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Darfur, conto alla rovescia per salvare 350 mila vite

• da Vanity Fair del 5 agosto 2004

di Emma Bonino

Ci troviamo ad essere testimoni di sistematici omicidi di massa e ci comportiamo come se fossimo paralizzati, incapaci di porre fine all'orrore. Anziché intervenire per fermare le più efferate atrocità e crimini contro l'umanità, optiamo per la battaglia retorica per definire se ciò che è in corso rientri o meno tecnicamente nella definizione di "genocidio". Alcuni addirittura difendono gli assassini e i loro mandanti e sostengono in mala fede che il mondo si sta mobilitando senza giustificazione reale, ma come ulteriore tappa dello "scontro Occidente-Islam".

Tutte le nostre promesse sul "non lo consentiremo mai più" dovrebbero venire con una postilla ben in evidenza: "Almeno fino alla prossima volta".

Dieci anni fa era il Ruanda. In novanta giorni circa 800 mila persone furono uccise, molte fatte a pezzi a colpi di machete, in un genocidio scientificamente pianificato. Il mondo, prima ignorò I segnali d'allarme, poi provò a ignorare i massacre stessi, infine attribuì la responsabilità dei massacri a un'incomprensibile e inarrestabile "antico odio etnico", come se il genocidio non fosse stato centralmente coordinato fin dall'inizio.

Oggi è il Darfur, la regione a Nord-Ovest del Sudan. L'arma in questo caso non è solo il machete, ma anche la fame e le malattie. Secondo le stime delle Nazioni Unite, 50 mila persone sono già state assassinate dalla brutalità delle milizie Janjaweed, sostenute dal governo. In seguito a stupri sistematici, incendi di derrate alimentari e distruzione delle riserve di acqua, oltre un milione di persone è stato costretto ad abbandonare i propri villaggi nel Darfur. Circa 200 mila sopravvissuti sono scappati al di là delle frontiere col Ciad, ma la maggior parte si trova ancora nei campi di concentramento sudanesi, sorvegliati dai Janjaweed, decimati da fame e malattie. Questo sterminio di massa non accadrebbe in novanta giorni, come nel Ruanda, ma secondo i calcoli dell'agenzia statunitense USAID, circa 350 mila persone moriranno entro l'anno. Se il governo del Sudan continuerà a impedire agli operatori umanitari di raggiungere i campi, i morti di tutta evidenza cresceranno ulteriormente.

Qualsiasi cosa abbia impedito al mondo di agire nel Darfur, sicuramente non si è trattato di ignoranza del problema. Certo, il Darfur non era al centro delle luci della ribalta quando il governo e i Janjaweed hanno intrapreso la loro campagna all'inizio del 2003 e molte delle distruzioni a tappeto villaggio per villaggio, che si sono avute nelle fasi più recenti della pulizia etnica, sono passate in sordina perché l'attenzione dei media era completamente focalizzata sull'Iraq. Gli osservatori dell'area africana sapevano che cosa stava accadendo, ma pochi li hanno ascoltati: International Crisis Group, il Partito Radicale Transnazionale, Human Rights Watch e davvero pochissimi altri. Solo nel 2004, nonostante tutti i nostri sforzi, la questione è esplosa a livello di opinione pubblica. In aprile, il Segretario Generale dell'Onu, Kofi Annan, ha ritenuto di utilizzare il suo intervento alla commemorazione dei dieci anni dal genocidio in Ruanda, per denunciare la pulizia etnica in corso nel Darfur, suggerendo anche la necessità di un intevento militare.

Da allora, la copertura dei media è cresciuta; la visita di Hillary Ben, inviato del governo britannico, di Kofi Annan, del Segretario di Stato USA Colin Powell e del Sottosegretario agli Esteri Margherita Boniver hanno favorito questa maggiore attenzione.

Ma quale conseguenza ha realmente avuto la visibilità garantita dai mezzi di informazione e dalle diplomazie? Qualche settimana fa, a un anno e mezzo dall'inizio della pulizia etnica pilotata dal regime di Khartoum, tutti coloro che hanno mostrato grande interesse per la questione si sono trovati dinanzi a una manciata di promesse - consentire l'accesso agli aiuti umanitari e disporre il disarmo dei Janjaweed - ripetute molte volte anche nel passato e mai attuate. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, approvata in questi giorni dopo mesi di discussioni, dà alle autorità del Sudan altri 30 giorni di tempo per fermare le violenze. In caso di inadempienza, ci viene detto, si valuteranno sanzioni. Sarà comunque troppo tardi per salvare migliaia di persone già condannate.

Ovviamente, c'è ancora il tempo per agire e prevenire il peggio, ma qualsiasi cosa accada, considerato il già elevato numero di morti, il Darfur sembra destinato a raggiungere il Ruanda - insieme alla Cambogia, la Bosnia, Timor Est, il Burundi e così via - nella lista delle "omissioni di soccorso" da parte della comunità internazionale. Ancora una volta, la risposta ai peggiori crimini è stata troppo modesta ed è arrivata troppo tardi.

Ma non ci dobbiamo rassegnare. Per saperne di più, per continuare a fare pressione:
www.radicalparty.org e www.emmabonino.it



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