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Maria Coscioni: «Subito una legge per l'eutanasia»

• da Secolo XIX del 22 gennaio 2007, pag. 4

di Luca De Carolis

«La gente è dalla nostra parte, e questo ci spinge a portare avanti le nostre battaglie nel nome di Luca Coscioni e di Piergiorgio Welby». Maria Antonietta Coscioni è circondata da giornali e manifesti nella sede romana dei Radicali. Ha il volto disteso, ma è reduce dall'anno più intenso della sua vita. Il 20 febbraio del 2006 ha perso il marito Luca, malato da 11 anni di scle­rosi laterale amiotrofica, e poche setti­mane dopo è diventata co-presidente dell'associazione a lui intitolata. Nel novembre scorso è stata eletta presi­dente dei Radicali. Poi il 20 dicembre è morto Piergiorgio Welby, affetto dalla stessa malattia di Coscioni che ha scelto di farsi staccare dal respiratore. Oggi questa donna di 36 anni, bella e volitiva, sarà a Genova per partecipare a un congresso sulla sclerosi laterale amiotrofica. «Un appuntamento importante per molte ragioni» sottolinea.

 

Perché?

«Innanzitutto, sarà un'altra occa­sione per parlare della libertà di cura e di eutanasia. Poi incontrerò esponenti dalle istituzioni locali per fare il punto sul piano avviato nel luglio scorso con la Regione e con la Asl 3 di Genova, il cui scopo era fornire a 10-12 malati di sclerosi i computer con cui esprimersi. Questi macchinari permettono di co­municare per iscritto a chi è all'ultimo stadio della malattia, in stato di totale immobilità. Il malato fissa con l'occhio una lettera sullo schermo, e questa co­mincia a comporre una parola. Anche Luca comunicava così».

 

Quanto costano i computer?

«Parecchio. Con i 29.500 euro stan­ziati dalla Regione se ne sono comprati una decina. Davvero pochi, tanto che alla fine questo progetto ha assunto un valore più che altro simbolico. Ma i ma­lati hanno diritto ad esprimersi: la no­stra associazione ha promosso una campagna apposita, "Libertà di pa­rola". A Genova ovviamente parlerò anche di questo».

 

Secondo un recente sondaggio, il 70% degli italiani è favorevole all'eutanasia. Quanto ha influito il caso Welby?

«La scelta di Piergiorgio è stata fon­damentale, perché ha riportato all'at­tenzione generale il problema dell'eu­tanasia clandestina. Al riguardo si era creata una situazione simile a quella precedente la legge sull'aborto: tante abortivano in segreto, ma era proibito dirlo. Welby ha tirato giù il velo dell'ipocrisia, e ha ricordato a tutti che questo tema esiste. E che la politica non può ignorarlo».

 

I partiti, con rare eccezioni, non sembrano avere voglia di discu­terne.

«I politici hanno paura della cono­scenza e della scienza. Avevano assicu­rato l'apertura di un'indagine conosci­tiva sull'eutanasia clandestina, ma poi hanno preferito ascoltare a porte chiuse qualche esperto. Noi abbiamo promosso una petizione per chiedere l'indagine, firmata già da 20.000 ita­liani. Molta gente ci chiama per sapere dove poter firmare».

 

Quanto pesa il veto del Vaticano sulle paure della politica?

«Molto, ovviamente. Sull'argo­mento la Chiesa ha assunto una posi­zione che non ha nulla a che fare con la carità cristiana. Basti pensare al rifiuto dei funerali religiosi per Piergiorgio. Un errore clamoroso».

 

Era a casa di Welby la notte in cui hanno staccato la spina?

«No, ma sapevo che sarebbe acca­duto. Poco prima avevo mandato un messaggio a lui e alla moglie Mina (si emoziona, ndr). Ad avvertirmi della morte di Piergiorgio è stato Marco Cappato (segretario dell'associazione ndr) con un sms, in nottata».

 

Quanto ha rivisto del dramma di suo marito in Welby?

«Io mi sono impegnata molto nella sua battaglia per il diritto di morire, ma tenere separati il piano politico e quello emotivo non è stato facile. Nelle settimane precedenti la sua scomparsa sono stata silenziosa anche per questo. Cercavo un mio spazio per rielaborare tutte queste emozioni».

 

Luca Coscioni fece la stessa scelta, rifiutando la tracheotomia.

«La sua fu una scelta ancora più de­cisa. Piergiorgio aveva accettato di so­pravvivere attaccato ad un respiratore, ma poi non ce l'ha fatta più. Luca in­vece ha subito rifiutato l'ipotesi di vi­vere grazie a una macchina».

 

Perché?

«Si sentiva in una gabbia, che chi non è malato non può neppure percepire».

 

Lei provò a dissuaderlo?

"Ne discutemmo, poi lui prese la de­cisione definitiva. E io l'ho rispettata"

 

Lei ha raccontato che suo marito aveva paura del buio, e che dormi­vate con la luce accesa. La tiene an­cora accesa?

«Sempre, dovunque mi trovi. Per ora è così».



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