo cosi il quoziente elettorale nazionale di maggioranza (52.941). Determinato in tal modo il quoziente elettorale, si ammettono al riparto dei seggi le sole liste che abbiano ottenuto almeno il 2% dei voti (mentre, poniamo, le liste inferiori hanno ottenuto 2.000.000 di voti). Diviso a questo punto il numero dei voti conseguiti da ciascuna lista ammessa al riparto (poniamo A = 8.000.000; B = 6.000.000; C = 2.000.000) per il quoziente elettorale (52.941), ne deriva un numero di seggi (A = 151 seggi; B = 113 seggi; C = 37 seggi, per un totale di 301 seggi) che nel loro complesso è inferiore a 340.

Quello previsto dal combinato disposto dei punti 2 e 4 del citato art. 83, è dunque un calcolo impossibile che si fonda su un madornale errore di aritmetica. Al fine quindi di razionalizzare un sistema di riparto dei seggi che in sé appare irrazionale, all'ufficio elettorale nazionale è occorso "leggere" i punti 2 e 4 "come se" fossero fusi in una sola disposizione la quale dicesse: "Si divide quindi il totale delle cifre elettorali nazionali delle liste ammesse al riparto per 340, ottenendo cosi il quoziente elettorale di maggioranza".

L'errore suindicato mette in luce un fatto difficilmente confutabile, e cioè che nel disegno originario l'ammissione al riparto dei seggi fosse aperta anche alle liste minori, e ciò in perfetta simmetria con il sistema di elezione del Senato; e che lo stesso legislatore solo all'ultimo momento si sia determinato a ripetere al punto 4, per imitazione, quanto già disposto ai commi 6 e 7 nell'altra ipotesi, e cioè la previsione di una soglia di sbarramento al 2%, previsione peraltro decontestualizzata rispetto al calcolo delineato al punto 2.

Dunque, l'accostamento del sistema di riparto dei seggi all'interno della coalizione maggioritaria previsto per l'elezione del Senato al sistema di riparto previsto per la Camera dei deputati conferma e rafforza, piuttosto che smentire, l'evidenza del carattere derogatorio della soglia di sbarramento al 3% nel caso di coalizione che abbia ottenuto ex se almeno il 55% dei seggi al Senato.

Come vedi, non avrei scampo, se solo vi fosse, a sostenere la tesi opposta, un avversario appena un po' attento nel leggere e confrontare i testi legislativi, un'arte che si impara nelle scuole di diritto e che, una volta appresa, diventa uno dei tratti caratteristici propri del giurista.

 

Se le cose, sul piano della normativa elettorale, stanno come tu sostieni, come si spiega il fatto che sia il Ministero dell'interno, sia gli uffici elettorali regionali hanno dato un'interpretazione diversa, la stessa che oggi è al centro di malumori e polemiche?

 

Il Ministero dell'interno, in un primo momento, e in seguito anche gli uffici elettorali regionali hanno fatto un ragionamento assai sbrigativo: se lo sbarramento al 3%  previsto in un caso, ma non negli altri, ciò va interpretato nel senso che vi sarebbe qui una lacuna da colmare applicando per analogia la clausola di sbarramento del 3% anche là dove il legislatore non l'ha prevista, forse per una banale dimenticanza. Questo ragionamento contiene un errore. Il ricorso all'analogia non è ammesso, tra l'altro, quando si tratti di norme che "fanno eccezione a regole generali": se un caso non  testualmente previsto come eccezione, è necessario si applichi ad esso la regola generale. Ora non vi è dubbio - repetita iuvant - che la soglia di sbarramento del 3% per l'ammissione di una lista al riparto dei seggi assegnati alla coalizione di cui fa parte, assume il carattere di un requisito derogatorio rispetto al principio proporzionale, e come tale è da ritenersi necessariamente tassativo ed esplicito.

Del resto, quando si tratta di limiti posti dalla legge all'esercizio di diritti politici (come in questo caso), qualsiasi interpretazione analogica è costituzionalmente proibita. In breve, è evidente che nessuno può individuare ed applicare soglie di rappresentanza elettorale ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dalla legge, tanto meno in sede di applicazione "obiettiva" del diritto come  quella effettuata da uffici pubblici costituiti da soggetti tratti dagli organi giurisdizionali.

Ho parlato di errore interpretativo. Da giurista posso dire che in ciò non vi è nulla di strano. Il sistema delle impugnazioni nei riguardi di atti amministrativi e giurisdizionali ha come premessa appunto il fatto che vi sia stato, nell'atto impugnato, un errore di valutazione o di interpretazione, e si prefigge lo scopo di eliminare l'errore. Se così non fosse, non vi sarebbero giudici né Corti di appello, Consiglio di Stato e Corte dei conti, non la Cassazione, né vi sarebbe la Corte costituzionale. Le probabilità di sbagliare aumentano, naturalmente, allorquando l'autorità competente a decidere opera in condizioni caotiche o di stress, e sulla base di un testo legislativo di riferimento confuso e scritto male; come in effetti si sono trovati a fare, nell'urgenza di decidere in poche ore, gli uffici elettorali regionali in sede di applicazione di una Legge, la n. 270 del 2005, la quale ha tutta l'apparenza di un provvedimento scritto di notte tra i fumi del vino.

 

L 'articolo 66 della Costituzione prevede che le Camere, in sede di verifica dei poteri, giudicano sui titoli di ammissione dei propri membri. Le chiedo: vi è la possibilità di un ricorso giurisdizionale da parte degli interessati, nel caso che la Giunta per le elezioni del Senato desse loro torto?

 

Sì, vi è. Gli interessati possono seguire dinanzi alla Corte costituzionale, in sede di conflitto tra poteri, diverse strategie corrispondenti ad una serie di ricorsi che è possibile proporre. II primo come azione di accertamento per la mancata proclamazione nei confronti delle Corti di appello che verificano i risultati elettorali e proclamano gli eletti. Il secondo contro la Giunta per le elezioni e il Senato nel caso che la Giunta non ritenga di dover ascoltare gli interessati. II terzo contro il Senato che si trova a dover convalidare l'elezione dei propri membri sulla base di una proclamazione del tutto aberrante. Del resto, la circostanza che gli eventuali ricorrenti non si trovano nel possesso delle attribuzioni difese con il ricorso è un fatto che non preclude la legittimazione a difenderle, come la Corte stessa ha ritenuto sia nel campo specifico del conflitto tra poteri (sentenza n. 7 del 1996 e sentenza n. 154 del 2004), sia in generale in tema di legittimazione ad agire (sentenza n. 429 del 1991).

L'accesso alla Corte diverrebbe chiaramente assai agevole qualora le Camere approvassero la riforma dell'articolo 66 della Costituzione, riforma a cui si sta peraltro lavorando, con appello alla Corte stessa in relazione alle cause sopraggiunte di ineleggibilitĂ  e incompatibilitĂ .

 

Un'ultima domanda. L'eventuale intervento della Corte costituzionale che rovesciasse la decisione della Giunta per le elezioni non rischierebbe di creare un vulnus nell'autonomia del Senato?

 

No, non credo. Il conflitto tra poteri risponde all'esigenza di "spoliticizzare" certe controversie tra soggetti politici, affidandole al giudizio della Corte costituzionale che opera in posizione arbitrale. Questa esigenza si è ormai affermata, nella prassi, anche riguardo agli interna corporis del Parlamento: cosi, ad esempio, la Corte è andata a verificare, in sede di conflitto tra poteri, la correttezza di una pronuncia con cui la Camera aveva dichiarato insindacabile l’opinione

espressa da un parlamentare (sentenza n. 10 del 2000). Vero è che ciò non è mai accaduto, finora, nei confronti del giudizio con cui ciascuna Camera controlla i titoli di ammissione dei propri membri. E’ altrettanto vero, però, che un tale giudizio appare ormai troppo politicizzato per sottrarlo ad un esame "al di sopra delle parti" della Corte costituzionale. La temperatura della politica si abbassa anche cosi!

 



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