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Il mio corpo è muto ma voi ascoltatemi

• da Il Riformista del 6 marzo 2007, pag. 1

di Paolo Soldini

«Di qualunque morte morirò, voglio che i miei fu­nerali siano in una piazza, come per Welby. Se Dio è dappertutto, sarà anche là». Quando Piergiorgio Welby morì, pochi giorni prima di Natale, Giovanni Nuvoli "disse" che si sentiva più solo: più solo perché aveva sperato che il caso che aveva fatto tanto clamo­re, del quale tanto s'era di­scusso sui giornali e in tv, avrebbe potuto costringere i politici a fare una legge: una legge che aiutasse lui, Gio­vanni, e anche gli altri come lui e come Piergiorgio.

 

Il pensiero di Giovanni Nuvoli è riportato tra virgolette. In realtà lui non parla, né scrive, ormai da molti anni. Ha detto (ha «detto»?) due parole, qualche settimana fa: «Ciao Maddalena». Ma non era la sua voce. Era una macchina, complicata e costosa, un sintetizzatore, lo stesso con cui ascoltavamo, finché è vissuto, le parole di Luca Coscioni, un altro eroe della strana e crudelissima guer­ra tra la vita e la morte, tra il clamore e il silenzio, che si combatte, in Italia, sul destino dei malati di sclero­si laterale amiotrofica, la malattia che inchioda le sue vittime su un letto, immobili e mute, ma non in coma, no: lucidissime. Anche troppo: volontà e pensieri pri­gionieri di un corpo (e di chi lo sequestra).

 

Maddalena è Maddalena Soro, moglie di Giovan­ni. Unica interprete vera - rivendica lei - del pensiero del marito, almeno da 13 mesi, da quando cioè lui è co­stretto in un letto del reparto di rianimazione dell'o­spedale di Sassari. Giovanni e Maddalena comunica­no con il "cartello", come lo chiama lei: uno schermo di plexiglas su cui ci sono le lettere dell'alfabeto. Lui muove gli occhi su un grappo di lettere, Maddalena le cita una ad una finché lui, con un battito di ciglia, fa ca­pire qual è quella giusta. Altri provano, e non riesco­no. Oppure guardano Giovanni, cercano di capire e non capiscono. Oppure credono di capire: mettono i loro pensieri e le loro convinzioni sopra il pensiero pri­gioniero di quel corpo. Vogliono decidere loro, ed è una cosa che manda in bestia Maddalena.

 

«Sì. Ho fatto, abbiamo fatto una lotta per avere il sintetizzatore. Visto che tante volte non mi hanno cre­duto quando "traducevo" per loro il pensiero di Giovanni, penso che sia stata una lotta giusta. Lui mi "dice" che quando sarà in grado di utilizzarlo, racconterà un sacco di cose e "ce ne sarà per tutti". Devono ascoltarlo. Capisce? Devono».

 

Lei parla, Maddalena. Rovescia nel telefono frustrazione, rabbia, amore, compassione. Tutto insieme. Ripercorre su e giù la storia della malattia del suo uomo e gli episodi si accavallano. I toni si fanno molto aspri. I rancori vengono buttati sul tavolo di una partita che lei sente di giocare, per conto di quel pove­ro corpo ormai ridotto a venti chili di sofferenza, quasi sempre da sola.

 

La storia: prima di essere portato in ospedale a Sassari, Giovanni Nuvoli era assistito in casa. Venivano degli infermie­ri, ma il loro lavoro era difficilissimo, no­nostante il tramite di Maddalena. Ci fu­rono degli incidenti, qualcu­no, probabilmente, si spa­ventò e ritenne che sarebbe stato più "facile", più sicuro (e forse meno costoso, per­ché anche questo conta) avere Giovanni in ospedale. Approfittarono di una infe­zione alle vie urinarie e tra­sferirono Nuvoli a Rianima­zione. «Non sarà per tempi biblici», dis­se il professor Demetrio Vidili, primario del reparto a lui e alla moglie.

 

Che cosa sono dei «tempi biblici» per un uomo che non può muoversi den­tro un letto ma solo pensare, pensare, pensare? In ospedale Maddalena può stargli vicino soltanto dalle 18.30 alle 20. Alcuni, al reparto, le avevano offerto, o addirittura chiesto, di stare un po' di più, di andare prima. Altri l'hanno pratica­mente cacciata, se l'orario non era quello giusto, in un modo che l'ha offesa e l'ha spinta a rispondere con altrettanta durez­za. Maddalena, certo, è una donna ferita. Per quanto può, capisce, è comprensiva, ragiona, ma alla crudeltà del muro che la burocrazia del sistema sanitario ha co­struito intorno a Giovanni e alle pretese di chi si impossessa del diritto di giudica­re che cosa sia il suo "bene" reagisce co­me se avesse, dice lei, «una grattugia nei polmoni». Per quelli che non vogliono sentire non ha né comprensione né pietà, «perché son quelle che a noi sono state tolte». Il dottor Mario Melazzini, per esempio, l'oncologo ammalato anch'egli di distrofia muscolare che ha scelto una via del tutto diversa da quella di Welby e di Giovanni: resistere, almeno per ora; non chiedere che stacchino la spina. «Melazzini è venuto, ha visto mio marito, ha detto che secondo lui è solo un proble­ma di assistenza. Ha sostenuto che lui gli avrebbe fatto capire che vuole "morire di morte naturale". E però io so quello che ha raccontato, dopo, Giovan­ni a me: che avrebbe voluto che gli tirassero giù le coper­te». Gli avrebbe voluto mo­strare come è ridotto. «"Co­me diventerai tu", ha detto». Parole dure, Maddalena. «Parole dure. Mi hanno det­to che sono cattiva. Ma sa che cosa mi disse il rappre­sentante della direzione sanitaria dell'ospedale, quando si discusse di trasferire mio marito in un'altra strattura? Eh sa, signora, fece, ci sono anche dei problemi economici. E io chiesi se era proprio così: se davvero mettevano un uomo in vendi­ta al mercato, come un sacco di patate. Il primario del reparto, il professor Vidili ha le sue idee ed è andato a dire in tv che lui non staccherà mai la spina, ha anche una sua sensibilità. Una volta eravamo insie­me alla presentazione di un libro sulla condizione dei malati di distrofia: Io - disse lui - ho una persona così qui da me, ho conosciuto Giovanni in rianimazione e ho capito che dentro quel corpo c'è un uomo. Bene. E però mi chiedo: gli servi­va tanto tempo per capirlo? Non era chiaro fin dall'inizio? Vede, c'è gente che pensa che i malati debbano vivere la loro sofferenza. C'è chi ritiene che rifiutando­si di porre fine a queste loro sofferenze si va in paradiso. Rispetto il loro punto di vista, ma chiedo loro di rispettare anche il mio, quello di chi non la pensa come lo­ro. Il cappellano dell'ospedale, dopo una visita a Giovanni, è uscito fuori e ha det­to che lui non gli aveva parlato di morte. Ma come ha fatto, padre, a comunicare con lui?, gli ho domandato. Gliel'ho letto negli occhi, mi ha risposto».

 

Negli occhi...Al cappellano basta leggere gli occhi. A Maddalena, che da anni passa ore e ore ogni giorno davanti al "cartello" spesso non crede neppure chi avrebbe l'obbligo giuridico di farlo. Giovanni, dice la moglie, ha espresso in modo chiaro il desiderio, fortissimo, di tornare a casa. Ma il pubblico ministero del tribunale di Sassari, che deve dispor­re alla Asl la dimissione dall'ospedale, per mesi e mesi ha aspettato chissà quale "prova", e da chi? La direzione sanitaria, il primario hanno fatto altrettanto. «All'i­nizio - commenta Maddalena - ero con­traria all'idea del sintetizzatore: mi pare­va un modo di ufficializzare il fatto che non si fidavano di me. Ora Giovanni e io ne abbiamo fatto la nostra battaglia. Chi è steso paralizzato su un letto deve poter far sentire la propria voce. Per Giovanni è troppo tardi, ma per tanti, tanti altri come lui il tempo c'è ancora».

 

Ora pare che, anche grazie all'inter­vento dell'assessore regionale alla Sanità, la situazione si stia sbloccando. Il pm dovrebbe autorizzare presto il rientro a ca­sa di Nuvoli. Poi si vedrà: com'era già accaduto nel caso Welby, il tribunale finora ha di fatto impedito ai medici di compiere alcun gesto che possa affret­tare la morte del malato (i medici dell'ospedale comunque non lo avrebbe­ro fatto). A casa sarà diverso, forse. Giovanni avrà la sua libertà, come un ergastolano cui viene concessa la gra­zia. La grazia di morire, se lo vorrà. 


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