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Ecco perché occorre una legge che eviti l'eutanasia "all'italiana"

• da Il Riformista del 30 gennaio 2007, pag. 2

di Carlo Troilo

Il sacrificio di Pier Giorgio Welby e la bat­taglia che assieme a lui hanno condotto l'associazione Luca Coscioni e i Radi­ìcali italiani, ma anche esponenti politici di altri partiti, hanno prodotto risultati di grande rilevanza. Oggi possiamo dire che su due dei temi centrali del confronto innescato dalla vicenda Welby - il no all'ac­canimento terapeutico e il testamento bio­logico - si sono raggiunte posizioni larga­mente maggioritarie, condivise anche da molti cattolici. Su questi due temi si può dunque pensare - senza per questo "abbas­sare la guardia" - che si giungerà, in tempi sufficientemente ravvicinati, a una legisla­zione consona al comune sentire.

 

Resta però aperto il tema della eutana­sia, su cui è doveroso prendere atto, dopo questi mesi di intenso dibattito, che sia la Chiesa sia la grande maggioranza degli espo­nenti politici cattolici sono irriducibilmente contrari. La più recente conferma di questo "veto" è venuta nei giorni scorsi dal cardina­le Martini, che pure ha sviluppato, sul com­plesso di questi temi, la riflessione più profonda e più comprensiva rispetto ai valo­ri del mondo laico. «Dal punto di vista giuri­dico - ha detto tra l'altro Martini - rimane aperta l'esigenza di una norma che consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (infor­mato) delle cure e consenta di proteggere il medico da eventuali accuse»; «senza - ha però aggiunto - che questo implichi in alcun modo la legalizzazione della eutanasia». E Livia Turco, ministro della Sanità, ha dichia­rato che per lei l'eutanasia resta «un tabù».

 

Io vorrei perciò spiegare perché, invece, ritengo indispensabile una legge sulla euta­nasia. Per farlo richiamo l'attenzione sulla si­tuazione dei malati per i quali non si pone al­cun problema di accanimento terapeutico, in quanto gli stessi medici affermano che non sussiste più nessuna speranza di guarigione o anche di semplice miglioramento: nessuna terapia, per loro, è più utile, e anzi spesso l'in­sistenza in terapie quali la chemio può risul­tare fatale per il malato. È stato questo il ca­so di mio fratello Michele, malato terminale di leucemia, che era stato rimandato a casa dal centro di Mandelli perché ormai incurabile. Per lui la sola prospettiva - di cui era co­sciente - rimaneva quella di alcune settima­ne, ma forse anche di alcuni mesi, di inutili, atroci e crescenti sofferenze. Per questo Mi­chele, che era nel pieno delle sue capacità mentali, aveva chiesto di essere aiutato dai medici a morire subito e serenamente: vole­va, in una parola, l'eutanasia. Di fronte al ri­fiuto dei medici, egli ha scelto di farla finita gettandosi nel vuoto dal quarto piano.

 

Sottolineo - dato che i sostenitori della eutanasia sono descritti dagli integralisti cat­tolici come "portatori di morte" - che Miche­le invece voleva vivere, tanto che si era sotto­posto, pur sapendo che le possibilità di guari­gione erano ridottissime, a due lunghi e dolo­rosissimi cicli di chemioterapia. E ricordo an­che - per chi sostiene che il problema princi­pale, in questi casi, è quello di assicurare al malato affetto e assistenza - che egli aveva at­torno a sé il massimo di amore e di cure. In situazioni come la sua, dunque, la sola solu­zione è l'eutanasia. Questo mi sembra il pun­to fondamentale: non dobbiamo cadere, co­me molti stanno facendo, sia pure con le mi­gliori intenzioni, nella trappola di disquisizio­ni legali, etiche e deontologiche, nel tunnel senza uscita di un dibattito interminabile su "eutanasia attiva, passiva od omissiva" (è quel che avvenne per i referendum sulla pro­creazione assistita, con il risultato che cono­sciamo). Nei casi cui mi riferisco non c'è nes­suna terapia in corso, nessun problema di ac­canimento terapeutico, nessuna spina da staccare: c'è solo un essere umano che soffre e che chiede consapevolmente di morire. In questi casi, dunque, l'eutanasia non può che essere attiva, e dobbiamo chiedere che que­sto sia riconosciuto in una legge. Abbiamo dalla nostra le ormai innumerevoli indagini demoscopiche da cui risulta in modo univo­co che la maggioranza degli italiani, compre­si moltissimi cattolici, è favorevole alla euta­nasia. Inoltre, i consuntivi tracciati dai gover­ni del Belgio e dell'Olanda, dove l'eutanasia è legale, ci dimostrano che il sistema di garan­zie previsto da quelle leggi ha evitato ogni ri­schio di abuso, ogni "strage degli innocenti".

 

Dunque, l'unico ostacolo alla approvazione, anche in Italia, di una legge sulla euta­nasia, è costituito dalla opposizione della Chiesa e dei cattolici oltranzisti: una opposi­zione - è bene ricordarlo - che non fu meno decisa nei casi del divorzio e dell'aborto, e che pure non impedì alle forze politiche lai-che di legiferare su queste materie e poi di re­sistere con successo ai referendum abrogati­vi proposti dai cattolici. Ed è bene avere pre­sente il recente sondaggio della Swg, secondo cui il 53% dei cattolici italiani definisce «non corretti» gli interventi della Chiesa sul potere politico italiano riguardo all'eutanasia e agli altri temi "eticamente sensibili".

 

Ricordare la vicenda di mio fratello ria­pre in me una ferita insanabile. Ma lo faccio perché so che Michele avrebbe voluto con­durre lui stesso questa battaglia, e anche per­ché solo qualche tempo dopo la sua morte ho scoperto, cercando nei dati dell'Istat, che ogni anno mille malati terminali sono co­stretti, come Michele, a ricorrere a questa atroce forma di "eutanasia all'italiana". E so­no i mille il cui suicidio è rilevato dalla polizia e dai carabinieri, cui bisogna aggiungere i tanti malati di cui non conosceremo mai né il numero né la storia: quelli per i quali il medi­co amico scrive «cause naturali» nel certifica­to di morte, per evitare ai familiari la riprova­zione sociale che circonda i congiunti dei sui­cidi e anche il rischio di essere accusati di "omicidio del consenziente" o di "aiuto al suicidio", con le gravissime pene previste da una legge fascista di trenta anni fa.

 

Concludo con una affermazione forte, che però risponde a una amara, incontesta­bile verità. Ai tempi dello scontro sull'abor­to, chi non voleva una legge che lo consen­tisse condannava le donne all'aborto clan­destino: quelle benestanti arricchendo i "cucchiai d'oro"; quelle indigenti andando a farsi massacrare dalle "mammane" (e do­vrebbe far riflettere il fatto che gli aborti so­no diminuiti dai 155.399 mila del 1991 ai 123.792 del 2002). Allo stesso modo, chi og­gi non consente l'eutanasia condanna mi­gliaia di essere umani alla scelta inumana tra una lunga e vana sofferenza e il suicidio. Non possiamo stare dalla stessa parte: dob­biamo, con serenità ma con determinazio­ne, cercare di abbattere questo tabù.  


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