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«Porto via mio marito farò staccare la spina»

• da Corriere della Sera del 15 febbraio 2007, pag. 25

di Alberto Pinna

«Voglio porta­re mio marito a casa per far­lo morire serenamente, co­me lui ha chiesto. E cerco un medico coraggioso, che lo aiuti. Se nessuno si fa avanti, andremo in Svizzera o in Olanda, dove si può legal­mente ottenere la fine di que­sto inutile accanimento tera­peutico». Maddalena Soro ha deciso così, dopo che il giudice dell'udienza prelimi­nare ha accolto la richiesta di archiviazione per il prima­rio dell'ospedale di Sassari che aveva rifiutato di stacca­re la spina all'apparecchio che somministra ossigeno e tiene in vita Giovanni Nuvo­li. Il dottor Demetrio Vidili e i medici del reparto di riani­mazione — ha deciso il gup — non hanno compiuto alcu­na violenza privata. Nuvoli ha voluto esprimere la sua amarezza: «Mi tocca anche questa pena», dettata come al solito attraverso il movi­mento delle palpebre alla compagna che indicava le lettere dell'alfabeto sulla pic­cola lavagna davanti al letto. «Non ce l'abbiamo né con i magistrati né con i medici — ha sottolineato la signora So­ro — e desideriamo chiarire che non vogliamo obbligare nessuno a compiere atti con-trari alla sua coscienza. Se non sfe la sentono di staccare la spina rispettiamo la loro volontà. Ora dobbiamo tro­vare il modo di far rispettare anche quella di Giovanni. Ci riusciremo».

 

Un contatto preliminare c'è già stato con un medico sardo; la risposta fra qualche giorno. Si sta muovendo anche l'Associazione Luca Coscioni. «Ci vorrà del tempo. Il medico starà in casa con Giovanni — spiega Maddale­na Soro — dovrà conoscerlo, verificare che veramente la sua volontà sia di morire. E quando mio marito sarà pronto per il trapasso, gli da­rà un sonnifero e staccherà la macchina dell'ossigeno».

 

Le condizioni di Nuvoli sono disperate; l'interruzione della terapia a base di anti­biotici, sollecitata dallo stes­so paziente qualche mese fa, ha dato via libera ad alcune infezioni. Ma nessuno può di­re quanto ancora potrà dura­re la resistenza di un corpo distrutto dalla distrofia mu­scolare amiotrofica che lo tormenta e lo costringe al­l'immobilità da più di sei an­ni. Dall'ospedale si conferma che l'ex allenatore e arbitro di calcio può lasciare il repar­to rianimazione quando vuo­le, sotto la sua responsabili­tà e nessuno vuoi commenta­re lo sfogo di Mina, la vedova di Piergiorgio Welby: «Credo che se i medici lo tengono in reparto contro la sua volon­tà, potrebbero essere passi­bili di sequestro di persona». Ma il trasferimento a casa non avverrà presto. «Nella nostra abitazione c'è una pic­cola sala di rianimazione; l'aveva fatta installare l'Asl per consentire l'assistenza

 

domiciliare. Ma non lascere­mo l'ospedale finché non avremo trovato un medico buono e coraggioso. Giovan­ni ha paura di avere una crisi respiratoria senza avere ac­canto chi possa assisterlo e aiutarlo. Vorrebbe un pas­saggio non traumatico né do­loroso dalla vita alla morte». «Un diritto dovuto dalla Costituzione e dal Codice di deontologia medica», ha ribadito la Consulta di bioeti­ca in una nota nella quale si sostiene che «in presenza di documentato rifiuto di per­sona capace, il medico deve desistere dai conseguenti at­ti diagnostici e curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà delle persona». Ma c'è chi la pensa diversa­mente: l'Associazione medi­ci cattolici italiani condivide la decisione della magistratu­ra. Scienza e Vita va oltre: sa­rebbe eutanasia, forse suici­dio assistito e bisogna evita­re il bis, anche mediatico, del caso Welby.

 



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