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La giustizia nel paese di Alice. Quello che accade a Napoli, tutti i giorni, ogni giorno. Il ministro della Giustizia non crede di dover chiedere scusa a Luciano Rapotez?

29 marzo 2007

di Gualtiero Vecellio

Mettiamoli in fila questi dati, e poi ognuno ne ragioni come crede e sa.

Il questore di Napoli Oscar Fioriolli viene ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia. Dice che nell’ultimo anno sono state arrestate quattordicimila persone sono state arrestate, ma che molte sono giĂ  fuori dal carcere. E poi con tono preoccupato ha aggiunto: “Non so però quante delle persone arrestate rimangono in carcere, ma sicuramente molti escono”.

 

Ecco, allora, se fossimo parlamentari opereremmo per sapere quante persone arrestate nel 2006 sono state successivamente scarcerate. Per quali reati erano state arrestate. Per quale ragione sono state scarcerate. Se l’impianto accusatorio nei loro confronti ha in qualche modo retto, perchĂ© non sono state celermente processate e condannate. Se fossimo parlamentari vorremmo conoscere questi dati, premessa necessaria e indispensabile per chiedere ragione a chi di dovere per quello che accade.

 

PerchĂ© il secondo dato, al primo correlato, è questo: il 21 marzo in piazza Zanardelli a Napoli viene ucciso Lucio De Lucia, affiliato al clan camorrista dei Di Lauro. Il 24 marzo Salvatore Frate, ritenuto il killer di De Lucia, viene arrestato; decisivo si rivela il racconto di un testimone. Il 28 marzo il Giudice per le Indagini Preliminari non convalida l’arresto di Frate, che così torna in libertĂ . La motivazione è “carenza di gravi indizi”. Par di capire che la “coerenza delle indagini” sia stata riconosciuta; che il racconto del testimone sia stato considerato valido e attendibile. Da quanto è dato sapere c’è anche stato un riconoscimento fotografico del killer, nei cui confronti l’imputato si è amabilmente rivolto con termini del tipo “cornuto” e “bastardo”. Però, nonostante questo, per il GIP gli elementi che giustificano la carcerazione non sono sufficienti. ChissĂ . Il procuratore Giovanni Lepore si dice “amareggiato, sorpreso, choccato. Rispetto la decisione del GIP, ma a leggere il provvedimento l’indagine nostra esce rafforzata”. E figuriamoci se invece rafforzata non era, che cosa poteva essere disposto...

 

Il testimone in questione si chiama Rosario, è uno dei reggenti del clan Di Lauro; è scampato all’agguato mortale perchĂ© si è buttato a terra, fingendosi morto: “Da terra ho visto i killer andare via, mi è sembrato di riconoscere Salvatore Frate, aveva la stessa corporatura e la

stessa voce. Lui era l’unico ad avere le scarpette bianche ai piedi”. Certo: se Frate è stato arrestato su questa base, il GIP ha qualche ragione. Però, come si voglia considerare l’episodio, c’è qualcosa che non va: o la decisione del GIP o il provvedimento del procuratore. Tertium non datur.

 

Fossimo parlamentari, chiederemmo ragione al ministro della Giustizia di una storia che abbiamo letto nella rubrica “Tuttifrutti” sul “Corriere della Sera” di Gian Antonio Stella, e che riguarda l’amara conclusione del caso di Luciano Rapotez.

 

Rapotez ha 87 anni. Da mezzo secolo di battaglie per ottenere giustizia, si è arresto. Chiedeva un centesimo di euro di risarcimento e il riconoscimento, da parte dello Stato, che era stato ingiustamente arrestato, accusato di una strage, torturato e tenuto in carcere per tre anni da innocente. Quel riconoscimento e quel simbolico risarcimento lo Stato lo ha negato, e lui disgustato ha deciso di gettare la spugna.

 

Aveva 35 anni Rapotez: era sposato (matrimonio poi andato a rotoli, per le conseguenze dell’affaire giudiziario) e aveva due figli, la sera di gennaio del 1955 quando viene arrestato. Racconta che i poliziotti, pelosamente, gli suggeriscono di fuggire: “scappa, filatela via...”. “Speravano che ci cascassi per abbattermi”.  In Questura viene sottoposto a quello che in gergo viene definito un “interrogatorio pressante”: 94 ore di fila, senza bere una goccia d’acqua, 97 senza mangiare una galletta, 104 senza potere chiudere gli occhi con una lampada incandescente accesa in piena faccia. E poi le scariche elettriche, i pestaggi, la messa in scena di un finto suicidio. A Trieste, in quei giorni tirava un' aria brutta contro i partigiani delle Brigate Garibaldi; e Rapotez era, tanto per complicare le cose, un cognome sloveno. Racconta: “Ero perfetto, come colpevole da dare in pasto alla cittĂ  tornata all’Italia. Alla fine avrei confessato anche di avere ammazzato Giulio Cesare”.

 

 E’ accusato di aver partecipato a una rapina nella quale erano stati assassinati un orefice, la sua fidanzata e la domestica. Resta in galera tre anni. Poi è assolto nell’autunno del 1957 per mancanza di prove. In appello per non aver commesso il fatto. Sentenza confermata in Cassazione. Nel frattempo, persa la moglie, i figli, il lavoro; emigra in Germania. Ogni tanto scrive ai capi dello Stato, ai presidenti del Consiglio, ai ministri della Giustizia per aver giustizia. Niente da fare. Finalmente risponde un ministro della Giustizia, nel 1977: è Francesco Paolo Bonifacio: “Risulta evidente che la domanda di riparazione dei danni conseguiti alla carcerazione preventiva sia assolutamente priva di fondamento allo stato della vigente legislazione”.

 

In effetti non c’è la legge sul risarcimento per gli errori giudiziari nĂ© per gli abusi commessi dai funzionari statali. Due anni dopo, però la legge c’è e Rapotez presenta la prima richiesta formale. E’ troppo tardi: era finito tutto in prescrizione. Lui non si rassegna. E da allora dĂ  battaglia, in trent' anni di processi del suo caso di occupano una cinquantina di magistrati. Una sentenza grida vendetta: “Quand' anche fosse provata la commissione (della tortura) da parte dei funzionari di polizia, di quegli atti che avrebbero causato i lamentati danni, tali atti non avrebbero potuto imputarsi alla pubblica amministrazione perchĂ© non rivolti ai fini istituzionali di uno Stato democratico, sibbene ai fini personali e egoistici di chi li pose in essere”.

 

Fossimo parlamentari chiederemmo se il ministro della Giustizia Clemente Mastella non ritenga di andare lui, da Luciano Rapotez, e chiedergli scusa per quello che è accaduto, abbracciarlo e riflettere con lui su quanto crudele e stupido sa essere spesso lo Stato.

 

A volte ci piace di sognare.

 

 



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